I vantaggi ottenuti con l’aumento delle truppe in Iraq rimangono tuttora fragili, e le violenze settarie sono riemerse in vista delle elezioni del 7 marzo. Il ritiro delle truppe dall’Iraq dipende tuttora da una serie di fattori, in primis dalla stabilità del sistema post-baathista nato all’indomani dell’invasione americana. Recentemente le tensioni fra Sciiti, Sunniti e Curdi sono aumentate, e dopo le elezioni del 7 marzo ci si chiede se e come la lotta di potere fra i diversi attori troverà composizione.
Gli Sciiti, appoggiati dall’Iran, hanno lanciato una campagna per screditare i sunniti e non perdere il potere ottenuto in questi ultimi sette anni. I Sunniti, che hanno deposto le armi poco meno di tre anni fa, mostrano segni di insoddisfazione perché le promesse che avevano ricevuto – l’integrazione delle milizie sunnite nelle forze di sicurezza irachene e l’ingresso dei sunniti nel processo politico – non sono state mantenute. I Curdi continuano a sfruttare i conflitti settari per consolidare le proprie conquiste, nella speranza di mantenere l’autonomia raggiunta alla fine della guerra del golfo nel 1991.
Ma il ritiro delle truppe non dipende esclusivamente dagli attori interni all’Iraq. Uno degli effetti negativi del cambio di regime a Baghdad è stata l’ascesa del potere iraniano in Medio Oriente: la Repubblica Islamica infatti ha aumentato moltissimo la sua influenza in Iraq, e se ne servirà per proiettare il proprio potere sulla regione.
L’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo osservano con molta preoccupazione l’ascesa dell’Iran e quindi vogliono assicurarsi che i Sunniti iracheni abbiano abbastanza potere per contrastare l’influenza della Repubblica Islamica. Ma i paesi arabi sunniti non hanno i mezzi per sostituirsi agli USA in Iraq. Soltanto un paese potrebbe prendere il posto degli Stati Uniti in Iraq per contrastare l’Iran: la Turchia. Ankara presta attenzione a quanto succede in Iraq, ma occorrerà molto tempo prima che riesca a capire e influenzare la politica irachena in modo significativo.
I Sunniti in Iraq
I Sunniti in Iraq sono passati dal ruolo di principali oppositori a quello di principali alleati degli USA nella lotta contro il potente vicino occidentale – l’Iran. Per i Sunniti la fine del regime di Saddam Hussein ha rappresentato la fine del proprio potere. Dopo anni di lotta contro gli USA però si sono resi conto che con l’insurrezione con facevano altro che rafforzare gli Sciiti, l’Iran e al Qaeda. Quando il generale David Petraeus nel 2007 avviò i negoziati, colsero l’occasione al volo e deposero le armi. Gli Americani promisero ai Sunniti che sarebbero entrati nel processo politico e che avrebbero avuto una fetta del potere in Iraq. Le milizie sunnite – gli Awakening Councils, che constano di circa 100.000 membri – si resero responsabili della sicurezza di alcune aree specifiche, ma a causa della ferma opposizione del governo – a maggioranza sciita – solo un numero esiguo di miliziani è entrato a far parte dell’esercito iracheno. I Sunniti non sono in grado di contrastare efficacemente gli Sciiti e l’Iran anche per le divisioni interne. Inoltre si trovano schiacciati fra i Curdi a nord e gli Sciiti a sud, in una regione priva di risorse naturali – tutte le risorse energetiche si trovano fuori del territorio controllato dai Sunniti. Gli Sciiti invece, oltre ad essere maggioranza, controllano anche la parte meridionale del paese, ricca di petrolio, e la stessa Baghdad. Peraltro i Curdi dal nord continuano a spingersi verso sud rivendicando anche il controllo su alcune regioni sunnite.
Washington ha interesse a rafforzare i Sunniti affinché frenino l’avanzata iraniana, ma non sarà un compito facile.
I Curdi in Iraq.
I Curdi sono stati gli alleati più fedeli degli USA: prima hanno facilitato l’invasione e poi hanno contribuito alla nascita del governo post-baathista. Tuttavia non è semplice mantenere l’equilibrio fra Curdi, Sunniti, Sciiti e Turchi. I Turchi sono molto preoccupati dall’ascesa dei Curdi nella regione settentrionale dell’Iraq.
