L'emergere
di una nuova politica estera americana

15/10/2012

Liberamente tratto da un articolo di George Friedman per Stratfor

Ciò che sta accadendo in Siria evidenzia il fatto che la politica estera americana segue un nuovo indirizzo, secondo il quale gli Stati Uniti non devono più assumersi la responsabilità di tutto ciò che accade nel mondo, ma lasciare che le crisi regionali facciano il loro corso, finché ne scaturiscano nuovi equilibri. Altro esempio è il Pacifico occidentale: nonostante sia un’area cui gli Stati Uniti guardano con molta attenzione, lasciano che le potenze regionali, compresi i loro alleati, giochino una partita a scacchi nei mari della regione, senza intervenire.

Gli Stati Uniti sono costantemente esposti a molteplici e complessi pericoli e la priorità di Washington è sempre assicurare che nessuno di questi metta a repentaglio i suoi interessi fondamentali. Ma se non ci sono interessi fondamentali in gioco, non intervengono. Che si tratti di una buona o di una cattiva politica, ormai è una realtà, frutto di alcune esperienze. Ed è oggetto di dibattito nelle elezioni presidenziali. 

Le radici di questa linea politica affondano nel caso iracheno. Iran ed Iraq erano rivali storici, tra di loro esisteva un equilibrio di potere che nessuno dei due paesi gradiva, ma che né l’uno né l’altro poteva rovesciare a proprio favore: si contenevano a vicenda, senza che fossero necessari interventi esterni. L’intervento statunitense in Iraq ha avuto una conseguenza fondamentale: rovesciando il regime di Saddam Hussein, gli Stati Uniti hanno distrutto l’equilibrio regionale di potere. Poi hanno sottovalutato l’impatto di un’altra scelta – fatta dall’amministrazione Bush e portata avanti da Obama – quella di un ritiro programmato a scadenza. Hanno creduto che questa fosse la  decisione più prudente, senza pensare che avrebbe dato all’Iran più potere e più sicurezza.

Anche il caso libico ha poi insegnato qualche cosa. Gli Stati Uniti non volevano essere coinvolti nell’intervento armato: secondo la logica della nuova dottrina, la Libia non metteva a rischio gli interessi statunitensi. Perciò hanno lasciato che la Francia e i suoi alleati intervenissero, chiarendo però che non intendevano intervenire. Ma quando è apparso chiaro che la campagna aerea sarebbe stata più lunga e difficile del previsto, gli Stati Uniti si sono trovati di fronte alla scelta se rompere l’alleanza con gli Europei o partecipare alla campagna aerea e hanno scelto la seconda opzione, cercando però di limitare il loro coinvolgimento.

Questi casi offrono due lezioni distinte. Innanzitutto non è certo che le campagne volte a destituire brutali tiranni producano regimi migliori di quelli che sono stati abbattuti. Inoltre – come si è visto in Iraq – il mondo non ammira gli interventi per tutelare i diritti umani e può rapidamente cambiare opinione passando dall’invocare l’intervento americano al condannarlo. Un intervento può avere dunque conseguenze inaspettate, specie per gli Stati Uniti, perché quando questi intraprendono una campagna militare, per quanto con riluttanza e cercando di mantenere un ruolo marginale, per gran parte del mondo saranno loro a doverne rendere conto.

Quanto appreso da queste esperienze ha fortemente influenzato l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti di un possibile intervento in Siria, che comporterebbe impegni e rischi sproporzionati rispetto agli interessi americani in gioco.Questo non significa che gli Americani non abbiano alcun interesse in Siria: certo non vogliono che diventi una marionetta nella mani dell’Iran e perciò desiderano la fine del regime di Assad, ma ciò non implica che vogliano intervenire militarmente.

Il comportamento degli Stati Uniti verso la Siria ben esemplifica la nuova linea di politica estera.

Washington non ha dato per scontato che alla caduta di Assad sarebbe succeduto un regime migliore dal punto di vista morale, e ha invece dato per scontato che a occuparsi della questione siriana fossero le forze regionali che hanno più interesse a circoscrivere la sfera d’influenza iraniana e maggiori possibilità di determinare il risultato della crisi: Turchia e Arabia Saudita. Israele invece, pur essendo potenza regionale, non è in condizioni di intervenire: manca dell’autorità necessaria per imporre una soluzione, non può occupare la Siria, e se sostenesse una fazione siriana la delegittimerebbe.  

Qualsiasi intervento in Siria dovrebbe essere regionale, guidato dagli interessi nazionali dei partecipanti. Ma i Turchi sanno che il loro interesse nazionale, benché toccato dalla questione siriana, non richiede necessariamente un intervento militare, che sarebbe di difficile esecuzione e di risultato incerto. L’Arabia Saudita e il Qatar, tradizionalmente refrattari a intervenire direttamente, hanno agito clandestinamente, usando denaro, armi e combattenti religiosi per influenzare il corso degli eventi. Nessuno di questi paesi era pronto a correre rischi per influenzare gli esiti della crisi in Siria: erano pronti a usare vie indirette, più che la forza militare convenzionale. Il risultato è che il conflitto è rimasto irrisolto. Questo ha costretto sia il regime siriano che i ribelli a riconoscere le scarse possibilità di ottenere una vittoria militare tanto netta da porre fine al conflitto e il compromesso politico pare nell’aria (pare che l’opposizione permetterà che alcuni elementi del regime restino in Siria e partecipino al nuovo governo).

Con l’attuale politica estera americana, il destino di un paese come la Siria è nella mani dei suoi cittadini e dei paesi vicini, poiché gli Stati Uniti non vogliono subire né i costi né l’astio derivanti dal tentar di risolvere il problema. Più che una forma di isolazionismo, si tratta del riconoscimento dei limiti del loro potere e dei loro interessi: non tutto ciò che accade nel mondo richiede o giustifica l’intervento americano.

Questa dottrina, che è gradualmente emersa durante l’amministrazione Obama, pare in conflitto con le vedute di Romney, ma la politica estera è dettata dalla realtà più che dai presidenti o dai programmi politici. Gli Stati Uniti sono entrati in una fase in cui devono passare dal dominio militare a una forma più sottile di manipolazione e, soprattutto, lasciare che gli eventi facciano il loro corso. Si tratta di una maturazione della politica estera, non di una sua regressione, e avverrà indipendentemente da chi vincerà le elezioni: il paese sta comunque cambiando il proprio atteggiamento verso il mondo, si concentra su ciò che è essenziale e accetta che la maggior parte del pianeta, quella che non è fondamentale per i suoi interessi, sia libera di evolvere come meglio crede. Più che di un disinteresse totale − che sarebbe impossibile, visto che gli Stati Uniti hanno il controllo degli oceani e producono quasi un quarto del PIL mondiale − si tratta di un impegno controllato, che si basa su una visione realistica dell’interesse nazionale.

Questo sconvolgerà il sistema internazionale e creerà tensioni negli Stati Uniti sia da parte della sinistra, che vuole una politica estera umanitaria, che della destra, più attenta all’interesse nazionale. Ma le lezioni dell’ultimo decennio sono state molto pesanti e cambieranno le dinamiche del sistema internazionale, non perché qualcuno abbia deciso di punto in bianco un nuovo indirizzo di politica estera, ma perché la realtà in cui gli Stati Uniti operano ha mostrato i limiti delle possibilità di intervento.

A cura di Valentina Viglione

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