Il 27 ottobre 2009 Ahmed Rashid, scrittore e giornalista pakistano, ha pubblicato sul National Interest un’interessante e
stimolante analisi sulla situazione afgana. Rashid sottolinea più volte che soltanto attraverso la stabilizzazione dell’Afghanistan sarà possibile garantire un futuro stabile all’Asia centrale e ai paesi limitrofi, e tratteggia una strategia con cui – a suo avviso - gli Stati Uniti e la comunità internazionale possono raggiungere risultati concreti e duraturi.
Il peggioramento della situazione in Afghanistan nell’ultimo anno ha demoralizzato l’opinione pubblica internazionale. Di fronte ad una situazione sempre più complicata, molti paesi hanno iniziato a elaborare una strategia per il ritiro delle truppe. Gli eserciti occidentali sono bersaglio dei Talebani, che hanno intensificato gli attacchi nell’ultimo periodo. Inoltre il già fragile ambiente politico del paese è uscito ancora più indebolito dalla vicenda dei brogli alle elezioni di Agosto in cui è coinvolto il presidente Karzai.
Quale strategia?
Obama in campagna elettorale ha parlato dell’Afghanistan come della “guerra giusta” in cui investire tutte le risorse in quanto di fondamentale importanza per gli interessi statunitensi e della comunità internazionale. Ma la situazione ereditata dal suo predecessore George W. Bush era disastrosa.
La precedente amministrazione aveva commesso tre errori fondamentali:
· il numero di truppe sul terreno era insufficiente;
· nel processo di pace non erano stati sufficientemente coinvolti i sei paesi limitrofi, che storicamente hanno sempre interferito negli affari afgani e quindi hanno tutt’ora una certa influenza sull’Afghanistan;
· non era stata elaborata una strategia per aiutare il governo ad avere il controllo del territorio, sviluppare l’economia e a costruire un esercito capace di proteggere la popolazione.
La strategia adottata dal generale Petraeus nel 2008 (che aveva funzionato bene in Iraq) basata sulla protezione dei centri più popolati e sulla costruzione della fiducia nel governo, piuttosto che sulla sola caccia ai ribelli,
ha senz’altro contribuito a migliorare (almeno in parte)
la situazione.
Nella primavera del 2008 una grande fetta dell’Afghanistan meridionale ed orientale – comprese le province vicine a Kabul – era nuovamente controllata dai Talebani, che vi hanno immediatamente insediato governatori, tribunali, polizia e organi di riscossione dei tributi.
I Talebani potevano – e possono tuttora - contare su basi sicure nelle Aree Tribali pakistane e nel Balucistan e su un’ampia disponibilità di denaro proveniente da finanziamenti esteri, traffico di droga, estorsioni, etc.
Anche la tattica dei ribelli è migliorata notevolmente: le imboscate sempre più sofisticate, i numerosi attentati suicidi nei centri urbani, l’impiego di autobombe sempre più efficienti hanno notevolmente demoralizzato la popolazione civile afgana – e di conseguenza l’opinione pubblica occidentale.
Con l’insediamento di Obama i principali errori sono stati corretti: le truppe sono state aumentate, sono stati inviati tecnici capaci di aiutare il governo a sviluppare l’economia ed è stato creato un gruppo di esperti che ha subito preso contatti con i paesi confinanti.
Ma il problema dei brogli ha peggiorato la situazione e danneggiato ulteriormente l’immagine del presidente Karzai.
Karzai negli anni scorsi non si è impegnato molto a combattere la corruzione e il traffico di droga, si è recato solo raramente nelle scuole, negli ospedali o presso le unità dell’esercito afgano per prendere atto dei progressi sul campo. Inoltre
ha sempre deliberatamente ignorato il parlamento preferendo stringere alleanze con i signori della guerra. Dopo essere stato criticato dagli Stati Uniti per le sue sconsiderate politiche, Karzai invece di collaborare ha assunto addirittura un comportamento vagamente anti-americano pensando di attrarre più voti fra gli Afgani e spingere così Obama a venirgli incontro. I suoi calcoli si sono rivelati sbagliati.
Prima delle elezioni i Talebani hanno lanciato più di quattrocento attacchi intimorendo la popolazione, che in larga parte ha preferito non andare a votare - soltanto il 38% si è recato alle urne, poco più della metà del 2004.
Il fattore psicologico è anche di notevole peso. Secondo i recenti sondaggi più del 51% degli Americani è favorevole al ritiro delle truppe. E lo stesso avviene in Europa: la Spagna ha già anticipato di voler ritirare le truppe nel 2015, la Germania nel 2013, in Italia alcune forze politiche hanno addirittura chiesto il ritiro entro la fine dell’anno, e così via.
Ma quello che sfugge è che
in gioco non è soltanto il futuro dell’Afghanistan, ma quello dell’intera regione. L’ideologia dei Talebani infatti si sta espandendo oltre i confini, in Pakistan e oltre.
Negli ultimi otto anni i Talebani sono diventati un modello per gli estremisti di tutta la regione: oggi già esistono movimenti talebani in Pakistan e in Asia centrale, ma potrebbero presto nascerne di nuovi fra i Musulmani della Cina e dell’India.
I Talebani, pur non avendo aspirazioni internazionaliste,
hanno capito che la Rivoluzione Islamica che hanno portato nel paese dal 1993 al 2001 non può sopravvivere a meno che non venga esportata nei paesi limitrofi – è la teoria della
Rivoluzione Permanente di Lev Trotsky, secondo cui la rivoluzione in un solo paese non è sufficiente a garantirne la sopravvivenza a lungo termine.
