La nuova strategia palestinese

13/06/2011

Liberamente tratto da un articolo di George Friedman per Strategic Forecast, 7 giugno 2011.

Meir Dagan, ex direttore del Mossad su nomina di Sharon, considerato un ‘falco’, in questi giorni sostiene che il governo d’Israele deve mostrare più flessibilità e lungimiranza nella gestione della sicurezza e della politica estera. Dagan sostiene che sia utile riprendere in considerazione il piano di pace proposto dai Sauditi nel 2002 – che prevedeva il ritiro di Israele da Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est in cambio del riconoscimento saudita e di altri paesi della Lega Araba della legittimità dello stato di Israele – per togliere ai Palestinesi il vantaggio del possibile riconoscimento di uno stato palestinese da parte della comunità internazionale, prima di aver ottenuto il pieno riconoscimento della legittimità di Israele da parte dei paesi arabi.  

I tre momenti storici

I Palestinesi hanno adottato tre diverse strategie nel corso degli ultimi 60 anni.

 

1)    Nei primi anni 60 e fino alla Guerra dei Sei Giorni gli stati arabi e Arafat pensarono di far nascere uno stato palestinese indipendente dopo la sconfitta e l’eliminazione di Israele, che speravano avvenisse in breve tempo. 

In questo periodo l’OLP – di fresca creazione - adottò una strategia a due facce: attacchi terroristici contro Israele e su suolo europeo, conducendo in contemporanea  trattative con la comunità internazionale per ottenere legittimità politica. Gli stati occidentali, alle prese con i movimenti terroristici interni (BR in Italia, RAF in Germania, ETA in Spagna, IRA in Irlanda, etc.), percepirono l’OLP come una minaccia e rifiutarono di aiutarli.

 

2)   Quando Sadat in Egitto decise di avvicinarsi agli USA e di siglare la pace con Israele, l’OLP si trovò isolata e decise quindi di scatenare l’intifada, sperando di ottenere l’appoggio della comunità internazionale grazie alla riprovazione suscitata dall’aumento dei  morti palestinesi a seguito delle reazioni israeliane. In quest’epoca emerse Hamas, movimento estremista religioso, che Israele tentò – senza successo – di utilizzare per contenere il terrorismo dell’OLP.

 

3)   La guerra intestina fra Hamas e Fatah dopo il 2001 ha indebolito ulteriormente il movimento palestinese, che oltre a combattere contro Israele e smussare l’ostilità sotterranea dei governi dei paesi arabi è anche violentemente spaccato al proprio interno.   I Giordani, ancora memori di ‘settembre nero’ (nel 1970, quando oltre 20.000 guerriglieri palestinesi  tentarono il colpo di stato contro il re, che li attaccò con l’esercito) hanno sempre guardato con sospetto i Palestinesi, e negli ultimi anni anche l’Egitto ha preso le distanze da Hamas – branca palestinese dei Fratelli Musulmani – nella striscia di Gaza chiudendo i valichi e costruendo un muro di separazione. Anche la Siria non sostiene attivamente il nazionalismo palestinese, ma spera di ricreare la ‘Grande Siria’ annettendo Libano, Giordania e Israele – non a caso nel 1976 intervenne nella guerra civile libanese a fianco dei Cristiani Maroniti contro l’OLP. Anche la fine della Guerra Fredda ha tolto protettori ai movimenti palestinesi. Negli ultimi 10 anni i vertici palestinesi, preoccupati che il crescente benessere della Cisgiordania dopo l’inizio del processo di pace degli anni ‘90 causasse una perdita di interesse nella creazione di uno stato palestinese, adottarono una politica di continua provocazione di Israele per spingerlo a reazioni violente ed avere così l’appoggio e la simpatia della popolazione e dell’opinione pubblica internazionale.

 

È iniziata una nuova fase?

La cosiddetta ‘primavera araba’ è un mito: le 'rivoluzioni' democratiche non sono riuscite a cambiare davvero i regimi al potere. Ovviamente hanno introdotto piccoli cambiamenti democratici, e probabilmente ne porteranno altri in futuro, ma in alcuni casi hanno avuto ripercussioni negative sullo stato ebraico – basti pensare all’apertura del valico di Rafah fra Egitto e Gaza. In Egitto la causa palestinese è molto popolare fra la popolazione – come in molti stati arabi – e i recenti cambiamenti potrebbero spingere i nuovi regimi ad accogliere con più convinzione le rivendicazioni palestinesi. Che è esattamente ciò che vogliono Hamas e Fatah, che proprio su questo sono recentemente riuscite a trovare un (fragile) accordo.

Negli ultimi mesi i vertici palestinesi hanno adottato una nuova strategia – sullo stile della flotilla turca – scegliendo azioni che vengono percepite come innocue dalla comunità internazionalee che sono invece percepite da Israele come minacciose per spingere Gerusalemme a reagire in modo brutale, e metter in cattiva luce di fronte alla comunità internazionale lo stato ebraico. Conoscendo la rigidità di Israele su tutto ciò che riguarda la sicurezza, i Palestinesi contano sulla risposta dura di Gerusalemme alle provocazioni, per delegittimare Israele davanti all’opinione pubblica internazionale.

Gli Israeliani vorrebbero isolare internazionalmente i Palestinesi, i Palestinesi vorrebbero fare altrettanto con gli Israeliani. Al momento i Palestinesi pare abbiano la meglio sul piano diplomatico, anche perché il tono apparentemente ‘pacifista’ delle iniziative palestinesi rischia di oscurare il fatto che una larga parte dei Palestinesi continua a essere contraria all’esistenza stessa dello stato ebraico. Gerusalemme  ha una carta da giocare per scombussolare i piani palestinesi: potrebbe accettare pubblicamente di tornare ai confini del 1967 – con i dovuti scambi di territori che tengano conto della variazioni sul terreno – mettendo Hamas di fronte a un bivio: rinunciare ai propri principi (cioè alla cancellazione di Israele) in cambio di uno stato palestinese, oppure mandare all’aria il negoziato. Meir Dagan ed altri in Israele sono favorevoli a tentare la scommessa.

Si tratta di una scommessa dall’esito incerto: i Palestinesi potrebbero ancora una volta rifiutare l’offerta – come ai tempi di Clinton – oppure accettare senza rispettare i patti – come ai tempi di Oslo; in tal caso Israele avrebbe la possibilità di ritornare agli attuali confini, dopo aver esposto il doppiogiochismo e l’inaffidabilità dei vertici palestinesi.   

L’obiezione di molti Israeliani a giocare questa carta è che qualunque ritiro o concessione durante i negoziati con un interlocutore doppiogiochista potrebbe creare pericoli duraturi per lo stato, e che le trattative potranno avviarsi soltanto dopo che tutti i movimenti palestinesi abbiano esplicitamente accettato il diritto di Israele ad esistere, e ad esistere come stato nazionale ebraico.  

   

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