La minoranza curda è sulla difensiva, teme di perdere il proprio potere dopo il ritiro delle truppe americane. La presenza degli USA ha permesso ai Curdi di ottenere maggiore autonomia, le regioni curde, che sin dal 2003 hanno vissuto un periodo di relativa calma, si sono unite in federazione nel Governo Regionale del Kurdistan (GRK). L’amministrazione Obama teme che quando gli USA lasceranno il paese riesploda la violenza fra Curdi e Arabi.
All’interno i Curdi sono piuttosto uniti, da quando il leader del partito democratico del Kurdistan nonché presidente del GRK Masoud Barzani e il presidente iracheno Jalal Talabani, leader dell’Unione Patriottica del Kurdistan – hanno deciso di fondere le rispettive milizie in un unico esercito Peshmerga, che ha il compito di garantire la sicurezza del GRK. I Curdi però non intrattengono buone relazioni né con i Sunniti – con cui hanno dispute territoriali – né con gli Sciiti che avvertono come una minaccia per l’intero paese.
I Turchi
Nel 2003 la Turchia si oppose alla guerra in Iraq perché temeva che i separatisti curdi in Turchia ne avrebbero approfittato per rinfocolare la lotta per l’indipendenza. Ankara durante gli anni di Saddam Hussein aveva un contingente militare ai margini l’Iraq settentrionale e lanciava di tanto in tanto rastrellamenti per creare una zona cuscinetto e tenere a bada il PKK (Partito dei Lavoratori Curdo), che da oltre trent’anni si batte contro la Turchia. I Turchi osservano con attenzione l’evolvere della situazione, e temono l’ascesa dei Curdi in Iraq.
Per questa ragione Ankara non collaborò alla guerra degli USA in Iraq. Soltanto nel 2007 decise di intervenire nel conflitto lanciando un’operazione militare unilaterale contro i ribelli del Kurdistan dell’Iraq settentrionale. Da allora la Turchia ha iniziato a consolidare la propria posizione in Iraq in vista del ritiro statunitense. Negli ultimi anni il governo turco ha cercato di imporsi sulla scena internazionale e di aumentare il proprio potere regionale, e ha approfittato della situazione per estendere la propria influenza in Iraq. La Turchia può far leva sui legami storici - la regione irachena faceva parte dell’Impero Ottomano – e potrebbe iniziare a importare energia dall’Iraq, riducendo così la sua dipendenza da Russia e Azerbaigian.
Ankara però deve competere con l’Iran, che continua ad avere il vantaggio dei solidi legami con gli Sciiti iracheni. La Turchia in cambio ha l’appoggio degli altri stati arabi della regione, che punteranno certamente su Ankara per tenere a bada l’aggressività di Teheran.
Anche gli Stati Uniti appoggiano la Turchia, importante alleato e membro della NATO, e sperano che possa stabilizzare non solo l’Iraq ma anche l’intero Medio Oriente.
D’altronde gli interessi di Ankara e Washington sull’Iraq convergono, il che dovrebbe facilitare il ritiro. Gli unici che potrebbero opporsi all’avanzata dei Turchi sono i Curdi, che intrattengono pessime relazioni con i Turchi, ma gli Stati Uniti faranno il possibile per raggiungere un certo equilibrio fra i due attori.
Gli stati arabi.
Il regime di Saddam Hussein rappresentava un baluardo contro l’avanzata della Repubblica Islamica. Per buona parte degli anni ottanta i due paesi furono impegnati in una lunga e devastante guerra e anche dopo la Prima Guerra del Golfo del 1991 l’Iraq, per quanto indebolito, riuscì a contenere l’espansionismo iraniano nella regione. Per questa ragione gli stati arabi, per quanto non avessero un buon rapporto con Saddam, si opposero fermamente all’invasione statunitense. Quando Washington e Teheran avviarono i primi colloqui indiretti per discutere dell’Iraq post-baathista, gli stati arabi si sentirono minacciati – anche se questa parentesi durò poco, perché gli Iraniani rinunciarono alle trattative appena gli Stati Uniti decisero di coinvolgere i Curdi e i Sunniti nella ricostruzione dello stato.