Il Pakistan in bilico.
Il generale McChrystal ha inquadrato perfettamente la situazione affermando che
l’intera leadership fondamentalista dei Talebani e di al Qaeda – che lavorano a stretto contatto – si trova in Pakistan. Islamabad d’altronde ha sempre perseguito una duplice politica appoggiando da una parte gli Americani nella lotta contro al Qaeda e i Talebani pakistani, ma aiutando i Talebani afgani dall’altra. Questo accade perché
la logica dell’apparato di sicurezza pakistano è ancora centrata sulla lotta contro il rivale storico, l’India.
L’esercito pachistano vedrebbe di buon occhio l’insediamento di un regime talebano a Kabul, in quanto impedirebbe agli Indiani e i loro protetti (nell’ottica pachistana anche Karzai è protetto dall’India) di immischiarsi negli affari del paese. Inoltre Islamabad pensa che gli Stati Uniti e le forze Occidentali se ne andranno dall’Afghanistan a breve o medio termine, e quindi preferisce mantenere i contatti con i Talebani afgani, che non se ne andranno.
Il Pakistan non si rende conto che così facendo mette a repentaglio la propria sicurezza: se gli Americani si ritirassero dall’Afghanistan, il Pakistan rischierebbe seriamente di essere destabilizzato in tempi brevissimi. All’inizio di quest’anno i Talebani pakistani hanno conquistato la Valle di Swat, poco a nord di Islamabad, destando la preoccupazione della popolazione civile pakistana e della comunità internazionale. A seguito di questo evento per la prima volta la leadership di Islamabad ha preso consapevolezza della minaccia talebana. L’esercito è stato costretto ad intervenire per riprendere possesso della regione e sta ancora combattendo per rendere sicura l’area del Passo Khyber, attraverso cui transitano ogni mese centinaia di convogli della NATO diretti in Afghanistan.
Attualmente le truppe pakistane stanno cercando di sconfiggere i Talebani nel Waziristan meridionale con l’aiuto degli Stati Uniti – che alcuni mesi fa sono riusciti ad uccidere il leader Baitullah Meshud, elemento chiave della guerriglia talebana nella regione.
Ma altri
importanti nuclei talebani – come la rete Haqqani e i Talebani di Gulbuddin Hekmyatar –
si sono nascosti nel Waziristan settentrionale, da cui lanciano attacchi contro le truppe della coalizione in Afghanistan, e negli ultimi otto anni non sono mai stati toccati dall’esercito pakistano.
Così come continuano ad operare indisturbati i leader talebani che vivono a Quetta, nel Balucistan pakistano, da cui partono denaro, munizioni, terroristi suicidi e ordigni di ogni genere diretti in Afghanistan.
Man mano che le operazioni militari aumentano, l’esercito in Pachistan continua ad acquisire sempre più influenza e potere, e c’è il rischio che gli ufficiali optino per un colpo di stato.
Ma quello che temono i Pakistani non è tanto un colpo di stato tradizionale, ma un golpe capeggiato da colonnelli estremisti legati ai gruppi islamici, che adotterebbero senza dubbio una politica filo-islamica ed antioccidentale stringendo alleanze con i Talebani pakistani. Se così fosse,
l’arma nucleare cadrebbe nelle mani sbagliate.
L’Asia centrale a rischio.
I
paesi che circondano l’Afghanistan – Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Turkmenistan – a causa della loro povertà, corruzione e mancanza di democrazia sono profondamente a rischio di deriva islamista.
In Uzbekistan ad esempio, nonostante gli sforzi del governo, l’estremismo islamico ha continuato a diffondersi a macchia d’olio. Dopo gli scontri del 2005 a Andijan fra le forze di sicurezza e i manifestanti, in cui persero la vita circa 800 persone, centinaia di dissidenti si sono uniti al Movimento Islamico dell’Uzbekistan e all’Unione Islamica per il Jihad - entrambi attivi nelle Aree Tribali e vicini ai Talebani. L’estate scorsa per la prima volta questi due movimenti hanno lanciato attacchi terroristici contro le forze di sicurezza uzbeke e kirghise.
Recentemente anche il Cremlino ha deciso di cooperare (seppur limitatamente) con gli Stati Uniti, perché inizia a percepire il peso crescente dell’estremismo islamico, che rischia di contagiare anche la Russia.
Conclusioni
Certamente la situazione è molto delicata, ma esiste ancora un margine di speranza. Innanzitutto non va dimenticato che
la popolazione afgana non vuole che i Talebani ritornino al potere, dato che ha sperimentato a sufficienza i loro metodi barbari ed incivili.
Gli Stati Uniti devono in primis convincere il popolo afgano, il governo di Islamabad e gli altri stati della regione che non hanno intenzione di lasciare l’Afghanistan nelle mani dei Talebani e
che per questo
sono disposti a dedicare tutto il tempo necessario alla pacificazione del paese. Poi
devono controllare le azioni del futuro leader in carica – sicuramente Karzai – e far sì che si dedichi seriamente allo sviluppo del paese. Ed infine
devono monitorare attentamente la situazione in Pakistan, per evitare che Islamabad cada nelle mani degli estremisti islamici.
Obama dovrà convincere il Congresso, il popolo americano e i suoi partner nella NATO che soltanto vincendo in Afghanistan sarà possibile salvare l’Asia centrale da una spirale di instabilità e dall’avanzata dell’estremismo islamico nella regione. Certamente questa sarà un’operazione che richiederà tempo e pazienza, ma soltanto così si potrà mettere freno all’ondata islamista che minaccia direttamente l’Occidente.
A cura di Davide Meinero
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