L'Arabia Saudita
e i problemi nell'uso del jihad

25/06/2012

 

Da un’analisi di Stratfor

Lo sceicco Ali al-Hakmi ha messo in guardia contro il pericolo dei siti internet che invitano a scatenare il jihad in Siria. Per quale ragione un noto intellettuale di un paese apertamente conservatore e fondamentalista ha assunto una posizione simile? Per capirlo occorre comprendere le dinamiche all’interno della regione e dell’Islam stesso.

L’Arabia Saudita arma e finanzia i gruppi di opposizione che combattono contro Assad in Siria. Considerata la natura fortemente religiosa del regno, Riyadh ha facilità a stringere legami con miliziani islamisti fanatici, desiderosi di battersi contro la Repubblica Islamica dell’Iran e i suoi alleati sciiti nella regione. Questi elementi però agiscono spesso in modo indipendente, e sono difficili da controllare.

Occorre distinguere fra jihadismo e jihad.

1)   jihad è un termine che fa parte della tradizione islamica, e definisce le regole di guerra che uno stato islamico legittimo deve rispettare.

2)Il jihadismo invece è un’ideologia nata recentemente, nel XX secolo, elaborata da islamisti radicali che considerano il jihad (la lotta armata) come un’arma per rovesciare governi, anche se islamici, e rimpiazzarli con regimi fondamentalisti.

Lo sceicco al-Hakmi – e la monarchia saudita con lui – sostiene che chi non ha sovranità statale non ha il diritto di scatenare il jihad perché solo uno stato islamico può prendere l’iniziativa. Ma allora in quali circostanze si deve dichiarare il jihad?  La risposta a questa domanda è fondamentale per capire l’evoluzione degli eventi.

Buona parte del mondo islamico è convinta che gli Stati Uniti abbiano deliberatamente lanciato una guerra d’invasione contro il mondo islamico e i musulmani, e giustifica  il jihad sulla base di questa convinzione. Riyadh rischia di perdere la faccia nel mondo islamico per via della sua alleanza con gli USA – Teheran infatti non perde occasione per condannare l’alleanza fra Arabia Saudita e Stati Uniti, il grande ‘satana’, e accusa di empietà la monarchia saudita. I vertici sauditi sanno bene che il loro nemico non è in Occidente, ma ben annidato sull’altipiano iranico. Il Medio Oriente  inoltre pullula di militanti sunniti pronti a muovere guerra all’Iran, agli Sciiti e agli Alawiti, specialmente dopo le nefandezze compiute da Assad nei mesi scorsi. Ma l’utilizzo di elementi jihadisti presenta molti rischi: non è difficile finanziare e infiltrare militanti islamisti in teatri di guerra; non è altrettanto semplice però controllarne i movimenti, specialmente da un angolo remoto come l’Arabia Saudita, che non condivide confini con la Siria.  

L’Arabia Saudita conosce bene le difficoltà di controllare milizie jihadiste in territori lontani. Agli albori del regno, il sovrano saudita Abdulaziz Saud dovette domare la ribellione degli Ikhwan, che lo avevano aiutato a conquistare il Nejd e l’Hejaz. Guidati da loro fanatismo, gli Ikhwan continuarono a combattere e attaccarono gli sciiti dell’Iraq meridionale. Il re saudita, per non incorrere nell’ira degli inglesi che controllavano l’Iraq, dovette radunare una grande milizia tribale per fermarli. Anche in Afghanistan fra gli anni ’80 e ’90, e in Iraq nei primi anni 2000, i militanti islamisti finanziati dall’Arabia Saudita presero a muoversi autonomamente e abbracciarono obiettivi più ambiziosi – che prevedevano, fra l’altro, di rovesciare la monarchia saudita!

I Sauditi devono muoversi più cautamente perché non possono contare su apparati centrali efficienti per controllare le cellule islamiste ai quattro angoli del globo, a differenza degli Iraniani.

In Siria, le forze di opposizione combattono faccia a faccia con milizie inviate da Teheran a sostegno di Assad, che hanno una grande esperienza di guerra non convenzionale. Per tenere testa alla Repubblica Islamica i Sauditi sono costretti a impiegare tutte le armi a loro disposizione, in primis le armi ideologiche e religiose.

I militanti jihadisti sono un asso nella manica per l’Arabia Saudita, specialmente ora che gli USA  si ritirano dalla regione e lasciano l’Iraq nelle mani della Repubblica Islamica. Ma Riyadh deve comunque fare attenzione a non esagerare, perché – come ricordano le esperienze passate – la situazione potrebbe sfuggire di mano causando danni irreparabili.

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