Buoni cittadini diventano assassini di massa
Parte II – “Dovere” e fede nella “giusta retribuzione”

25/07/2013

Tutti i partecipanti a stragi di massa invocano il ‘dovere’ e l’obbedienza agli ordini come giustificazione delle loro azioni. Questa fu la difesa costante di Eichmann al suo processo, ad esempio. È una facile scusa, ma non è necessariamente falsa per chi la usa.

Ecco l’interrogatorio di Munyambuga Thaddèe, catechista cristiano, che nel 1994 impedì ai Tutsi di sfuggire agli Hutu che li inseguivano per ucciderli a colpi di machete:

a.    M.T.– Ho solo impedito ai Tutsi di sfuggire ai gendarmi. Ma io, io non ho ucciso con le mie mani. Sono innocente.

b.    Y.M.– E i Tutsi che avete consegnato ai gendarmi, sono morti?

c.    M.T.– Nessuno è stato ucciso alla barriera che sorvegliavo, tranne i Tutsi del mio quartiere.

d.    Y.M.– Parlo di quelli che voi avete consegnato ai gendarmi.

e.    M.T.–Quei Tutsi, ho solo impedito loro di fuggire e li ho portati dai gendarmi. Ma non li ho uccisi. Non ho ucciso nessuno con le mie mani. Bisogna riconoscere la mia innocenza. Sorvegliavo solo la barriera. Ho solo ubbidito.

f.     Y.M.– Ma avete ubbidito a delle persone che volevano uccidere!

g.    M.T.– Sono innocente. Non ho sangue sulle mie mani.

Y.M.– E avete salvato delle persone?

M.T.– Non ho salvato nessuno

In “Psicologia del male” lo psicologo Piero Bocchiaro sostiene che, sulla scorta dei molti esperimenti condotti per decenni in molte università del mondo su gruppi di studenti e di persone normali, l’obbedienza all’autorità e agli ordini si può spingere facilmente fino ad uccidere in persone che hanno una forte credenza in un mondo giusto, per cui ciascuno nella vita ottiene ciò che merita e merita ciò che ottiene. Per costoro sia l’autorità sia la vittima meritano il ruolo che rivestono.

«Impariamo tutti da piccoli a obbedire a genitori e insegnanti, col tempo la propensione alla deferenza si estende a chi impersona l’autorità. Quando le richieste dell’autorità entrano in conflitto con il principio morale di non far male agli altri, pochi si sentono responsabili di scegliere se obbedire o no perché dice Bocchiaro l’uomo comune si sente responsabile delle proprie azioni quando ha l’impressione che nascano dal suo intimo, non quando scaturiscono da interessi altrui»  Scrive Bocchiaro: grazie a questo meccanismo mentale «per sterminare milioni di persone non è necessario possedere la patente di cattivo, […] basta assolvere i propri incarichi, accettare in maniera acritica le disposizioni altrui e lasciare che l’abitudine faccia il resto».  

Renè Pacifique, scampato al massacro in Ruanda, testimoniò al processo che il borgomastro della città riteneva 'normale 'che i massacratori dovessero fare il loro ‘lavoro’ nei confronti dei concittadini Tutsi. «Siamo andati dal borgomastro. Ovunque andiate, ci ha detto, incontrerete un Hutu. Deve uccidere, è il suo lavoro. Restate piuttosto tranquilli a casa vostra e lasciatevi massacrare con dignità».

Per avere il coraggio della responsabilità, dice Bocchiaro, non basta neppure lo spirito critico, ma occorre avere «la passione per se stessi», cioè la «componente emotiva che fa scattare la persona quando qualcuno estende un diritto in un territorio che non gli appartiene». Altrimenti ci si pone ‘in stato di agente’, di semplici esecutori della volontà altrui, per proteggerci dall’angoscia della scelta.

La scrittrice Gitta Sereny intervistò ripetutamente Franz Stangl, comandante il campo di sterminio di Treblinka, nel carcere in cui scontava la condanna all’ergastolo. Stangl disse esplicitamente che per ottundere la propria coscienza la suddivideva in compartimenti stagni, partendo dal principio che «Un’azione, per essere criminale, doveva possedere quattro requisiti: doveva esservi un soggetto, un oggetto, un’azione e uno scopo. Se mancava uno di questi quattro elementi, allora non si trattava di un’azione punibile». Poiché gassare migliaia di persone al giorno non era un suo scopo personale, non se ne sentiva responsabile.  Così per sentirsi bene coltivò quella che definì etica professionale: migliorava l’organizzazione e le strutture del campo di sterminio, da bravo manager.   «Se c’era qualcosa che non andava, io dovevo scoprirlo. Quella era la mia professione: mi piaceva. Mi appagava. E sì, ponevo in questo la mia ambizione, non posso negarlo. […] Mi concentravo sul lavoro; non facevo che lavorare».  Così riusciva a ‘sviare la mente’ durante la giornata. «Però ‘alla fine, l’unico modo per sopportare la cosa era bere. Mi portavo un bicchierone d’acquavite a letto, ogni sera, e bevevo. Ma ciò che mi sosteneva di più era la mia fondamentale fede nell’esistenza di una giusta retribuzione».

