Come lo Stato Islamico
modifica la geopolitica del Medio Oriente

28/11/2014

L'opinione di George Friedman pubblicata sul sito di Strategic Forecasting.

Sul piano ideologico non ci sono grandi differenze fra lo Stato Islamico e altri movimenti jihadisti, ma sul piano geografico-territoriale la differenza è enorme. Al Qaeda per decenni ha cercato di conquistare un territorio ma, non riuscendovi, è rimasto un movimento terroristico sparso, diffuso su un’ampia area geografica, senza il controllo di un singolo territorio. 

Al Qaeda è un movimento, non un posto preciso. Ma lo Stato Islamico, come suggerisce il nome stesso, è un’altra cosa. Si considera il fulcro da cui dovrebbe nascere uno stato islamico transnazionale, ed è un’entità geografica già esistente in Siria e Iraq.

Il gruppo controlla un territorio più o meno definito e dispone di qualche cosa di simile a un esercito convenzionale che ha il compito di difendere ed espandere lo stato. Pur fra avanzate e ritirate, lo Stato Islamico ha fino ad ora mantenuto il carattere di entità territoriale. Benchè lo IS dedichi una parte consistente delle risorse a movimenti di guerriglia locali e abbia un apparato terrorista regionale, siamo di fronte a qualche cosa di nuovo: un movimento jihadista che ha i tratti di uno stato regionale. Perciò lo Stato Islamico ha creato un vortice che attira le potenze regionali e globali, costringendole a rivedere la propria linea. La presenza dell’IS è un elemento che non si può semplicemente ignorare, perché esiste sul terreno. Ne consegue che gli stati della regione e del mondo sono costretti a riconsiderare le loro politiche e i rapporti con gli altri stati regionali.

Lo vediamo in Siria e in Iraq. Damasco e Baghdad non sono sole nell’affrontare lo Stato Islamico: anche le altre potenze regionali – Turchia, Iran, Arabia Saudita in primis – si stanno riposizionando nel contesto regionale. Le organizzazioni terroristiche possono causare caos e dolore, ma sopravvivono proprio perché rimangono sparse. Lo Stato Islamico mantiene l’elemento terroristico, ma ha anche il controllo di un territorio, che potrebbe eventualmente espandersi. Il gruppo segue logiche geopolitiche, e finché sopravvivrà rappresenterà una minaccia geopolitica.

In Iraq e in Siria la base dello Stato Islamico è composta da alcune componenti della popolazione araba sunnita. Ha imposto il controllo su una regione sunnita dell’Iraq nonostante la resistenza di parte del mondo sunnita. Finora lo Stato Islamico è riuscito tenere a bada questa resistenza, e da tempo preme sui confini delle regioni sciite e curde e tenta di creare un continuum territoriale fra Siria e Iraq modificando sostanzialmente la dinamica interna irachena. Prima i Sunniti erano deboli e dispersi, ora lo Stato Islamico è una forza potente nella regione a nord e ovest di Baghdad, ed è una minaccia per il petrolio curdo nonché per il sistema di governo iracheno. Il gruppo ha anche modificato la situazione in Siria, indebolendo parte dei gruppi che si battono contro il presidente siriano Bashar al Assad, permettendogli così di rafforzare le proprie posizioni e il proprio potere. Questo ci fa capire la complessità geopolitica creata dallo Stato Islamico.

Una coalizione contro lo Stato Islamico

Gli USA lasciarono l’Iraq sperando che il governo di Baghdad, per quanto poco autorevole, riuscisse comunque a garantire un certo equilibrio fra le varie autonomie etnico-territoriali. Ma l’ascesa dello Stato Islamico ha cambiato gli equilibri nel paese; la debolezza delle forze irachene e curde hanno suscitato la paura che il gruppo potesse impadronirsi di grandi porzioni di territorio in Iraq e Siria. La situazione non era priva di problemi per gli USA che, pur non avendo intenzione di intervenire, non potevano comunque stare a guardare.

Washington decise di intervenire utilizzando l’aviazione e un piccolo contingente di truppe di terra, mentre cercava di costruire una coalizione regionale contro lo Stato Islamico.

L’elemento chiave della coalizione è necessariamente la Turchia, la più forte potenza regionale: Ankara ha la più grande economia e il più grande esercito nella regione, ed è particolarmente vulnerabile all’evoluzione della situazione in Siria e Iraq, lungo il confine meridionale del paese. La strategia regionale di Erdogan si è sino ad ora basata sull’evitare un conflitto diretto con i vicini – e finora ha avuto successo. Gli Stati Uniti vorrebbero che la Turchia impiegasse truppe di terra per sconfiggere lo Stato Islamico. Ankara potrebbe accettare, sia perché il petrolio iracheno è essenziale per la diversificazione dei fornitori di energia, sia per evitare il rischio di “contagio”. Il governo turco finora è riuscito a tenere il confitto siriano fuori dai propri confini e a limitare ogni coinvolgimento nella guerra civile. Ankara non vuole che lo stato islamico prema troppo sui Curdi, perché il conflitto potrebbe estendersi alla comunità curda in Turchia.

