Omaggio a Marussia Cytron Treves

17/03/2016

Dell’infanzia a Bialystok Marussia ricordava la grande dacia di legno distesa fra i pini, dove decine di bimbi e adulti, bambinaie, giardinieri ed esperti di ogni arte e mestiere passavano lunghe giornate indaffarate. Era l’abitazione abituale della famiglia allargata dei Cytron, ebrei di cultura austro-ungarica. Bisnonni e nonni vivevano anche nel palazzotto settecentesco in centro città (immagine in testata), ma la vita si svolgeva per lo più nella dacia e nella fabbrica adiacente (immagine a lato): l’enorme tessitura che dava lavoro alla maggior parte degli abitanti della cittadina, circondata dalle casette e dagli orti dei contadini-operai. 

A giugno 1941 a Bialystok arrivarono i nazisti e imposero subito il terrore. Il 27 giugno era un sabato: i Tedeschi radunarono circa 800 Ebrei di Bialystok nella grande sinagoga di legno intarsiato, per importanti comunicazioni circa il loro futuro: chiusero le porte e coi lanciafiamme ridussero in cenere l’edificio e le persone. Marussia e i genitori erano riusciti a lasciare Bialystok: in costante pericolo, fuggirono nascondendosi di paese in paese, sempre con qualche aguzzino antisemita all’inseguimento, fino all’ultimo nascondiglio in valle di Lanzo, prima della fine della guerra. Invece nonni e bisnonni, zii e cugini, giardinieri e bambinaie furono urlo quel 27 giugno, poi cenere.

Piccola e magra, sempre a testa alta, Marussia aveva il coraggio straordinario della verità, del giudizio tagliente, dell’analisi netta, senza infingimenti. Ma non odiava: vedeva e capiva in ogni sua verminosa piega il legno storto dell’umanità, eppure sapeva voler bene alle persone, era onesta e leale. Il coraggio della verità era la sua forza e la sua fede. Non era mai tornata in Polonia, non aveva mai voluto vedere i luoghi dei massacri. Ma a 82 anni decise che avrebbe dovuto affrontare anche questa prova. Si iscrisse a un viaggio dell’Associazione Italia Israele e chiese ad Angelo e a me di accompagnare lei e il marito Guido a Bialystok. Partimmo da Cracovia in limousine con autista. Trovammo per primo il cimitero ebraico abbandonato: soltanto qualche lapide spezzata fra i rovi, ma non tutto era cancellato, il ricordo si poteva ravvivare. Ci parve una piccola vittoria.

Andammo poi alla ricerca di qualche traccia della dacia. Marussia sapeva l’indirizzo e il posizionamento rispetto alla pianta della città. Un frammento del porticato d’ingresso (tetto a scandole e traccia di aiuola sul davanti) stava ancora ritto fra i ruderi di case in cemento d’epoca sovietica: occhi vuoti di finestre, grumi scuri di disfacimento fisico e morale e fango nero ovunque, benché non piovesse.

Al posto della sinagoga incendiata c’era un giardino pubblico con qualche chiassoso gioco di plastica per bimbi: una piccola lapide segnava il luogo e la data – senza nessuna spiegazione.

La tappa importante della giornata doveva essere la visita al centro di documentazione storica della città, che si trova, insieme al municipio, proprio a palazzo Cytron. Marussia si presentò, mostrando i suoi documenti personali: giunsero tremando un paio di giovani assessori e funzionari comunali, bianchi in volto, a occhi sbarrati, ammutoliti. Capimmo che vedevano Marussia come un’ombra d’oltretomba giunta a esigere vendetta. Ci lasciarono soli a lungo, mentre forse chiedevano alle autorità superiori e alla polizia, subito accorsa, che fare, che dire. Marussia aveva chiesto di vedere i documenti degli anni ’30 e ’40 relativi non soltanto alla sua famiglia, ma anche alla storia della città e della fabbrica. La riposta fu: non c’è nulla, non ci sono documenti, nessuno sa nulla della famiglia Cytron! Dopo la nostra reazione incredula e indignata saltarono fuori alcune guide telefoniche del 1938-40: non potevano mostrare altro, non avevano altro, occorreva rivolgersi al governo polacco per sapere se esisteva altro. Il terrore dei funzionari, diventato ansia confusionale, stava ora volgendo in aggressività, lo si avvertiva in ogni gesto, in ogni sguardo. Gli animi dei giovani burocrati pubblici dello storico palazzo Cytron erano pronti alla caccia in branco, per impedire che un Cytron si avvicinasse alla loro tana. 

Fu Marussia a dire che non potevamo andarcene con questo amaro in bocca: forse in piazza c’era ancora Wedel, la famosa cioccolateria, testimonianza della civiltà gastronomica austro-ungarica. Lasciando Wedel per tornare all’auto, scendemmo per una traversa con bancarelle per turisti, fra le solite giargiatule in plastica, decine di brutti quadretti a olio fatti in serie: madonne tonte con bambinelli dai volti avvizziti, accanto a ghigni, bianchi nell’ombra, di ebrei rapaci, grondanti oro, perle e sangue dalle mani aguzze. Le icone dell’antisemitismo di sempre − l’Ebreo satanico e assassino e il Dio incarnato in un bimbo ebreo, sono ancora il souvenir preferito dei turisti a Bialystok! Migliaia di brutte copie delle millenarie raffigurazioni cristiane della sovrannaturale potenza del sangue ebraico, che porta al mondo il male e la salvezza, vengono portate ogni giorno a casa da amici e parenti in gita, come testimonianza di affetto e di comune appartenenza a una storia, una fede, una tradizione. La stessa tradizione dei nazisti che quel sangue bruciavano col lanciafiamme, per liberarsi della paura di un oscuro potere metafisico.

Angelo e io ci sfogammo discutendo con i venditori, che non capivano la nostra indignazione: “Quei quadri ai turisti piacciono, tutti li vogliono! Solo voi non capite − ci dicevano − ma da dove venite? Dite che sono quadri antisemiti, proibiti per legge? Ma che vuol dire? Quelli sono Ebrei, si vede lontano un miglio – guarda come sono brutti! Li riconoscono anche i bambini! Perché non volete che vendiamo quadri di Ebrei? Anche Gesù era ebreo? Ma no, Gesù era cristiano! Siete proprio strani − voi − non sapete niente! Ma da dove venite?”.  

Al ritorno rimanemmo in silenzio – Marussia sedeva dritta e tranquilla, con gli occhi ben aperti sul buio della notte. Aveva superato un’altra prova e la successione degli eventi non sembrava averla né indignata né addolorata − tanto meno piegata. Forse prima del viaggio si era chiesta quali forme avrebbe preso il legno storto dell’umanità quel giorno e in quei luoghi, ma sapeva che in qualche modo si sarebbe mostrato, perché il passato è incancellabile, eternamente presente: per non lasciarsene dominare occorre avere il coraggio di riconoscerlo e indicarlo. E lei coraggio ne aveva − erano gli altri a mancarne.

Domenica 14 marzo Angelo le telefonò per ricordarle l’appuntamento in Fondazione con Maurizio Molinari, il direttore de La Stampa. ‘Non posso venire, sono malata’. ‘Allora ti verrò a trovare in settimana’. ‘No, non potrai venirmi a trovare. Salutami tutti’. Poche ore più tardi era morta. Per me non è mai stata più viva: ricordo ogni sua frase, ogni comportamento, come un insegnamento. E so che averla conosciuta è stato un privilegio.

 

Laura Camis de Fonseca

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