La classe imperialista
negli USA

26/11/2012

 

Liberamente tratto da un saggio di Robert Kaplan.

Gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo imperiale fin dall’occupazione delle Filippine nel 1899. L’impero americano non ha colonie: è adeguato all’era post-moderna dell’informazione, in cui la ricchezza non è necessariamente legata ai possedimenti.

Tuttavia le truppe americane hanno combattuto e combattono tuttora per terra e per mare per mantenere l’ordine nei luoghi più remoti della terra, così come hanno fatto prima di loro tutte le altre potenze imperiali: i Romani, i Veneziani, i Portoghesi, gli Spagnoli, gli Olandesi e gli Inglesi. L’esercito americano supera in armamenti e in dimensioni quello delle altre 10 maggiori potenze messe insieme: dire che non è un esercito di proporzioni imperiali sarebbe negare la realtà.

Come gli imperi del passato, gli Stati Uniti impiegano periodicamente l’esercito in interventi di tipo imperialista. Ogni volta gli Americani sostengono di agire in nome dei diritti umani, in favore della civiltà. Anche questo è simile a quello che hanno sempre proclamato gli imperi del passato. Il potere imperiale è per definizione un potere che si esercita di lontano, col minimo uso della forza, col massimo uso di quello che oggi chiamiamo soft power: egemonia culturale e tecnologica, ricchezza degli scambi. Molti imperi si sono plasmati e retti su forti principi filosofici e hanno etichettato i propri valori come universali. Spesso avevano ragione: Roma, Venezia e la Gran Bretagna non erano soltanto grandi potenze militari, ma erano anche le società più illuminate del loro tempo. Democrazia interna e imperialismo militare possono coesistere.

Gli interventi militari continuano a verificarsi anche grazie all’esistenza di una “classe  imperialista” che li invoca e li sostiene: si tratta di un gran numero di persone che hanno un’idea chiara della missione americana, il cui successo è strettamente legato ai loro interessi personali. È una classe formata da giornalisti, esperti di politica, analisti di think tank che insieme definiscono i termini del dibattito e, così facendo, determinano le opinioni che influenzano qualsiasi governo americano nel campo della politica estera. Sono persone economicamente benestanti, che generalmente hanno frequentato le migliori scuole del paese e che hanno accesso ai mezzi di comunicazione. Sono sia internazionalisti liberali che neo-conservatori: entrambi in passato hanno considerato necessario l’utilizzo della forza militare statunitense per difendere o imporre i valori americani. Ma non si tratta né di cospiratori né di illiberali: la parte più significativa di questo gruppo è animata da intenzioni umanitarie, crede che il ruolo dell’America nel mondo sia impedire il verificarsi di genocidi e proteggere minoranze etniche o religiose in pericolo. L’imperialismo è una forma relativamente debole di sovranità esercitata da una grande potenza, che non controlla regioni lontane come controlla il proprio territorio, ma è in grado di influire su risultati e processi politici in varie parti del mondo. L’umanitarismo americano può esser considerato una variante dell’imperialismo, che si oppone all’isolazionismo.

La “classe imperialista” non è certo un fenomeno passeggero, che sparisce al variar di governo: rimane attiva e mantiene la pressione affinché si intervenga militarmente per porre rimedio alle gravi violazioni dei diritti umani, a prescindere dagli interessi nazionali americani. C’è chi sostiene che, mano a mano che gli Stati Uniti saranno meno dipendenti dalle importazioni di petrolio dal Golfo Persico, i loro interessi in Medio Oriente andranno affievolendosi. Ma se anche gli USA riuscissero a divenire autosufficienti in campo energetico, non è realistico pensare che abbandoneranno il Medio Oriente al caos. Se si verificheranno atrocità, se i regimi alleati chiederanno aiuto, la “classe imperialista” pretenderà risposte adeguatamente forti. Questa classe è il frutto culturale e politico della democrazia e della prosperità americane: soltanto la fine della prosperità potrebbe far tramontare la “classe imperialista” americana.

Gli anni ‘90 sono emblematici in tal senso: i mercati dell’energia erano stabili e l’America era una potenza  unipolare che si crogiolava nella vittoria della Guerra Fredda e non correva pericoli. Non c’era dunque alcun evidente interesse a intervenire nei vari angoli del mondo - eppure l’America è intervenuta militarmente in Somalia, ad Haiti, in Bosnia e in Kosovo. Chi ha fatto pressione affinché questo accadesse? La classe imperialista, chiaramente. Si potrebbe facilmente obiettare che − almeno in alcuni di questi casi − l’intervento militare è stata la cosa giusta da fare; ma il punto non è se fosse giusto o meno, il punto è che è successo. Ed è successo più volte, indipendentemente dagli interessi statunitensi in gioco. Anche se qualcuno sostiene che più l’impero è sicuro, meno è probabile che si impegni negli interventi, gli anni ’90 ci dimostrano che non è così.  

Pertanto possiamo prevedere interventi umanitari periodici anche in futuro, ostacolati soltanto dal ricordo del fallimento di qualche intervento precedente, o dalla fine della prosperità. Ma l’imperialismo continuerà,  secondo dinamiche decise dai singoli presidenti, i quali però dovranno sempre tenere a mente che il realismo senza una dose di idealismo non è realistico. È l’idealismo che rafforza l’identità dell’America in politica estera. Sarà soprattutto la necessità di mantenere forte l’identità degli USA come difensori dei diritti umani nel mondo ad alimentare l’interventismo.

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