Un’Europa malata

25/10/2016

Quasi ogni giorno leggiamo notizie che demoliscono la fiducia e la speranza nelle istituzioni europee.

Alla fine degli anni ’90 abbiamo avviato quasi senza discussione, senza timori, senza prudenza, la creazione dell’Eurozona e contemporaneamente abbiamo aperto le porte ai prodotti del mondo intero in modo disordinato e veloce, nell’arco di pochissimi anni, mettendo a rischio le nostre economie. Ora abbiamo toccato l’estremo opposto: i timori della semisconosciuta Vallonia bastano a bloccare un trattato con il Canada, che dovrebbe regolare meglio gli scambi che già avvengono.

Dopo aver vissuto sulla propria pelle l’impoverimento, l’austerità, la disoccupazione, i popoli europei ora temono tutto, persino le migliorie apportate al sistema. Il libero commercio internazionale ha ricadute positive a lungo andare, perché mette in moto le forze migliori di ogni regione del mondo, ma nel breve e medio termine è un processo potenzialmente pericoloso, perché illumina crudamente i gruppi perdenti e quelli vincenti. Spesso però i vincenti hanno nella vittoria il loro tallone d’Achille. È questo il caso della Germania oggi. È la Germania il vero ‘malato’ d’Europa, malato di obesità.

La Germania ha la quarta maggiore economia al mondo, ma oltre metà del suo PIL è costituito da esportazioni. È cioè un’economia gravemente sbilanciata, addirittura più di quella cinese. La contrazione della domanda da parte dei paesi clienti può provocare disoccupazione e depressione. L’imposizione di limitazioni alla libera circolazione dei beni e dei servizi colpirebbe l’economia tedesca in misura maggiore di altre economie poco basate sull’esportazione. Ed è proprio la libera circolazione dei beni e dei servizi all’interno dell’Europa che la Brexit sta mettendo in discussione.

Anche senza prevedere situazioni estreme di ripristino di barriere doganali, l’economia tedesca sta probabilmente per raggiungere il limite di espansione possibile con l’attuale modello, così come successe al Giappone già negli anni ’90. I Giapponesi allora ricorsero a massicci investimenti in impianti e infrastrutture all’estero, visto che l’economia all’interno non cresceva più. Oggi i risparmiatori giapponesi posseggono larghe quote delle economie di altri paesi, ma poiché i redditi prodotti in altri paesi non sono tassabili in Giappone finché rimangono all’estero, lo stato giapponese è molto più povero dei suoi cittadini e ricorre all’aumento costante del debito pubblico per tentar di stimolare lo sviluppo di un’economia interna che non cresce più, perché la popolazione (che decresce) non sente né la necessità né la voglia di aumentare i consumi. Mentre i suoi cittadini posseggono grandi patrimoni, lo stato giapponese contrae enormi debiti nel tentativo di convincere i cittadini a spendere di più, o per migliorare i trasporti o i sistemi di difesa. Il fatto che l’economia sia davvero globalizzata, mentre il potere di regolamentazione, di tassazione e di spesa degli stati è limitato al territorio, crea disallineamenti e squilibri che potranno essere controllati o prevenuti soltanto da accordi di cooperazione sovranazionale molto più efficaci di quelli attuali.

 

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