9 ottobre 2009
Il sistema bancario islamico si basa sulle leggi e sui principi della
Shari’a, un sistema di leggi tratte dai principi islamici e dalle varie interpretazioni – dalle più antiche alle più moderne – del Corano. Questo sistema è simile al sistema bancario convenzionale, ad eccezione del fatto che
l’investitore viene ripagato attraverso una “condivisione del profitto” invece che attraverso il pagamento degli interessi – condannati col termine
riba, ovvero usura.
Le banche islamiche non fanno affari con chi commercia carne di maiale, alcol, case da gioco, pornografia e altre attività proibite dalla legge islamica, ma per il resto agiscono in tutto e per tutto come le banche convenzionali. Nelle banche islamiche sono in uso i
sokouk, ovvero obbligazioni basate sulla condivisione dei profitti e i
murhabaha, ovvero operazioni di compravendita da cui la banca trae un profitto.
Il sistema islamico non permette la creazione di debito attraverso il prestito ad usura, ma soltanto attraverso la partecipazione agli utili da vendita o affitto di beni reali.
Uno sguardo internazionale
Dopo la nascita del primo istituto in Malesia tre decadi fa, il sistema bancario islamico è andato via via crescendo negli ultimi trent’anni ed attualmente è gestito anche da non-mussulmani. Molte banche multinazionali, specialmente in Europa, hanno aperto sportelli dedicati a clienti di religione islamica. Uno studio del Fondo Monetario Internazionale del 2005 rivelò che
dal 1975 il numero delle banche islamiche era cresciuto da 75 a 300, presenti ormai in 75 paesi diversi.
Al momento dello studio i beni degli istituti islamici erano pari a circa 250 miliardi di dollari (il 90% dei quali in mano ai paesi del Golfo
[1]) ed il tasso di crescita annuale era del 15% circa.
Paragonate ai prima 50 istituti bancari del mondo tuttavia la ricchezza delle banche islamiche è irrisoria: infatti il patrimonio delle prime 100 banche islamiche messe insieme è pari a quello della 48° banca del mondo (la Banca Nazionale Australiana).
Mito e realtà
Gli istituti bancari islamici affermano di operare a “interesse zero”, ma numerosi critici del sistema islamico sostengono invece che gli interessi non siano assolutamente stati eliminati, bensì siano semplicemente camuffati sotto altro nome.
Il professore Hamid Al’-Ali, professore di cultura islamica in un’università del Kuwait, sostiene che le banche islamiche hanno semplicemente inventato documenti che sulla carta appaiono come certificati di vendita, ma di fatto sono prestiti. Inoltre nella maggior parte dei casi le autorità religiose incaricate di supervisionare le varie attività sono a libro paga delle banche e quindi emettono i giudizi che vogliono le banche stesse.
Ad esempio la
murabaha (che significa “profitto”) è un modo con cui si cerca di aggirare la
Shari’a. Il meccanismo funziona così: il cliente chiede alla banca di acquistargli un certo bene – una casa, o un bene duraturo come una macchina, etc. Dato che il cliente non ha il denaro per comprare il bene per conto suo (altrimenti non si sarebbe rivolto alla banca) l’istituto di credito compra il bene e lo vende a prezzo maggiorato al cliente, che lo pagherà a rate come stabilito dall’accordo di compravendita.
I critici della
murabaha sostengono però che il la differenza fra il prezzo d’acquisto e di vendita sia a tutti gli effetti
riba, ovvero usura.
Le banche
islamiche lavorano a stretto contatto con le banche convenzionali in tutto il mondo ed è quindi difficile per le autorità religiose stabilire se i contratti sono compatibili con la
Shari’a oppure no. Ma per sopravvivere le banche islamiche devono da una parte sottostare alla
Shari’a e dall’altra combattere per rimanere a galla in un mercato altamente competitivo. Per ora la linea di demarcazione fra gli istituti islamici e le banche convenzionali è piuttosto sottile.
Se venisse istituito un meccanismo di supervisione religiosa rigida ed incapace di comprendere le dinamiche finanziarie, le banche islamiche andrebbero velocemente in bancarotta, ed è quindi probabile che per ora la situazione rimanga invariata.
[1] L’Arabia Saudita possedeva il 49,5% dei beni, gli Emirati Arabi Uniti il 20%, il Kuwait il 17,4% ed il Bahrain l’11%.
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