Delle vittime, degli Ebrei, Stangl rifiuta sempre di parlare, salvo per dire che non c’era né comunicazione, né terreno comune, quindi non c’era neppure odio, solo disprezzo. «È di qui che sorge il disprezzo, non potevo capire come potessero arrendersi a quel modo»  e diventare un massa di disgustosa carne in putrefazione, per opera sua.

Alexandre Jardin in “Des gens très bien” racconta il proprio sconcerto perché il nonno Jean - altissimo burocrate di stato e amico personale di presidenti della Repubblica fino alla fine della vita - aveva partecipato all’organizzazione de ‘la rafle’, cioè del rastrellamento e della consegna ai nazisti di 13.152 Ebrei francesi da inviare ad Auschwitz a luglio del 1942, senza mai dare segno di rimorso né vergogna né angoscia, neppure dopo decenni.   La desolata conclusione di Jardin è che «persone normali possono partecipare alle peggiori azioni se si immergono in un contesto che dà un altro senso a quelle azioni […]. Il male per compiere il proprio corso ha bisogno di elevati valori, di onestà e di abnegazione. Occorrevano credenze patriottiche e sacrificali sincere per dissolvere la colpevolezza […] La criminalità di massa è per definizione l’azione di uomini dotati di moralità. Per uccidere molto e senza rimorsi, ci vuole un’etica»

Browning rileva come nelle testimonianze dei poliziotti del battaglione 101 il senso del dovere verso il gruppo di appartenenza offuschi totalmente la coscienza dell’orrore perpetrato. Scrive Browning: «I concetti di ‘lealtà’, ‘dovere’, ‘disciplina’ diventano imperativi morali che travalicano qualsiasi identificazione con la vittima. Gli assassini finiscono col sentirsi vittime del dovere»Uno di coloro che si fecero sostituire dopo parecchie fucilazioni perché non tollerava più la repulsione fisica, dichiarò: «Se mi si domanda perché in un primo tempo ho sparato con gli altri, devo rispondere che nessuno vuole essere considerato un codardo».  Ancora vent’anni dopo, considerava questo un atto di coraggio.  Soltanto uno dei poliziotti del battaglione si dichiarò colpevole negli interrogatori, molti anni dopo. Chi agisce all’interno di un gruppo costituito sotto la protezione di una autorità riconosciuta è convinto di non essere giudicabile né punibile come persona. Si sente innocente, o vittima di un tristo dovere.

In Cambogia nel 1974 il compito di uccidere veniva assegnato dai Khmer rossi ai contadini, come prova di ‘coraggio’ e di lealtà. In un documentario girato nel 2009 da Rob Lemkin e Thet Sambath un contadino narra: «Ne tagliavo così tante di gole che mi doleva la mano, allora cambiavo e colpivo al collo». I soldati erano al loro fianco per coprire la bocca dei bambini che gridavano mentre guardavano l’assassinio dei loro genitori. Un contadino ricorda di aver acquisito un certo gusto ad uccidere in compagnia.

Rudolf Hoess, che fu comandante ad Auschwitz, rivela nelle sue memorie una profonda dipendenza emotiva dal gruppo. «Nuovamente ritrovai una patria, una sicurezza nella solidarietà dei camerati. E, cosa strana, proprio io, il solitario che aveva dovuto risolvere da solo tutti i problemi interiori e tutti i sentimenti, mi sentii sempre attratto dallo spirito di corpo, nel quale ciascuno poteva affidarsi ciecamente agli altri nel bisogno e nel pericolo». A dire il vero nel bisogno e nel pericolo erano le vittime, ma è probabile che Hoess avesse davvero la sensazione di essere in pericolo e di doversi difendere in gruppo. «Ci tenevamo stretti gli uni agli altri: guai a colui che rompeva questo legame con la comunità, a colui che tradiva!»

Può darsi che per compiere orrende stragi di civili inermi non basti l’ideologia, non basti aver ricevuto un ordine, ma occorra anche essere parte di un gruppo? 

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