Possibili esiti e conseguenze della battaglia di Gaza

07/01/2009

Sono passati più di dieci giorni dall’inizio dell’offensiva di Israele contro Hamas nella striscia di Gaza, l’esercito israeliano combatte casa per casa per stanare e rendere innocui i gruppi di terroristi che da anni colpiscono ripetutamente Israele con lanci di razzi sulle città meridionali del paese.
 
Il conflitto avrà sicuramente ripercussioni su tutta l’area mediorientale e gli analisti  internazionali studiano con attenzione l’evoluzione dei fatti. In questi giorni iniziano a circolare ipotesi di exit-strategy e di futuri nuovi equilibri regionali quando i combattimenti saranno terminati. Al momento  si possono intravvedere alcuni possibili scenari.
 
Nella migliore delle ipotesi una vittoria israeliana contro le milizie di Hamas potrebbe spingere gli altri paesi della regione (Egitto, Giordania e Arabia Saudita soprattutto) a rincarare la dose contro il maggiore responsabile del terrorismo nella regione, l’Iran. Già prima dell’attacco in Medio Oriente andavano delineandosi due schieramenti contrapposti che vedevano Siria e Iran da una parte, Egitto e Arabia Saudita dall’altra, che si sentono minacciati dalla crescita della potenza iraniana nella regione.
 
L’Iran ha molto da perdere nell’attuale scontro: da tempo finanzia Hamas ed Hezbollah non solo per tormentare Israele, ma anche per estendere la propria influenza sul mondo arabo. Una secca sconfitta di Hamas potrebbe minare questa strategia e infierire un duro colpo all’arroganza dei mullah che, con le spalle al muro, sarebbero costretti a sedersi al tavolo delle trattative ad accantonare i propri obiettivi.
 
Secondo un articolo di Steven Lee Myers, apparso sull’Herald Tribune il 4 gennaio ’09, l’attuale escalation militare potrebbe invece avere ripercussioni negative. Gli scontri hanno recentemente mostrato le divisioni all’interno dei paesi arabi, che potrebbero aggravarsi e impedire ai governi di interloquire e collaborare con Israele.
 
Certamente la linea egiziana è piuttosto chiara: il presidente Mubarak ha recentemente avuto uno scontro verbale con il leader di Hezbollah, Nasrallah, stretto collaboratore dell’Iran, e ha continuato a tenere chiuso il confine fra la striscia di Gaza e l’Egitto. La Repubblica Islamica dal canto suo ha messo una taglia da un milione di dollari sul leader egiziano, accusato di essere un collaboratore dei sionisti.
Il leader dell’Arabia Saudita durante un incontro con la Lega Araba ha apertamente espresso critiche contro Hamas, accusando il movimento islamico di essere responsabile dell’attuale guerra. Ma i due leader devono fare i conti con la parte più irosa ed estremista della popolazione araba, che potrebbe spingerli a fare dei passi indietro. Le scene di guerra e dei massacri civili potrebbero infiammare e radicalizzare alcuni membri della comunità araba, che potrebbero essere spinti sulle posizioni di Hamas.
 
La radicalizzazione nella regione potrebbe condurre a una situazione simile a quella del 1982 in Libano. A quel tempo l’invasione, mirata all’eliminazione della minaccia delle milizie di Yasser Arafat, ebbe successo dal punto di vista militare: Arafat fuggì in Tunisia e poi riconobbe la legittimità di Israele, requisito necessario per l’inizio dei negoziati. Ma allo stesso tempo sul campo lasciato sgombro dal’esercito nasceva una forza nuova e virulenta, fortemente anti-israeliana: Hezbollah. Il confine settentrionale rimase insicuro e il potere iraniano si insediò in Libano.
 
Mohammed Abbas (Abu Mazen), malgrado la rivalità con Hamas, ha già dichiarato di non voler entrare a Gaza sui carri armati israeliani, per non inimicarsi il popolo della Cisgiordania, che lo accuserebbe quasi certamente di collaborazionismo. È a rischio in questi giorni anche il processo di pace avviato dal presidente George Bush ad Annapolis nel 2007. Se il conflitto perdura, Abu Mazen potrebbe ritrovarsi isolato dalla popolazione e rinunciare perciò ai negoziati. Finora però l’Autorità Palestinese ha cercato di sedare le manifestazioni violente in Cisgiordania, dimostrando  un cambio di rotta rispetto al passato – e negando di fatto la volontà di scatenare una terza Intifada.
 
 
Quanto durerà il conflitto? Quali saranno le conseguenze dell’azione militare? Per rispondere a tale quesito occorre considerare gli obiettivi che Israele intende raggiungere con questa operazione. Secondo le dichiarazioni ufficiali del governo israeliano, l’intervento armato ha lo scopo di fermare il lancio di razzi dalla striscia di Gaza verso le città del sud di Israele in modo duraturo e definitivo. Si prevede perciò che la ritirata non avverrà sino ad operazione compiuta.
Israele non ha intenzione di ripetere la catastrofe militare del 2006, quando l’esercito penetrò in territorio libanese per interrompere il lancio di razzi effettuato da Hezbollah. Il conflitto terminò con una risoluzione dell’ONU e con l’insediamento di una forza di peacekeeping – e con il conseguente riarmo di Hezbollah, che potrebbe rivelarsi nuovamente una minaccia in futuro.
 
Secondo Caroline B. Glick, opinionista del Jerusalem Post, occorre negare al nemico la possibilità di attaccare Israele in futuro. Per proteggere il territorio israeliano è necessario rovesciare Hamas e distruggere le sue unità militari . I vertici militari nelle ultime ore mostrano di voler perseguire questo obiettivo, che sicuramente richiederà tempo e meticolosità.
Noah Pollack sostiene che è difficile, se non impossibile, pensare all’integrazione di Hamas nel processo politico, in quanto proprio per la sua natura estremista non è capace di occuparsi di amministrazione civile e rischia di perdere consenso in tempo di pace – come è avvenuto durante la tregua nella striscia di Gaza.
 
Gli obiettivi israeliani si possono evincere dalla parole di Tzipi Livni del 5 gennaio scorso: Hamas non dovrà ottenere legittimazione internazionale nell’eventualità di un cessate il fuoco, in quanto organizzazione terroristica; il nuovo governo di Gaza dovrà scongiurare in modo definitivo il ritorno a una situazione simile a quella che ha portato allo scoppio del conflitto – in pratica si chiede il blocco totale del traffico di armi dall’Egitto e dall’Iran e l’interruzione definitiva del lancio di razzi.
Però Israele non ha intenzione di impantanarsi in una nuova occupazione della striscia di Gaza, dopo la dolorosa esperienza passata, ma vuole ristabilire la deterrenza perduta nel 2006 nella guerra contro Hezbollah.
 
Una proposta verosimile per il dopoguerra, avanzata anche da Mohammed Yaghi (esperto di politica palestinese) durante un’intervista del CFR, prevede il coinvolgimento di tutti i paesi arabi moderati della regione per raggiungere una soluzione condivisa e duratura. In questo contesto Israele non dovrebbe trattare direttamente con Hamas, ma la Lega Araba avrebbe l’incarico di mediare fra Palestinesi e Israeliani.
Per ora però la guerra continua e Israele cerca di ottenere i massimi risultati possibili sul terreno.

A cura di Davide Meinero
 
 
       

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