Democrazia o dittatura: quale è più efficace?

14/11/2016

Nel moltiplicarsi di conflitti alle porte e nella stagnazione economica che si trascina ormai da quindici anni, non vediamo efficacia nell’opera delle nostre istituzioni, mentre vediamo aumentare il debito pubblico e la povertà. Rendendoci conto che le nostre istituzioni sono intricate, lente, elefantiache e inefficaci, alcuni iniziano a chiedersi se non è la democrazia a rivelarsi inefficiente e lenta nel prender decisioni e applicarle con rapidità ed efficacia. Ma è vero che le istituzioni dei sistemi autoritari sono più efficaci, più semplici, più rapide? Lo sono nella fase in cui l’ideologia conquista il potere per imporre una nuova visione della società, spesso ricorrendo con efficacia al terrore. Furono efficaci e veloci Robespierre, Hitler, Lenin, Stalin, Mao Ze Dong e l’ISIS. Sono pochi gli Europei che desiderano questo tipo di efficienza, ma qualcuno c’è, come dimostrano gli attentati periodicamente compiuti in Europa da gruppi terroristici di varia ispirazione. Ma è un’efficienza che non può durare a lungo: quando occorre governare e costruire anziché uccidere e distruggere, tutto si fa più difficile, più lento, più complesso, tutto richiede un certo grado di collaborazione e di consenso da parte della maggioranza.

Come gestiscono le richieste di cambiamento e le rivalità interne le società autoritarie? Con più burocrazia, più controlli, più repressione, dunque aumentando i costi e diminuendo le possibilità di cambiamenti.

Paesi con regimi autoritari, ma non più rivoluzionari, come la Cina e l’Iran, usano ancora metodi di repressione molto duri. I due paesi hanno il primato mondiale del numero di esecuzioni capitali: la Cina è prima come numero assoluto, l’Iran è primo per la percentuale di vittime rispetto alla popolazione. Ma i dissidenti continuano a essere milioni, niente affatto convinti della bontà delle istituzioni, benché carceri e boia lavorino con efficienza. Le crepe nel consenso sono ampie. Ma non essendoci media liberi, non sappiamo che cosa pensi davvero la maggioranza dei Cinesi o degli Iraniani del proprio governo e delle proprie istituzioni. Lo sviluppo economico e tecnologico dei due paesi negli ultimi anni induce a un giudizio positivo, ma se guardiamo al lungo periodo la visione è diversa.

Sia in Cina sia in Iran la rivoluzione aveva distrutto non soltanto il vecchio potere, ma anche l’economia e parte della cultura del paese. Quando il regime allentò le redini, liberalizzò alcuni settori e permise di importare o copiare le tecnologie dei paesi più avanzati, l’economia ripartì. Ripartendo dal fondo, non poté che risalire: anche i paesi europei che avevano perso la guerra (fra cui l’Italia) vissero un boom economico nel dopoguerra e fino ai primi anni ’70 crebbero più velocemente dei paesi che l’avevano vinta. Molto più difficile è governare in modo da mantenere lo sviluppo e l’efficienza dopo aver raggiunto livelli elevati: occorre mantenere snellezza burocratica e prevenire la corruzione pur mantenendo la pianificazione generale e il controllo, occorre ridistribuire ricchezza senza togliere fiato a chi la produce e senza creare sacche di rendita. Occorre far contenti tutti, apparire giusti verso tutti. Non ci riesce neppure il buon Dio. Però in democrazia la facoltà di cambiare frequentemente le persone al potere mantiene la possibilità e la speranza di riuscire domani là dove non si è riusciti ieri, di risarcire domani quelli che oggi paiono sfruttati o dimenticati.

Le istituzioni cinesi e iraniane sono tutt’altro che snelle o poco costose. Tendono alla duplicazione delle funzioni per permettere il confronto fra diversi interessi in un contorno sempre controllato dal potere centrale, che usa i diversi gruppi l’uno contro l’altro a proprio vantaggio.

In Iran ci sono due eserciti: l’esercito vero e proprio, dotato di tutti gli armamenti per la guerra convenzionale con altri stati, e i Guardiani della Rivoluzione che combattono anche nelle guerre civili dell’intero Medio Oriente, oltre a essere molto attivi contro i dissidenti all’interno. Ognuno ha il proprio servizio di sicurezza, in aggiunta a quello della polizia. In questo l’Iran odierno ricorda la Germania nazista, che accanto all’esercito (Wehrmacht) aveva le SS, e aveva ben cinque diversi servizi di sicurezza. I Guardiani della Rivoluzione non sono pagati direttamente dallo stato con le tasse dei contribuenti, ma gestiscono con profitto le grandi aziende, soprattutto minerarie e metallurgiche, che costituiscono settori economici di base, di proprietà pubblica ma gestiti con criteri privati, come il nostro IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) di buona memoria.

