Echi della guerra dell’oppio nello scontro commerciale fra Cina e USA

28/01/2019

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Era il 1793 quando l’Impero britannico inviò il suo primo rappresentante in Cina, Lord George Macartney, per chiedere al sovrano Qing dell’epoca, l’imperatore Daoguang, di aprire un’ambasciata inglese a Pechino e − soprattutto − di aprire i porti cinesi al commercio internazionale, sulla base di tariffe concordate. L’Imperatore rifiutò dicendo che ’le richieste inglesi non erano in armonia con le regole del Celeste Impero’. Mezzo secolo più tardi gli Inglesi costrinsero l’Imperatore ad accettare i negoziati cannoneggiando le coste cinesi. La facile vittoria inglese nella cosiddetta Prima guerra dell’oppio avrebbe determinato una lunga svolta nella storia cinese, che terminò con Mao e i comunisti.

Fin alla fine del 1700 la Cina era rimasta in una sorta di isolamento. Sin dal 1685 i mercanti europei commerciavano con la Cina attraverso quattro porti, quattro aree speciali, ma erano scambi di importanza tanto trascurabile per l’Impero cinese che soltanto all’inizio del 1900 la Cina creò – a malincuore − un ministero o ufficio per gli affari esteri. Neppure allora la Cina si aprì al mondo, ma fu il mondo a imporsi sulla Cina.

I primi scambi commerciali diretti dei Cinesi furono con gli Inglesi. Con gli scambi sorsero anche le prime divergenze tra i due Imperi. Le tensioni iniziarono a causa della passione inglese per il tè. Le importazioni inglesi di tè attorno al 1750 erano già di circa 1.250 tonnellate l’anno. Nel 1758 il tè costituiva un quarto del valore delle importazioni della Compagnia delle Indie Orientali. La Cina produceva tè eccellente, molto ricercato sul mercato europeo. Ma, a differenza degli Inglesi, i Cinesi importavano ben poco, creando in tal modo uno squilibrio commerciale e un problema di bilancia dei pagamenti. Ai Cinesi interessavano poco i prodotti europei.

La bilancia commerciale fra Gran Bretagna e Cina fu in attivo per gli Inglesi tra il 1772 e il 1775. Tra il 1784 e il 1792 divenne negativa e raggiunse un deficit di 3,7 milioni di sterline nel primo decennio del 1800, proprio quando la Gran Bretagna aveva bisogno di molte risorse per combattere le guerre napoleoniche.

La soluzione della Gran Bretagna fu l’oppio, abbondante nel nord dell’India, colonia britannica sin dalla seconda metà del XVIII secolo, e molto richiesto dai Cinesi. Gli inglesi crearono un “commercio triangolare”: pagavano i prodotti cinesi che avrebbero rivenduto in Europa con l’oppio che producevano in India. Le esportazioni britanniche di oppio in Cina salirono da circa 200 casse nel 1729 fino alle oltre 40.000 casse del 1838.

Il governo Qing tentò di frenare l’importazione di oppio, ma gli inglesi lo contrabbandavano. Nel 1840 il governo cinese arrestò un mercante e distrusse 20.000 casse di oppio. La Gran Bretagna inviò la flotta a occupare i porti cinesi e le regioni circostanti, obbligando l’Imperatore ad accettare (trattato di Nanchino) di aprire il mercato interno non soltanto alla Gran Bretagna, ma anche a Francia, Germania, Stati Uniti, Russia e Giappone, cioè alle nazioni più industrializzate del mondo.

La guerra dell’oppio ebbe una grave conseguenza sulla Cina: creò una profonda frattura di interessi fra le regioni centrali e le regioni costiere e l’Imperatore non riuscì a mantenere l‘equilibrio fra le varie parti del Paese. In Cina la popolazione usava monete di rame per tutti gli scambi correnti, ma le tasse dovevano venir pagate in argento. Anche l’oppio e le altre importazioni venivano pagate in argento, perciò la richiesta di argento aumentò, il valore dell’argento rispetto al rame crebbe rapidamente e costantemente. I commercianti delle regioni costiere continuavano a trarre profitti dai commerci, ma le popolazioni rurali dovettero pagare sempre di più l’argento da versare allo stato, impoverendosi progressivamente. Quello stesso stato che non riusciva a difendere la popolazione dall’invasione straniera e dal moltiplicarsi delle morti da oppio chiedeva tasse ogni anno più esose.

Ne seguì un secolo di rivolte sanguinose, guerre e invasioni: la Rivolta dei Taiping, la Seconda guerra dell’oppio e la Ribellione dei Boxer si susseguirono. Vaste zone della Cina vennero occupate dal Giappone e dalla Russia. Alle invasioni straniere i Cinesi non opposero un fronte unito, ma diviso fra diversi signori della guerra, fin dopo la Seconda guerra mondiale. Chiang Kai-shek e Mao Zedong, gli ultimi due grandi signori della guerra, si combatterono a lungo l’un l’altro. Nel 1948 Mao Zedong riuscì a scacciare definitivamente gli invasori, ma soltanto dopo aver vinto ed esiliato il rivale.

