Il disfacersi dell'Eurasia
da un articolo di Robert Kaplan

28/06/2014

Da un articolo di Robert Kaplan per Strategic Forecasting

In tutta l’Eurasia, dalla penisola iberica alla Corea del Sud, sono in corso cambiamenti epocali, che non sempre hanno grandi titoli sui giornali, ma tendono a essere presi sotto gamba là dove avvengono in modo graduale e non improvviso. 

Ma i grandi cambiamenti tecnologici e demografici della nostra epoca sono destinati a provocare cambiamenti anche nell’identità politica, e in ultima analisi a modificare i confini degli stati. Per quanto le aspirazioni alla democrazia liberale possano essere causa di rivolgimenti, sono ancora e sempre l’etnia e l’appartenenza geografica a guidare i cambiamenti nella maggior parte dei casi. Sui giornali internazionali fioccano analisi di opinionisti interessati alla battaglia delle idee, ma per capire la geopolitica postmoderna è più utile affidarsi a parole che ci sembrano obsolete, che speravamo obsolete, come “sangue” e territorio o “suolo”.

La presenza di un organo transnazionale come l’Unione Europea e il declino economico dell’Europa hanno contribuito allo sviluppo del separatismo scozzese nel Regno Unito e di quello catalano in Spagna. Il solo fatto che si sia iniziato a parlare di diritto all’autodeterminazione rischia di mettere in cattiva luce Gran Bretagna e Spagna di fronte all’opinione pubblica internazionale. Il divorzio fra questi paesi europei – se mai accadrà – avverrà in maniera pacifica, ma la stessa cosa non si può dire per il Medio Oriente.

La Libia ormai non esiste più come stato, così come non esistono Siria e Iraq. Lo Yemen è a malapena lo spettro di uno stato, mentre il Kurdistan forse lo diventerà a breve. Questi grandi cambiamenti che di solito – salvo casi di guerra mondiale – impiegano tempi lunghissimi, sono avvenuti nell’arco di pochi anni. È vero che gli interventi militari americani hanno accelerato il processo di disintegrazione in Libia e Iraq, ma c’è qualchecosa di più importante sotto. Qualche cosa che ha mandato in crisi l’assolutismo secolarizzato e modernizzatore in Siria, in Iraq e, in maniera meno visibile, in Libia: sotto la corazza delle tirannie non esisteva una società civile. Perciò ai primi segni di cedimento sono riemerse tendenze settarie ataviche, le forze tribali sono uscite allo scoperto.

Osservando con attenzione la situazione, ci è chiaro che postmodernismo - come si tende a definire il superamento delle strutture politiche e sociali dell’epoca della Guerra Fredda - non è sinonimo di uno stadio più avanzato di valori universali. Postmodernismo significa invece chiusura in una nuova forma di identità intrisa di elementi religiosi, che si sposa bene con le ultime forme di comunicazione e le ultime tecniche per l’uso degli esplosivi. In un mondo simile l’ottimismo non può condurre a non vedere i fatti concreti e non può basarsi su astrazioni filosofiche.

Nel Sudest asiatico dovremo fare i conti con Afghanistan e Pakistan, che per la prima volta in 13 anni non avranno più l’appoggio di una presenza militare americana. Democrazia non significa semplicemente mettere una croce sulla scheda, ma richiede istituzioni forti, che in Afghanistan evidentemente non esistono. Se l’Afghanistan si indebolirà ulteriormente negli anni a venire, la linea di confine fra Afghanistan e Pakistan svanirà dalle mappe future. Uno stato può esistere sulle mappe geografiche solo se ha il monopolio dell’uso della forza all’interno dei propri confini: altrimenti la mappa mente.

In Asia centrale ci sono parecchi stati – governati tuttora con metodi sovietici – a rischio disintegrazione: i vecchi leader stanno invecchiando, la tensione domestica aumenta, per non parlare dei confini che non tengono conto della composizione etnica. Lo stesso vale per il regime militare del Myanmar, un paese dove le tribù locali dispongono anche di propri eserciti. Dovunque si guardi, sembra che i confini, interni ed esterni, non siano più un dato di fatto.

In un’epoca di rapidi progressi tecnologici il regime nordcoreano non può avere ancora vita lunga. Lo scorso secolo gli altri stati divisi in due – Germania, Vietnam e Yemen – furono riuniti in modo rapido e indolore contro ogni previsione degli accademici esperti di relazioni internazionali. Possiamo prevedere che assisteremo alla riunificazione della Corea sotto la bandiera di Seoul, il che cambierà certamente gli equilibri di potere in Asia settentrionale e in Estremo Oriente.

Ci sono poi i due paesi che occupano gran parte dell’Eurasia: Cina e Russia. Entrambi ospitano minoranze etniche con alti livelli di natalità, superiori a quelli dell’etnia dominante – Russa e Han. Ad esempio in Russia la minoranza musulmana, specialmente nel nord del Caucaso, è molto importante. E chissà che ne sarà della mappa dell’Ucraina negli anni a venire! La Cina è circondata dai Mongoli a nord, dagli Uiguri musulmani a Ovest e dai Tibetani a Sudovest.

Le minoranze in Russia e in Cina hanno un grande astio per Mosca e Pechino. Per quanto in Occidente si sollecitino questi paesi a concedere maggiore libertà per allentare le tensioni, è probabile che sia invece l’opposto, cioè il pugno di ferro, a tenere insieme questi enormi stati.

Non è detto che le riforme politiche dell’era post-Putin – o post-comunista nel caso cinese – porteranno maggiore democrazia; potrebbero al contrario generare più caos e stravolgere la mappa della regione. E se la Russia diventasse più instabile della Cina, molte aree della Siberia e della Russia orientale sarebbero oggetto di colonizzazione da parte dell’enorme popolazione cinese, il che potrebbe creare una nuova situazione su terreno.

La verità è che noi abbiamo pochi elementi per capire le situazioni reali sul terreno. La comunicazione elettronica ci dà solo l’illusione della conoscenza, non la conoscenza stessa. Quante élite culturali e politiche occidentali sanno per esempio che l’instabilità in Yemen potrebbe condizionare la stabilità dell’Asir in Arabia Saudita? E che se l’Arabia Saudita in futuro diventasse instabile – causando problemi al mercato petrolifero e ai mercati finanziari – la provincia di Asir ne sarebbe proprio la causa principale? Che cosa sappiamo veramente della situazione nella valle di Fergana, densamente abitata e instabile? Eppure dal suo futuro dipende il futuro dell’intera Asia centrale. E che cosa sappiamo delle milizie del Myanmar o dei rapporti della Russia con le minoranze etniche in Moldavia? La lezione che viene da Libia, Siria e Iraq ci è servita per capire la nostra ignoranza delle realtà locali e tribali, non di certo per confermare la nostra saggezza o conoscenza.

Per fare previsioni occorre partire dalla geografia, così come concepita nel mondo del XIX secolo – tenendo conto di territorio, antropologia culturale, risorse naturali, vie commerciali e così via. Oggi la geografia è più importante che mai. La tecnologia non ha cancellato il ruolo della geografia, al contrario: rendendola più malleabile, l’ha resa ancora più preziosa.

Se continueremo a usare concetti astratti per la nostra politica estera invece di affidarci a esperti capaci di decifrare la cultura locale, non potremo che rimanere sorpresi da quanto avviene in Eurasia. In altre parole, più saremo umili sulla nostra reale conoscenza, meno rischieremo di cadere in errore.

 

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