Il mondo islamico non conosce il concetto di laicità così come lo intende l’Occidente. Per noi occidentali la religione fa parte della sfera privata e personale della vita, non della politica né delle istituzioni pubbliche. Ne consegue che, ad esempio, non chiediamo l’appartenenza religiosa per dare accesso alle scuole o a incarichi pubblici o a servizi sociali, che consideriamo una grave scorrettezza la possibile interferenza delle gerarchie ecclesiastiche nella politica, che non scriviamo l’appartenenza religiosa dei cittadini su nessun documento di identità.
Questo concetto di laicità è condiviso soltanto da un pugno di intellettuali islamici molto occidentalizzati, ma è estraneo alla cultura delle popolazioni islamiche, per le quali la legge islamica (shari’a) deve essere indiscutibilmente la base della politica e delle leggi di uno stato che voglia essere percepito come legittimo. Così succedeva anche nel mondo cristiano prima dell’illuminismo e delle rivoluzioni (americana e francese) di fine ‘700. Gli islamici che si auto-definiscono ‘laici’ ritengono legittimo che il potere venga esercitato da persone che non sono anche capi religiosi, ma sono capi militari, capi tribù, discendenti della famiglia del Profeta o politici eletti dal popolo. Ma la base del diritto e della legittimità rimane, anche per questi ‘laici’, la shari’a.
Anche in occidente la legittimità del potere e della legge erano basate sui principi del cristianesimo e sul riconoscimento da parte delle gerarchie religiose prima dell’illuminismo e delle rivoluzioni (americana e francese) di fine ‘700.
In Iran prima della conquista del potere da parte degli ayatollah regnava un re (shah) che non era un religioso, né lo erano i suoi ministri. Ma le leggi del regno si ispiravano alla shari’a, lo shah era anche difensore della fede. Così è ancora oggi in Indonesia, in Pakistan, in Giordania, in tutte le repubbliche e monarchie del mondo islamico, ma non più in Iran. Dopo la rivoluzione degli ayatollah (giuristi islamici), in Iran il capo politico supremo non viene eletto dai cittadini, ma è nominato dai giuristi islamici, dai religiosi. Il capo della gerarchia religiosa diventa così il capo supremo dello stato, con poteri superiori a quelli di qualunque politico eletto dai cittadini. È come se da noi il capo dello stato fosse di diritto il Papa, eletto dai cardinali. L’Iran non è una repubblica islamica come le altre, è una teocrazia, cioè uno stato in cui il diritto al potere politico è dei capi religiosi sciiti.
Nel mondo sunnita invece non esiste nessuna teocrazia perché non esistono gerarchie religiose. Ci sono centri famosi e influenti per i loro giuristi islamici, ci sono imam altamente apprezzati e rispettati, ma ogni imam e ogni moschea fa da sé, è indipendente. È il potere statale che impone eventualmente norme o limiti agli imam nella gestione delle moschee e indirizza verso l’una o l’altra specifica tradizione sunnita. Il travaglio del mondo islamico oggi è una lotta ideologica con tre facce: una esigua minoranza che ha un concetto occidentale della laicità del potere; una maggioranza che riconosce l’indipendenza del potere politico purché gestito da persone di riconosciuta fede islamica; una corposissima minoranza che aspira alla teocrazia e si presenta in campo politico armata fino ai denti, pronta al martirio e pronta allo sterminio degli infedeli. Fra costoro non ci sono soltanto gli sciiti seguaci degli Ayatollah, ma anche i Fratelli Mussulmani, sunniti.