Nove anni dopo l'11 settembre
cambia la strategia USA

18/09/2010

Da un'analisi di George Friedman

Se vogliamo capire questi ultimi nove anni dobbiamo ritornare alle prime 24 ore della guerra e ripensare alle nostre sensazioni in quei momenti. L’attacco fu un vero shock, terrificante nella sua audacia; inoltre non avevamo idea di che cosa sarebbe accaduto poi. Certamente l’attacco  sgombrò il campo dall’attitudine a prendere sottogamba il pericolo. Dove si nascondevano, sul territorio statunitense, le altre cellule di al Qaeda? La loro capacità distruttiva poteva essere maggiore di quella mostrata l’11 settembre? Come scoprirle e distruggerle? Chi non era terrorizzato il 12 settembre di certo non aveva il senso della realtà. Molti di coloro che ora dicono che la reazione USA fu sproporzionata dimenticano il panico che provarono allora; ora siamo tutti più calmi e razionali, nove anni dopo. […]

Alla base di ciò che successe ci fu la totale mancanza di conoscenza e comprensione del fenomeno al Qaeda, in particolare delle sue potenzialità e dei suoi propositi. Finché non sapevamo esattamente come stavano le cose, l’ unica possibilità di azione era  prepararci al peggio.  Questo fece l’amministrazione Bush, convinta che al Qaeda potesse avere armi nucleari ed essere pronta ad utilizzarle contro gli Stati Uniti. […]
Bush fu vittima di un decennio di fallimenti dell’intelligence, che non sapeva nulla della natura di al Qaeda. Il fallimento dell’intelligence consiste non tanto nel non aver previsto l’11 settembre, ma nel non aver avuto nessuna idea - il 12 Settembre - della struttura globale, della potenzialità, delle intenzioni e dei punti deboli di al Qaeda. Senza queste informazioni adottare una politica adeguata era come pilotare un aeroplano con strumentazione difettosa in una notte di tempesta. […]
All’indomani dell’attentato il Presidente aveva tre priorità:
1)      assicurare all’opinione pubblica che sapeva che cosa fare;
2)      fare effettivamente qualche cosa di risolutivo;
3)      potenziare l’apparato di intelligence e sicurezza, per avere informazioni attendibili sui rischi e sulle possibili azioni. […]
Guardando agli ultimi nove anni, possiamo trarre due conclusioni:
-          non ci sono stati altri attacchi su larga scala da parte di terroristi islamici in USA;
-          sono passati nove anni dall’11 Settembre 2001 e la guerra continua. […]
L’11 settembre ha scombussolato il Grande Gioco strategico degli Stati Uniti che, invece di elaborare un piano antiterroristico globale, hanno rivolto ossessivamente l’attenzione all’area specifica situata tra il Mediterraneo e l’Hindu Kush. […] Gli Stati Uniti avevano sempre cercato di mantenere l’equilibrio delle forze nella regione mantenendo vivi gli antagonismi locali fra gli stati (fra Iran e Iraq, fra India e Pakistan, etc.) e fra i gruppi etnici e religiosi, in particolare in Iraq e in Afghanistan – i due principali teatri di guerra. In entrambi i casi gli Stati Uniti sfruttavano le divisioni interne, offrendo aiuti alle diverse fazioni in modo da mantenere l’equilibrio di potere. (…)
L’ossessione americana immediatamente dopo l’11 settembre è comprensibile. Ma a distanza di nove anni occorre domandarsi se sia ancora ragionevole continuare a focalizzarsi sulla stessa regione. Un atteggiamento così ostinato rischia di distogliere l’attenzione dalle altre aree del mondo e di danneggiare la strategia americana di lungo periodo. […].
In questi anni i Russi hanno approfittato della finestra d’opportunità per consolidare l’egemonia sulla propria periferia. Quando nel 2008 la Russia attaccò la Georgia - alleato americano - gli Stati Uniti non ebbero possibilità di intervenire. Anche i Cinesi hanno potuto disporre di una libertà di azione non ipotizzabile prima dell’11 Settembre. Gli Stati Uniti - completamente assorbiti dai due conflitti in corso - hanno perso di vista il quadro generale permettendo ad altre potenze (Cina e Russia) di atteggiarsi a sfidanti. […]
Nel caso dell’Iraq si può sostenere che è necessario mantenere una presenza nel paese, quantomeno per arginare l’Iran. Non si può dire lo stesso per l’Afghanistan, il cui interesse strategico per gli Stati Uniti è minimo. La sola giustificazione per la guerra è che da lì al Qaeda ha lanciato i suoi attacchi, ma questo non vale più dal momento che al Qaeda può attaccare anche dallo Yemen o da altri paesi. E poiché al Qaeda non ha più organizzato attacchi simili, probabilmente non ha più la capacità di farlo. In ogni caso la ricostruzione dello stato afghano non ha niente a che fare con la guerra contro al Qaeda. […]
Gli Stati Uniti devono continuare a raccogliere informazioni di intelligence e effettuare operazioni segrete contro i terroristi islamici in tutto il mondo. Bisogna però evitare i fallimenti degli anni ’90 e smetterla di combattere una guerra che ormai non ha nessun valore strategicoOccorre invece ripristinare gli equilibri di potere nella regione. Il Pakistan ad esempio vorrà senz’altro avere una parte di potere in Afghanistan, e appena ci proverà si troverà contro i Russi e gli Iraniani – e  il Grande Gioco riprenderà. Nel caso dell’Iran è necessario individuare e appoggiare forze regionali capaci di frenarne l’espansionismo, senza alti costi.
Washington non deve pattugliare ogni regione fino agli estremi confini, ma soltanto  mantenere gli equilibri di potere fra le varie fazioni  locali in gioco. […]
Gli Stati Uniti sono una potenza globale, perciò devono avere una visione globale. I loro interessi e le loro sfide vanno al di là di una singola regione e certamente oltre l’Afghanistan. Il problema non è se gli Stati Uniti possano o meno vincere, ma se vale la pena continuare la guerra alla luce di ciò che sta accadendo nel resto del mondo. […]
Dopo nove anni, la domanda non è che cosa fare in Afghanistan, ma come  aver cura dei propri interessi globali, continuando anche la guerra contro al Qaeda.

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