C’è metodo nella follia di Duterte

02/09/2016

Il nuovo presidente delle Filippine Rodrigo Duterte usa metodi inaccettabili contro droga e criminalità. Soltanto nell’ultimo mese si sono trovati morti circa 2000 presunti spacciatori, politici, militari e uomini d’affari sospettati di legami con i trafficanti di stupefacenti, indicati come tali dal presidente stesso, senza processo né prove. Duterte ha inoltre minacciato di instaurare la legge marziale se la magistratura oserà contrastare i suoi provvedimenti extragiudiziari. 

L’offensiva di Duterte trasuda teatralità populista, ma l’apparente follia delle sue azioni riflette gli imperativi geopolitici del paese. Governare le Filippine è sempre stata un’impresa difficile, in primo luogo per le caratteristiche geografiche del paese: un arcipelago montuoso composto da più di settemila isole popolate da svariati gruppi etnici e linguistici. Il paese può essere diviso all’incirca in tre gruppi di isole, ognuno dei quali ha identità economiche e culturali diverse tra loro e fratture etniche al proprio interno (mappa a lato). Le isole a nord, chiamate Luzon, sono abitate principalmente dal gruppo etnico tagallo (tagalog) proveniente dalla Cina e dal Sud-est asiatico e intrattengono legami economici e culturali soprattutto con l’Asia continentale. Circa 1600 km più a sud c’è l’instabile regione di Mindanao, dove vivono clan rivali e gruppi etnici diversi, compresi i Moro, di religione musulmana. Dal punto di vista culturale ed etnico molte di queste popolazioni hanno più tratti comuni con gli Indonesiani e i Malesi che con i Tagallo del nord delle Filippine. Al centro c’è l’arcipelago delle Visayas, dove vive il gruppo etnico più numeroso del paese, i Bisaya.

Ogni governo centrale ha sempre avuto molta difficoltà a far rispettare le leggi in questo territorio frammentato, specialmente nelle aree più periferiche. Nelle questioni politiche, economiche e di sicurezza sono ancora clan, oligarchi, grandi industriali e milizie private ad avere il potere. Queste forze locali minano l’ordine pubblico e indeboliscono le istituzioni, in un sistema politico decentralizzato in cui Manila deve lottare per poter svolgere le funzioni essenziali di ogni governo. Tutto ciò disincentiva gli investimenti stranieri e ostacola lo sviluppo economico, alimentando il circolo vizioso dell’instabilità.

La decentralizzazione e la debolezza del governo minano a loro volta la sicurezza dei confini. La posizione delle Filippine ne fa un naturale svincolo navale per traffici illeciti, data la vicinanza a regioni della Malesia e dell’Indonesia corrotte e scarsamente governate, da cui arrivano droga e armi in cambio di risorse naturali e altri beni di contrabbando. Combattere il crimine organizzato, il contrabbando e le rivolte che se ne alimentano richiede a Manila un grande sforzo, spesso a discapito della tutela da altri pericoli internazionali, come le incursioni delle flotte da pesca cinesi nel mar Cinese Meridionale. La lotta di Duterte contro droga e criminalità mira a porre le tante isole diverse sotto un’unica autorità centrale forte, capace di assicurare l’integrità territoriale delle Filippine.

Ex sindaco di una città portuale di Mindanao e primo presidente che viene dal sud, Duterte pare avere le carte in regola per governare le regioni periferiche delle Filippine, ma è a Manila che incontra più resistenze. Il suo arrivo ha scardinato le rigide strutture di potere della capitale e Duterte non ha alle spalle il partito di cui avrebbe bisogno per forzare burocrazia, magistratura e forze di sicurezza a portare avanti le sue priorità. Di solito gli outsider come lui finiscono col cedere in parte il potere ai tecnocrati e ai burocrati per impedire che l’azione del governo venga ostacolata. Ma se vuole affermare la propria autorità sull’intero paese il governo non può permettersi di essere debole nella capitale, dunque le prime mosse del Presidente sono anche un tentativo di consolidare il potere a Manila.

