La crisi dei metalli rari
la politica cinese e l'Occidente

21/10/2010

21 ottobre 2010

I metalli rari o REE (rare earth elements) sono 17, e servono all’industria per  una ampia gamma di prodotti sofisticati: ad esempio computer, componenti elettroniche delle automobili, turbine a vento, impianti per la raffinazione del petrolio, schermi al plasma, sistemi di puntamento dei missili, sistemi radar, telefoni cellulari, marmitte catalitiche e mille altri prodotti oggi di uso quotidiano. Oggi la Cina estrae e produce il 95% di questi elementi, di cui il maggior importatore è il Giappone. Ma la Cina sta limitando le quantità estratte e le quantità esportate, e usa la sospensione delle esportazioni (soprattutto verso il Giappone) come arma di pressione politica.

Al di là delle questioni politiche contingenti, è chiaro che i Cinesi intendono mantenere  riserve di REE per la propria industria, ed a questo scopo hanno iniziato ad aumentare il prezzo dei REE: il costo di molti REE prodotti in Cina è quintuplicato nell’ultimo anno, ma è ancora almeno 5 volte inferiore ai costi internazionali della metà degli anni ’80!   

La Cina però NON possiede il 95% delle quantità di REE al mondo. Fino ai primi  anni ’80  i REE erano prodotti soprattutto negli USA e in quantità inferiori anche in Australia, Brasile, India, Malesia e Russia. Altri giacimenti sono stati individuati in Groenlandia, Vietnam, Canada, Mongolia, Kazakistan.

Ma a partire dal 1980 lo stato cinese investì massicciamente nella costruzione di impianti per l’estrazione e la depurazione dei REE, esportandoli poi a prezzi talmente inferiori a quelli del mercato internazionale da indurre i produttori degli altri paesi a chiudere le operazioni in poco tempo. La presenza di REE a prezzi così bassi è stata uno dei vantaggi per cui  i produttori (soprattutto giapponesi) di auto, di computer e di componenti high-tech hanno investito in grandi impianti di produzione in Cina, portando ai Cinesi lavoro, conoscenza,  alta tecnologia.   

Ora appare chiaro che i paesi industrializzati devono trovare un’alternativa alla dipendenza dalla produzione cinese di REE. Occorre tornare a produrre in altri paesi. Però aprire nuove miniere e nuovi impianti di produzione richiede grandi investimenti, un periodo di tempo piuttosto lungo, e… il permesso di farlo.   Nei paesi occidentali negli anni ’80 i movimenti ecologisti, per lo più con l’accordo di governi e grandi industrie, hanno spinto a promulgare leggi che limitano drasticamente o proibiscono lo sfruttamento minerario del proprio territorio. Conveniva a tutti: alla grande industria che aveva abbondanza di minerali a prezzo di gran lunga inferiore dalla Cina e da altri paesi poveri, non industrializzati  in Asia e in Africa;  ai ‘verdi’ che si presentavano come difensori senza macchia e senza paura della purezza del mondo (i reporter non andavano a documentare che cosa avveniva nelle miniere cinesi, vietnamite, africane…); ai parlamenti e ai governi che si dimostravano illuminati e progressisti.

La produzione di REE è lunga, complessa e altamente inquinante, perché i REE non si trovano puri in natura, ma in combinazione chimica con altri elementi nella roccia. Dato che fin dalla metà degli anni ’80 si è lasciata la produzione ai Cinesi, che non si preoccupano (per ora) degli effetti inquinanti né sugli uomini né sull’ambiente, non si è neppure sviluppata una tecnologia sufficientemente sicura per la produzione di REE con inquinamento minimo. Il percorso per liberare l’industria dalla dipendenza dai REE cinesi non sarà né facile né breve.

A cura di Laura Camis de Fonseca

    

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