Che fare
in Libia?

21/02/2015

Il 18 febbraio scorso il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite ha bocciato l’ipotesi di un intervento militare in Libia, sollecitando invece la ricerca di una soluzione diplomatica. Il governo egiziano e il ministro degli Esteri libico, Mohammed al-Dairi, hanno richiesto all’ONU di revocare l’embargo sulle armi per il governo libico riconosciuto dalla comunità internazionale, quello di Tobruk. I due paesi hanno anche chiesto di imporre il blocco navale lungo le coste delle aree in cui sono presenti i gruppi affiliati all’ISIS. È prevalsa la linea sostenuta da Qatar, Algeria e Turchia, appoggiata anche da Stati Uniti, Germania e Regno Unito. La posizione degli Stati Uniti era chiara da giorni: Washington si è schierata apertamente contro attacchi aerei unilaterali, convinta che non avrebbero fatto altro che peggiorare la situazione e scatenare ritorsioni contro ostaggi innocenti. Gli USA si sono mostrati contrari anche a lasciare che il Cairo e i suoi alleati conducano le operazioni da soli, poiché temono che vengano colpiti anche gruppi più moderati o gruppi di opposizione.

A quattro anni dall’inizio della rivolta anti-Gheddafi, la Libia è nel caos. La presenza di centinaia di milizie è sintomo della disgregazione interna, non ne è la causa. Gli sforzi internazionali contro i gruppi jihadisti come lo Stato Islamico potranno far poco per sanare le ferite politiche, ideologiche e tribali che lacerano il Paese. I paesi confinanti come Algeria ed Egitto non hanno i mezzi per risolvere da soli i problemi della Libia, anche se volessero. Quelli che potrebbero forse riuscirci – l’Unione Europea, la NATO e una coalizione internazionale – non vogliono assumersi questo onere. La comunità internazionale pare propensa a lasciare che la Libia e i suoi vicini facciano da soli, per lavorare poi con chi risulterà vincitore. Ma per noi Italiani in particolare l’imposizione di un blocco navale alle coste libiche potrebbe rendersi prima o poi necessario. 

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