Lo stato di diritto,
cuore del “sogno cinese”

21/02/2015

Da un articolo di Francesco Sisci, ricercatore associato al Centro di Studi Europei dell’Università di Pechino.

L’istituzione dello stato di diritto è uno dei pilastri del programma di riforme di Xi Jinping. Il Presidente cinese sa che per raggiungere certi obiettivi occorre che il Paese abbia un sistema legale che dia fiducia: i mercati dei capitali dipendono dallo stato di diritto, i cittadini non prendono iniziative se non hanno fiducia nell’equità del sistema legale. La stessa coesione sociale dipende dal rispetto del diritto, altrimenti deve essere costantemente imposta con la forza.

In Cina lo stato di diritto è un concetto recente, importato dall’Occidente. Nel modello occidentale l’efficacia della legge poggia su un insieme di obblighi e responsabilità reciproche tra stato e cittadini, che non trova molti riscontri nella cultura cinese. Nella tradizione cinese gli obblighi erano stringenti, il senso del dovere nei confronti della famiglia, degli amici e dell’imperatore era forte, ma il concetto di “stato” era molto diverso dal nostro. La parole cinese per “stato”, guojia, non coglie il senso del nostro termine, derivato dal verbo “essere”, ma si rifà al concetto di famiglia o clan (jia) e di territorio delimitato da mura (guo). L’accento posto recentemente dal Partito Comunista Cinese sul concetto di stato di diritto (yi fa zhi guo) richiede un cambiamento culturale molto profondo: dall’idea di stato come clan e imperatore al concetto di res publica, che implica diritti, doveri e responsabilità civiche.

Nella storia occidentale le responsabilità sono il rovescio della medaglia dei diritti. Questo concetto mette in discussione il modo in cui per millenni i Cinesi hanno concepito la società. Secondo la visione tradizionale cinese, la legge è una formalità e spesso un intralcio: fare le cose secondo la legge è poco efficiente, lento e di risultato incerto. La legge è qualche cosa da aggirare con le buone relazioni con persone influenti che permettano di evitare l’ostacolo. Ora invece i Cinesi guardano a società basate sullo stato di diritto come a un modello a cui tendere. Secondo recenti sondaggi molti Cinesi sognano di vivere in Paesi come gli Stati Uniti, in cui diritti e responsabilità sono connaturati al concetto di cittadinanza. I Cinesi hanno un forte senso di identità e un forte radicamento nella cultura cinese, ma un attaccamento del tutto marginale al Paese. Vedono nello stato la possibilità di far fortuna, ma non lo amano, né si sentono protetti dallo stato e dalle sue leggi.

Nella visione cinese della storia occidentale lo stato di diritto è quello dalla legge romana, il cui studio è stato fondamentale per le riforme compiute già negli anni ’80. I Cinesi si rifanno in particolare al compendio di diritti e doveri che regolava i rapporti tra lo stato e il pater familias. Il pater familias aveva una serie di diritti sui membri della famiglia e sullo stato, ma anche una serie di obblighi nei loro confronti. La concezione moderna del cittadino viene da questo modello, basato sull’equilibrio tra diritti e responsabilità. Con i suoi diritti e i suoi doveri il pater familias era la colonna portante della res publica, cioè del ‘bene comune’ e della comune uguaglianza di fronte alla legge. L’idea sopravvive ancora oggi: se fai ciò che devi in quanto cittadino, ti vengono riconosciuti dei diritti. I diritti non sono accordati gratuitamente, sono una specie di compenso per l’adempimento di doveri, obblighi e responsabilità. Quando i diritti vengono negati, significa che è stato violato un patto e il cittadino ha il diritto di protestare e reclamare ciò che gli spetta.

Nella Cina classica non esisteva l’idea di cittadino. L’impero unificato del primo imperatore, Qin Shi Huangdi, sottomise gli altri stati e impose ai territori e alle popolazioni tutte le norme vigenti nel territorio (guo) dei Qin. La società assunse una conformazione piramidale: al vertice l’imperatore, al centro i funzionari e alla base la gente comune. Ma le posizioni non erano fisse: sudditi comuni potevano essere elevati al rango di funzionari, e periodiche rivoluzioni e invasioni rovesciavano l’imperatore e la sua cerchia. Ciò permetteva una certa mobilità sociale, ma nessuno aveva diritti e responsabilità. I sudditi dovevano fare ciò che veniva loro imposto; se non erano contenti, potevano provare a fare una rivoluzione, sperare di avere successo e diventare imperatori o parte dell’aristocrazia, ma non appellarsi a diritti e doveri.  Le leggi si riducevano a punizioni – riservate alla gente comune − e regole per l’amministrazione dello stato. In cinese la parola legge (fa) deriva dal concetto di standard di misura: gli standard di Qin, poi applicati alle popolazioni e ai territori conquistati, insieme alle punizioni (xing). Si trattava dunque di metodi per far rispettare le norme imposte, ma non avevano niente a che fare con l’idea di legare le persone attraverso una qualche forma di reciprocità, come invece indicato dalla parola latina leges, che deriva appunto dal verbo legare.

Furono i comunisti a rompere con la concezione tradizionale dello stato e della società cinesi, promuovendo il concetto dei diritti dei lavoratori. Ma se i diritti sono concessi senza che sia richiesto l’adempimento di doveri, diventano privilegi che possono essere garantiti o negati a seconda dei capricci del potere. La situazione che ne risulta non è molto diversa da quella della Cina classica: esistono due classi di persone, quelle al di sopra della legge e quelle che vi sono sottomesse. Le prime possono negoziare e piegare la legge ai loro scopi, mentre le seconde sono alla mercé dell’ultimo tutore dell’ordine. Ciò pone due problemi: la realtà di due classi distinte di cittadini contraddice la retorica ufficiale dell’uguaglianza; la mancanza di responsabilità della popolazione non favorisce lo sviluppo. Senza l’idea complementare di doveri civici, il concetto di diritti è rimasto un prodotto straniero, importato dall’Occidente, e ne è derivata una forma perversa di contratto sociale, in cui le persone hanno diritti senza avere responsabilità: di conseguenza lo stato resta il vecchio e arbitrario potere del sistema imperiale. In una situazione simile la legge non garantisce protezione, i cittadini comuni non sentono di appartenere a una “entità pubblica” e lo stato quasi non ha obblighi verso di loro. La mancanza di responsabilità è reciproca: i cittadini non hanno senso del dovere verso la res publica, e la res publica non è affatto pubblica, né comune, è cosa di pochi privilegiati.

Perché si sviluppino i mercati dei capitali e si creino condizioni favorevoli agli investimenti è invece necessario lo stato di diritto. Come gli individui, anche le aziende hanno bisogno di avere chiari i loro diritti e le loro responsabilità nei confronti dello stato. Creare un senso di responsabilità nazionale significa cambiare profondamente le dinamiche di potere e la concezione dello stato in Cina, far sì che i cittadini siano finalmente responsabili nei confronti dello stato e viceversa.  Questa è la chiave del “sogno cinese”. 

Il concetto di diritti è rimasto un prodotto straniero, importato dall’Occidente, e ne è derivata una forma perversa di contratto sociale, in cui le persone hanno diritti senza avere responsabilità: di conseguenza lo stato resta il vecchio e arbitrario potere del sistema imperiale

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