Ma la Turchia si trova in una posizione delicata: intervenire contro l’IS accanto agli USA significherebbe mettere alla prova la forza del proprio esercito, cosa che non accade dalla guerra di Corea del ‘49. L’esito dell’intervento è incerto; i rischi sono reali, la vittoria tutt’altro che garantita. La Turchia tornerebbe a svolgere il compito debilitante che svolgeva all’epoca dell’Impero Ottomano: tentar di influenzare gli equilibri del mondo arabo in base al proprio interesse nazionale. Se è vero che gli USA hanno fatto tanti errori in Iraq, non è detto che la Turchia saprebbe far meglio. Ma a differenza di Washington Ankara rischia di essere trascinata nei conflitti regionali non soltanto senza successo, ma anche senza potersi permettere il lusso di ritirarsi.  Tuttavia l’instabilità lungo i confini meridionali e l’ascesa di una potenza jihadista in Siria e Iraq rappresentano un pericolo concreto per Ankara.

Alcune fonti affermano che la Turchia aiuta lo Stato Islamico, ma ho seri dubbi a riguardo. I Turchi potrebbero aiutare altri gruppi islamisti, ma lo Stato Islamico è troppo pericoloso, senza contare che è nel mirino degli USA. Questo non significa che i Turchi obbediranno agli USA: gli interessi di Ankara in Siria sono ben diversi da quelli americani. La Turchia vuole la fine del regime di Assad, gli USA invece temono l’ascesa di un altro regime sunnita jihadista in Siria – o del diffondersi dell’anarchia jihadista che, con la presenza dello Stato Islamico, sarebbe impossibile circondare e contenere. Per ora la Turchia usa la scusa di Assad per non entrare nel conflitto, ed è fuor di dubbio che voglia la fine di Assad e la nascita di un governo filo-turco in Siria. Finché gli USA non cederanno a questa richiesta, Ankara avrà un buon motivo per negare l’intervento. Se invece gli USA acconsentiranno, la Turchia avrà ottenuto ciò che vuole in Siria, ma i problemi in Iraq e con lo Stato Islamico potrebbero aumentare. Perciò la questione dello Stato Islamico è oggi al centro delle relazioni turco-americane, avendo sostituito altre questioni regionali importanti, come le relazioni con Israele.

Un nuovo ruolo per l’Iran

L’ascesa dello Stato Islamico ha cambiato anche il ruolo dell’Iran nella regione. Teheran vuole un regime a maggioranza sciita a Baghdad, che mantenga la stabilità nella parte meridionale dell’Iraq.  L’Iran ricorda bene la lunga guerra combattuta contro l’Iraq negli anni ’80, che causò numerose vittime, dunque vuole evitare la possibilità di un altro conflitto simile, in nome della sicurezza nazionale. Lo Stato Islamico potrebbe rovesciare il governo di Baghdad, minacciando direttamente gli interessi iraniani. È un’eventualità poco probabile, ma reale. Perciò l’Iran ha già schierato piccoli contingenti militari nel Kurdistan orientale e ha guidato gli attacchi aerei dei piloti iracheni contro le postazioni dello Stato Islamico. Per Teheran è inaccettabile che anche soltanto piccole parti dell’Iraq finiscano stabilmente nelle mani dello Stato Islamico, e in questo senso è perfettamente allineata agli USA.

USA e Iran vogliono entrambi la sconfitta dello Stato Islamico e un governo stabile a Baghdad. Gli Americani sono favorevoli all’idea che Teheran si occupi della sicurezza nel sud del paese e gli Iraniani non si oppongono alla nascita di un Kurdistan filo-americano, a patto di avere il controllo del petrolio nelle regioni meridionali dell’Iraq. In conclusione, lo Stato Islamico ha riavvicinato gli interessi di Stati Uniti e Iran. È ormai nota la collaborazione fra Washington e Teheran contro lo Stato Islamico, mentre il principale punto di conflitto – il programma nucleare iraniano – è stato quasi completamente dimenticato. All’annuncio del mancato raggiungimento di un accordo sul nucleare il 24 novembre è seguita una placida dichiarazione sulla necessità di estendere la scadenza del negoziato, senza che nessuno dei due paesi minacciasse ritorsioni. Dall’arricchimento dell’uranio alla fabbricazione di un’arma nucleare il percorso è ancora lungo, o per lo meno questa pare essere l’attuale a posizione americana. Né Washington né Teheran hanno intenzione di mandare all’aria l’intesa irachena per la questione nucleare, momentaneamente congelata per via dell’ascesa dello Stato Islamico.