Poco dopo la caduta di Saddam, le relazioni fra Washington e Teheran peggiorano, con gran soddisfazione degli stati arabi, che vedevano di buon occhio la presenza militare statunitense in Mesopotamia per contenere la Repubblica Islamica. Ora che le truppe statunitensi si preparano a lasciare il paese i timori nel mondo arabo sunnita sono aumentate. L’Iran negli ultimi trent’anni ha notevolmente aumentato la propria influenza nella regione, ritagliandosi dapprima un ruolo chiave in Libano e moltiplicando poi i contatti con i ribelli jihadisti dello Yemen. Quindi gli stati arabi non possono che guardare con una certa preoccupazione all’attuale situazione, dal momento che vi sono buone probabilità che l’Iraq finisca nelle mani del regime iraniano.
Durante il periodo di massima instabilità dell’Iraq, gli stati arabi del Medio Oriente appoggiavano i ribelli sunniti per evitare che gli Sciiti diventassero la forza dominante. Gli Arabi sono perfettamente consapevoli del fatto che l’Iraq post-baathista è cambiato: gli Sciiti ora controllano Baghdad e il sud dell’Iraq, e questo non era mai avvenuto prima.
Ora il loro problema è come tenere a bada l’Iran. Gli stati arabi non hanno ancora elaborato una strategia, anche se sanno di dover decidere al più presto. Dal punto di vista militare continueranno senz’altro a rimanere sotto la protezione militare statunitense, ma probabilmente chiederanno alla Turchia di contenere il potere dell’Iran.
Peraltro gli Arabi non hanno molte opzioni a disposizione: sono deboli e non hanno nessuna intenzione di scatenare una guerra - che potrebbe mettere a repentaglio i loro interessi. In ogni caso è probabile che con il ritiro degli Stati Uniti gli stati arabi finiscano per arretrare di fronte a un nemico sempre più minaccioso.
Gli interessi dell’Iran.
Gli Iraniani hanno appoggiato dietro le quinte l’invasione dell’Iraq e in più occasioni hanno aiutato gli Americani nelle operazioni contro il regime baathista di Saddam Hussein.
Ora Teheran teme che gli Stati Uniti ritirando le truppe dall’Iraq siano più liberi di agire contro il programma nucleare iraniano, ma nel contempo è pronta a colmare il vuoto di potere che si creerà in Iraq dopo il ritiro.
L’Iran ha molti mezzi per dominare l’Iraq: intrattiene legami con i partiti politici sciiti – specialmente con il Consiglio Supremo Islamico iracheno, guidato da Ammar al-Hakim, e con l’Alleanza Nazionale Irachena – e con le milizie armate sciite, ma anche con altri attori (militari e politici) sunniti e curdi sulla scena irachena.
Una cosa è certa: appena le truppe americane lasceranno l’Iraq, l’Iran consoliderà la presa su Baghdad. Siccome Teheran intende controllare l’Iraq a lungo termine, contribuirà certamente alla sua stabilizzazione .
La Repubblica Islamica teme però l’ascesa della Turchia, che nei prossimi anni farà senz’altro sentire la propria voce in Medio Oriente, anche perché l’Iraq è ricchissimo di petrolio - tanto che potrebbe raggiungere nell’arco di pochi anni il livello di produzione di Arabia Saudita e Russia – il che lo rende una preda ancora più appetitosa.
L’esercito americano.
Durante il ‘surge’ del 2007 i soldati americani erano 170.000, attualmente sono scesi a 96.000. Se tutto proseguirà secondo i piani metà delle truppe dovrebbero lasciare il paese nel periodo fra maggio e agosto del 2010 – circa 13.000 soldati al mese.
Nei prossimi mesi gli Stati Uniti invieranno truppe in Afghanistan: il ritiro dall’Iraq è di vitale importanza per Washington, che non può permettersi di mantenere più di 50.000 soldati in Iraq se vuole ottenere risultati concreti con il ‘surge’ in Afghanistan. L’esercito americano ormai ha trasferito all’esercito iracheno il compito di mantenere la pace in Iraq. Il ritiro statunitense dunque pende dalla capacità delle forze di sicurezza irachene di garantire la sicurezza sul territorio.
A cura di Davide Meinero
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