Dalla prigionia alla libertà
una voce della Resistenza Iraniana

11/03/2014

Il racconto che segue è la testimonianza di uno degli ostaggi rapiti nel luglio del 2009 durante il primo raid delle forze di sicurezza irachene contro i membri della Resistenza Iraniana di Camp Ashraf, in cui morirono sette Mojahedin e altri 300 vennero feriti. 

Le forze di sicurezza irachene si sono allora macchiate di gravi violazioni dei diritti umani su individui inermi e protetti dalla quarta convenzione di Ginevra. L’Iraq è tutt’ora un paese dove l’uso arbitrario della violenza contro nemici ed oppositori politici è la norma, dove il rispetto della libertà individuale è quasi inesistente. Questo non può che alimentare divisioni e instabilità negli anni venturi. 

“Dopo che gli USA hanno passato al governo iracheno il compito di badare alla nostra sicurezza, abbiamo capito che la nostra vita era in pericolo. Non abbiamo dovuto attendere molto prima che il peggio accadesse.

Il 28 luglio 2009 le forze di sicurezza irachene hanno circondato il campo con mezzi da guerra, hanno abbattuto le staccionate e hanno iniziato a picchiarci a colpi di bastone. È stato un attacco di inaudita violenza (vedi video). Avevamo ricevuto l’ordine di non reagire, e così abbiamo fatto. Noi non avevamo nulla contro il governo iracheno, eravamo ospiti in un paese straniero, se ci fossimo ribellati avrebbero potuto accusarci di violenza contro le autorità irachene. Abbiamo quindi resistito pacificamente, nel tentativo di bloccare l’ingresso delle forze irachene nel campo, ma molti di noi sono stati gravemente feriti.

A un certo punto qualcuno ha dato l’ordine di sparare contro i residenti di Ashraf; dopo i primi colpi è scoppiato il panico, tutti hanno iniziato a correre da una parte all’altra per cercare un riparo. I bulldozer scorrazzavano a velocità elevata investendo chiunque fosse sul percorso. Posso testimoniare che molti degli assalitori parlavano persiano, ed erano quasi sicuramente membri della Forza Quds (reparto speciale delle Guardie della Rivoluzione che ha il compito di esportare la rivoluzione all’estero).

Ricordo di aver visto un amico ferito a un braccio. A un certo punto sono stato preso, caricato su un camioncino e portato via. Insieme ad altre persone, siamo stati trasportati in una piccola stanza di 3x4 metri. Ci siamo contati: eravamo 32. La stanza era troppo piccola per tutti, il clima era rovente, quindi a turno 6 di noi stavano fuori, nell’anticamera, mentre gli altri sedevano in terra.

Quando sono arrivate le guardie, ci hanno chiesto di alzarci e uscire. Abbiamo chiesto di tornare ad Ashraf. Loro volevano che noi ci alzassimo e li seguissimo. Ma noi abbiamo opposto resistenza: ci siamo messi vicini vicini, abbiamo intrecciato braccia e gambe insieme per formare un corpo unico rifiutando di collaborare. La polizia irachena ha cercato di separarci, di trascinarci fuori, ma eravamo così ben uniti che per farci alzare e uscire ci ha messo almeno un’ora e mezza!

Dopo ci hanno sbattuto in cella. Qui abbiamo incontrato altri quattro Mojahedin che arrivavano dall’ospedale dove erano stati medicati sommariamente. Abbiamo passato molti giorni in cella. Abbiamo chiesto più volte di tornare a Camp Ashraf, senza ottenere risposta. Allora abbiamo iniziato lo sciopero della fame.

Ricordo un evento in particolare della prigionia. Il 15 agosto era l’anniversario della fondazione dei Mojahedin (fondati nel 1965). Ci siamo preparati all’evento per festeggiarlo a dovere. Ogni volta che le guardie ci portavano un po’ di acqua e zucchero, ne conservavamo un po’ sul fondo del bicchiere e lo facevamo essiccare. Poi prendevamo lo zucchero essiccato e lo nascondevamo. Così il 15 agosto abbiamo tirato fuori i medaglioni di zucchero, li abbiamo spezzati e abbiamo deciso di mangiarceli come se fossero un pezzo di torta! Era un modo per tenere accesa la speranza, la voglia di combattere. Potevano farci di tutto, ma non avrebbero spezzato la nostra unità.

Per tre volte siamo stati portati di fronte a un giudice, sempre con un’accusa diversa. Il giudice ogni volta diceva che non c’erano prove per accusarci e ci scagionava. Ma per tre volte ci hanno riportati in cella e si sono inventati una nuova scusa per tenerci dentro e riportarci di fronte alla corte. Al-Maliki non voleva lasciarci andare: probabilmente voleva consegnarci alle forze di sicurezza iraniane ma aveva paura delle possibili ritorsioni da parte della comunità internazionale.

Abbiamo continuato lo sciopero della fame. Dopo 66 giorni sono arrivati alcuni poliziotti che ci hanno intimato di seguirli, perchè ci avrebbero caricato su un pullman per portarci finalmente ad Ashraf. Non era vero. Non poteva essere vero. Per questo ci siamo di nuovo legati l’uno all’altro come il primo giorno e ci siamo opposti a ogni trasferimento. La polizia ha fatto irruzione nella cella, ma ci ha messo parecchio tempo per slegarci! Il segreto era tutto lì: restare uniti, come un corpo solo, senza mostrare paura o preoccupazione. Gli agenti volevano spezzare il nostro spirito di solidarietà, toglierci ogni speranza, e noi cercavamo di resistere.

Da questa cella siamo stati portati in un carcere di massima sicurezza nella zona verde. Qui abbiamo iniziato lo sciopero della sete. Dopo sette giorni le nostre condizioni di salute erano critiche: non riuscivamo quasi più ad alzarci in piedi, non avevamo energie, sentivamo che la fine era vicina. Poi, d’improvviso, la scarcerazione. Non siamo riusciti a gustarcela fino in fondo, perché eravamo allo stremo delle forze.

Siamo stati riportati ad Ashraf, dove siamo stati accolti dai nostri fratelli e dalle nostre sorelle. Eravamo ancora in stato di semi-incoscienza, abbiamo impiegato diverse settimane a recuperare i danni dello sciopero della fame e della sete. All’inizio non riuscivamo a mandare giù niente, potevamo bere pochi liquidi per volta, ma piano piano ci siamo ripresi.

Ci hanno spiegato che la pressione internazionale sul governo di al-Maliki era così forte che aveva dovuto rilasciarci. Dobbiamo ringraziare i governi esteri che hanno fatto molto per noi, ci hanno salvato la vita. L’opinione pubblica occidentale ci ha aiutati, e siamo molto riconoscenti per questo.”

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