L’attuale patto fra Iran e USA desta preoccupazione in Arabia Saudita, la terza maggiore potenza della regione. L’Iran è il grande rivale dell’Arabia Saudita nel Golfo Persico, il suo rafforzamento può avere effetti destabilizzanti anche all’interno dell’Arabia, che ha una consistente minoranza sciita. Peraltro gli USA sono i principali garanti della sicurezza nazionale saudita – anche se di fronte alla ‘primavera araba’ Riyadh ha agito per conto proprio. Senza contare che la potenziale autosufficienza energetica degli USA suscita ulteriori preoccupazioni, perché sul piano politico ridurrà l’interesse di Washington per l’Arabia Saudita.

Qualcuno sostiene che lo Stato Islamico sia finanziato dall’Arabia Saudita, ma è un’ipotesi irrazionale. Se lo Stato Islamico si rafforza, USA e Iran saranno spinti a collaborare ancora di più. Washington non accetta l’idea dell’esistenza di un califfato transnazionale che potrebbe trasformarsi prima o poi in una potenza regionale. Tanto maggiore sarà la minaccia dello Stato Islamico, tanto più USA e Iran saranno spinti ad aumentare la collaborazione – mettendo a repentaglio gli interessi sauditi. Riyadh al contrario vuole che la tensione fra i due paesi cresca. Indipendentemente dalle questioni ideologiche, l’alleanza fra Iran e Stati Uniti è una minaccia diretta alla sopravvivenza del regime saudita. Senza contare che lo Stato Islamico non ha nessun amore per la famiglia saudita, come confermano anche i focolai jihadisti scoperti da poco all’interno del regno. Riyadh ha sempre cercato di influenzare la situazione sul terreno in Iraq, ora deve trovare il modo di rafforzare i movimenti sunniti alternativi allo Stato Islamico, così da far scomparire l’elemento che unisce interessi americani e iraniani.

La posizione dell’America

Lo Stato Islamico ha dimostrato che un ritiro totale degli USA dalla regione è irrealistico. Gli USA non vogliono iniziare una nuova guerra in Iraq: non sono riusciti a insediare un governo “amico” in passato, è improbabile che ci riescano in futuro. Ma la potenza aerea americana è fondamentale per combattere lo Stato Islamico, ed è il prezzo del mantenimento della presenza e della forza americana nella regione. Creare un’alleanza operativa contro lo Stato Islamico è un compito complesso: i Turchi non accettano di entrare nella mischia senza prima avere ottenuto maggiori concessioni, gli Iraniani chiedono minore pressione sul loro programma nucleare, e i Sauditi hanno paura dell’ascesa iraniana.

Quello che è degno di nota è l’effetto generato dallo Stato Islamico nella regione. L’ascesa dell’IS ancora una volta ha messo gli Stati Uniti al centro del sistema regionale e ha spinto le tre principali potenze mediorientali a modificare le relazioni con Washington. Senza contare che ha suscitato le peggiori paure in Turchia, Iran e Arabia Saudita. Ankara non vuole rivivere l’incubo ottomano di dover controllare gli Arabi, l’Iran ha dovuto riallinearsi con gli USA per fermare l’avanzata dei rivali sunniti in Iraq e in Arabia Saudita – proprio come dovette fare in passato lo Scià Pahlavi. Inoltre ora i Sauditi temono che Washington rinunci all’alleanza con Riyadh per avvicinarsi a Teheran, mentre gli USA sono molto cauti perché temono di essere nuovamente trascinati nel vortice iracheno.

Alla fine è improbabile che lo Stato Islamico nella sua attuale forma territoriale possa sopravvivere. La verità è che Turchia, Iran e a Arabia Saudita sperano che gli USA risolvano il problema con l’aviazione e la fanteria. Queste azioni non porranno fine allo Stato Islamico, ma ne mineranno la continuità territoriale, obbligandolo a ripiegare su tattiche di guerriglia e terrorismo. Sta già accadendo.

Ma l’esistenza stessa dello Stato Islamico, per quanto temporanea , ha mandato all’aria ogni previsione precedente, dimostrando che si trattava di ipotesi irrealistiche che non tenevano conto della realtà dei fatti.  Perciò le potenze regionali dovranno trarne le conseguenze: Ankara non potrà fare a meno di incrementare il coinvolgimento nel conflitto, Teheran dovrà per forza convivere con gli USA e Riyadh dovrà affrontare seriamente i suoi punti deboli.

Gli Stati Uniti potrebbero anche decidere di ritornarsene a casa lasciando la regione nel caos. Ma gli altri paesi non possono ritirarsi, sono già “a casa”, come ha chiaramente dimostrato lo Stato Islamico.

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