Duterte cerca di capitalizzare la sua attuale popolarità per gettare le basi del progetto a lungo termine per modernizzare il paese. Gli attacchi pubblici a funzionari e uomini d’affari presumibilmente corrotti servono ad assicurarsi il sostegno popolare e tenere a bada potenziali rivali, un po’ come ha fatto Xi Jinping in Cina con la campagna anti corruzione. Pare che per i Filippini la correttezza delle sue accuse e le violazioni di diritti umani che ne derivano passino in secondo piano, finché lo considerano l’antidoto a un sistema legale inefficiente, a istituzioni pubbliche schizofreniche e a élite corrotte. Duterte spera che la popolarità della guerra al crimine gli faccia guadagnare tempo per cambiare il sistema di potere nella capitale, acquisire un certo controllo sulle clientele necessarie per una coalizione politica e costruire istituzioni credibili, degne della fiducia dei Filippini. Il Presidente ritiene che elettori e investitori stranieri apprezzeranno la sua lotta per la ‘legalità’, anche se comporta spargimenti di sangue e provvedimenti extragiudiziari.

Il secondo obiettivo di Duterte è l’integrità territoriale del paese. Al centro della sua agenda c’è la volontà di porre fine a due conflitti: la ribellione dei comunisti e l’antica lotta separatista condotta dai gruppi ribelli Moro a Mindanao e nelle isole Sulu. La violenza che affligge da decenni le periferie del paese ha bloccato gli investimenti e lo sviluppo del sud, che è ricco di risorse. A Mindanao il conflitto ha alimentato la pirateria e il crimine organizzato e gettato le basi per l’emergere di gruppi jihadisti come Abu Sayyaf. Dover far fronte alla violenza intestina sottrae le risorse e le forze che potrebbero essere dedicate alla difesa sui mari. Duterte ha avviato iniziative ambiziose, che comprendono negoziati con i gruppi ribelli e proposte di governo federale per le regioni più remote del paese. Ma tutto sarà inutile senza il sostegno della capitale e delle forze armate. I clan locali e gli oligarchi – arricchiti e armati grazie al mercato nero – hanno la possibilità di bloccare l’agenda del presidente, se non c’è coesione a Manila.

Il rischio è che Duterte abbia scatenato lotte di potere su troppi fronti contemporaneamente e che ora si ritrovi con troppi nemici. Le sue iniziative scateneranno le resistenze della burocrazia, della magistratura e degli altri poteri forti: la Chiesa, l’esercito, l’imprenditoria e i sindacati. Le forze armate guardano già con sospetto alle iniziative di pace e alla nomina di alcuni comunisti nel suo gabinetto di governo, così come alle sue intenzioni di ridimensionare la modernizzazione dell’esercito iniziata dal suo predecessore, Benigno Aquino III. Dedicandosi a questioni come l’evasione fiscale e la regolamentazione del lavoro e delle norme ambientali potrebbe perdere anche il sostegno dei leader industriali. Inoltre la violentissima repressione di questi mesi ha scatenato da un lato le critiche della Chiesa, della società civile, dell’ONU e degli Stati Uniti, dall’altro lotte di potere e ondate di più feroce violenza tra le fazioni rivali.

Per ora il suo indice di gradimento è alle stelle, ma la relativa stabilità dello scorso decennio è un’eccezione nella politica filippina e il ruolo di presidente resta precario. Dalla caduta di Ferdinand Marcos nel 1986 i presidenti hanno dovuto guardarsi da colpi di stato, scontrarsi con il potere giudiziario, con gli oligarchi e col malcontento popolare. Se la popolarità di Duterte dovesse scemare, se le politiche per la crescita economica non funzionassero, assisteremmo al riemergere delle solite dinamiche. Un governo basato sulla personalità forte del presidente avrà vita breve, se non sarà accompagnato dallo sviluppo di istituzioni forti e credibili. 

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