L’Iran ha un governo nominato da un Presidente e un Parlamento (Majlis), entrambi eletti dal popolo, ma i candidati alle elezioni debbono aver l’approvazione previa del Consiglio dei Guardiani della Costituzione, composto di 12 membri, di cui 6 scelti dal Capo Supremo fra esperti dell’interpretazione della legge islamica secondo lo sciismo duodecimano, 6 scelti dal Parlamento stesso fra giuristi islamici esperti in settori specifici. Il Majlis ha approvato recentemente una risoluzione che riduce il potere del Consiglio dei Guardiani, ma per diventare legge la risoluzione dovrebbe essere accettata… dal Consiglio dei Guardiani! Il Consiglio dei Guardiani della Costituzione ha sempre vietato l’elezione di riformisti che interpretano la legge islamica in modo diverso da quello del primo Capo Supremo, l’ayatollah Khomeini, fondatore dell’attuale regime. L’opera congiunta dei Guardiani della Costituzione e dei Guardiani della Rivoluzione assicura che i sostenitori delle riforme che non piacciono al Capo Supremo non possano essere eletti e vengano arrestati e incarcerati se escono nelle piazze e nelle strade.

Chi sceglie il Capo Supremo e ne sorveglia l’operato? Il Consiglio degli Esperti, composto di 88 Mujtahid, teologi islamici, eletti direttamente dal popolo fra i candidati approvati dal Consiglio dei Guardiani della Costituzione. Ma negli anni passati il capo supremo Khamenei ha criticato e definito ‘traditori’ alcuni membri del Consiglio degli Esperti, che sono stati arrestati e imprigionati dai Guardiani della Rivoluzione, dimostrando che il Capo Supremo esercita in realtà un potere assoluto.

Il Majlis non è però un parlamento formale privo di influenza, è il luogo in cui si lascia spazio (controllato) a discussioni (controllate) finché si raggiunge il consenso. Gli accordi nucleari con l’Occidente e l’attuale politica petrolifera dell’Iran sono stati lungamente discussi dal governo con il Majlis prima di essere implementati, e tutte le decisioni di spesa del governo debbono aver il via libera del Majlis. Le decisioni di politica estera e di difesa nazionale sono nelle mani del Consiglio Supremo di Sicurezza e del Comando Generale delle Forze Armate, entrambi presieduti dal capo supremo Khamenei, ma poi debbono essere discusse e approvate dal Majlis, e le discussioni possono proseguire anche per anni. Il Majlis dà voce alla popolazione, in modo limitato e controllato, ma sufficiente perché le istituzioni non perdano il contatto con il paese reale.

In Cina le istituzioni dello stato e quelle del Partito Comunista coincidono. Anche i soldati dell’Esercito (di Liberazione del Popolo) sono scelti fra gli iscritti al Partito. L’iscrizione al Partito è necessaria per aver accesso a qualunque carica in qualunque settore pubblico, così come lo era l’iscrizione al partito fascista in Italia al tempo di Mussolini. Fino alla morte di Mao Ze Dong nel 1976 tutto era pubblico in Cina, perciò al di fuori del Partito non c’era possibilità di condurre una vita accettabile. Chi non era accettato nel Partito conduceva una vita miserabile come ultimo dei manovali o dei braccianti in qualche organizzazione collettiva in cui però non aveva voce, né libertà, né diritti, come gli addetti ai lavori forzati.

Il Partito non accettava tutti, ma soltanto i sani di corpo e di mente che fossero pronti a credere e obbedire, dimenticando anche gli affetti famigliari. La propaganda lodava regolarmente i ‘compagni’ che non si assentavano dal lavoro per assistere la madre morente, ma proseguivano nel loro dovere di lavoratori comunisti, mentre altri compagni assistevano la madre nell’ambito del proprio lavoro. Imbiancare la pareti della propria abitazione era considerato segno evidente di egoismo borghese: bisognava imbiancare le pareti che il comitato direttivo della comunità decideva di imbiancare, non quelle di casa propria! Risultato: case lerce e persone inattive in attesa di ordini dal comitato. Oggi molta parte dell’economia è stata privatizzata, o trasformata in aziende a partecipazione sia pubblica sia privata, ma non le aziende di base, quelle che estraggono o importano minerali e ne fissano il prezzo sul mercato domestico, producono e forniscono energia e acciaio, costruiscono le grandi infrastrutture, gestiscono i trasporti internazionali. Il terreno è tutto di proprietà pubblica, anche se è concesso in uso a privati. Il potere del Partito è sempre assoluto, ma al suo interno si sono creati diversi gruppi di potere, che coincidono con le diverse strutture dello stato e dell’industria pubblica. I gruppi di potere rispondono ai diversi interessi dei diversi territori, finendo anche con l’assumere connotazioni ideologiche diverse, che tendono a creare fratture e ostacoli nell’opera di governo, perciò l’attuale presidente Xi Jinping sta effettuando una dura repressione, sotto forma di campagne anti-corruzione.

Sino a ora lo sviluppo economico tumultuoso ha migliorato velocemente le condizioni economiche della grande maggioranza dei Cinesi, generando consenso, ma ora che i costi di produzione sono aumentati e la crisi economica globale riduce la richiesta, la crescita ha rallentato. Centinaia di milioni di Cinesi ancora poveri si aspettano che ora tocchi a loro raggiungere buone condizioni di vita e diventano via via più insofferenti, perciò le difficoltà di governo aumentano. Per la prima volta si sentono i Cinesi criticare pubblicamente le autorità e il Partito e mostrare apertamente rabbia e invidia nei confronti di chi ha denaro o potere. L’opera di repressione del dissenso diventa sempre più difficile.

 

Le istituzioni cinesi e iraniane sono tutt'altro che snelle o poco costose. Tendono alla duplicazione delle funzioni per permettere il confronto fra diversi interessi in un contorno sempre controllato dal potere centrale, che usa i diversi gruppi l’uno contro l’altro a proprio vantaggio.

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