Il Partito Comunista Cinese (PCC) è l’erede della storia delle guerre dell’oppio e delle umiliazioni che ne seguirono. Sotto la sua guida il paese è fortemente centralizzato, è orgoglioso dei successi raggiunti in tutti i campi e si è lanciato con fiducia verso il futuro. Se il governo cinese si indebolisse rischierebbe di perdere la lealtà di parte della popolazione. La repressione interna è il prezzo da pagare per mantenere la Cina indipendente e unificata. L’attuale guerra commerciale con gli Stati Uniti è una prova importante per il PCC.

Nel 1949 Mao chiuse la Cina a ogni influenza esterna, come aveva fatto nel XVII secolo l’imperatore Kangxi. L’apertura della Cina al sistema commerciale globale avvenne soltanto dopo la morte di Mao, ed ebbe un rapido sviluppo grazie al pieno sostegno degli USA, allora interessati a isolare l’Unione Sovietica nel contesto della Guerra fredda, molto più che a massimizzare i profitti. Se non ci fosse stata la Guerra fredda, probabilmente gli Stati Uniti e la Cina non sarebbero mai entrati in relazione simbiotica. Invece lo fecero negli anni ’70. Poco più di dieci anni più tardi gli Stati Uniti e la Cina erano diventati i pilastri del sistema economico globale. La principale risorsa della Cina era la sua popolazione, che poteva produrre beni di consumo al prezzo più competitivo di chiunque altro. Proprio per questa ragione molte fabbriche europee e americane chiusero, ma a guadagnarci furono i consumatori, che ebbero a disposizione beni a prezzi molto bassi.

Ma a partire dagli anni ’90 gli Americani, proprio come gli Inglesi nel secolo precedente, iniziarono ad avvertire lo squilibrio commerciale. Il deficit commerciale degli USA con la Cina ha raggiunto 344 miliardi di dollari nel 2018, mentre il surplus commerciale della Cina con gli altri paesi del mondo è salito a 237 miliardi di dollari, all’incirca pari al 2% del suo PIL. La relazione tra America e Cina non è più simbiotica, il sistema di scambio sta diventando irrazionale per entrambi i partner.

Con il successo e la ricchezza, la Cina ha visto aumentare gli stipendi dei suoi lavoratori, perdendo in parte il principale vantaggio competitivo, cioè il basso costo della forza lavoro. In Occidente l’aumento dei costi riduce l’appetito per le importazioni. Ma soprattutto gli USA e molti altri stati debbono affrontare il problema del debito, che è diventato un grosso rischio per l’economia globale. La crisi finanziaria ed economica del 2008 ha fatto capire al mondo che gli squilibri commerciali e il ricorso costante degli stati all’indebitamento per pagare la gestione corrente dell’amministrazione pubblica non possono durare per sempre, che il sistema va modificato. Ma modificare il sistema è difficile e provoca reazioni politiche avverse.

Una possibile soluzione allo squilibrio della bilancia commerciale è che la Cina sviluppi molto il mercato interno e lasci la produzione a basso costo ad altri paesi in via di sviluppo. La Cina, con oltre un miliardo di consumatori, è un mercato estremamente allettante per tutte le aziende del mondo. Qui sta il punto cruciale della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti e la sua somiglianza con la Prima guerra dell’oppio. Gli Americani di oggi, proprio come gli Inglesi di allora, vogliono che la Cina commerci alle loro condizioni. Vogliono che la Cina apra il suo mercato interno e accetti la protezione della proprietà intellettuale. Chiedono che le multinazionali possano operare in Cina senza timore di improvvise nazionalizzazioni o di regolamenti che impediscono loro di perseguire il loro obiettivo fondamentale, ossia il profitto. È una richiesta oggi inaccettabile per il governo cinese, la cui politica economica pone la stabilità sociale come obiettivo economico primario, ben più importante del profitto.

A differenza di quanto fecero gli Inglesi nel 1840, gli Americani non possono imporsi con la forza bruta, sia perché la Cina è una potenza dotata di capacità militari e tecnologiche importanti, sia perché l’imperialismo a scopo mercantile non è più accettato nel mondo.

La Cina oppone resistenza. Da quando Xi è diventato presidente ha lanciato una politica di “autosufficienza”, cioè di vendita prioritaria di prodotti di marca cinese sul mercato domestico, non di prodotti con marche occidentali.

La politica del Partito Comunista Cinese è sempre stata fortemente nazionalista. Quando Mao portò al potere il PCC, riportò anche la leadership nelle mani della popolazione di etnia Han. La Cina è un paese multietnico con 41 nazionalità riconosciute, ma la stragrande maggioranza della popolazione è di etnia Han. Il PCC utilizza a proprio vantaggio la forza del nazionalismo Han e impone modelli di comportamento alle minoranze con la repressione e con la ‘rieducazione forzata’, come è avvenuto costantemente all’epoca di Mao e come sta ora avvenendo nei confronti degli Uiguri. Oggi si aggiungono progetti per monitorare ogni aspetto della società cinese con sistemi tecnologici avanzati.

La Repubblica Popolare Cinese, a differenza dell’Impero Qing, oggi ha l’autorità, le risorse e la motivazione per perseguire il proprio sviluppo senza piegarsi alle richieste altrui. Ma a differenza dell’Impero Qing la Cina sa che non può davvero perseguire ‘l'autosufficienza’ fino in fondo: già deve importare cibo e petrolio per la popolazione, in futuro dovrà importare sempre di più per soddisfare un mercato interno in crescita. 

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