Mi chiamo Heba Najeeb e sono una ragazza egiziana di vent’anni. Mi sono trasferita con i miei genitori a Jeddah in Arabia Saudita, cuore dell’Islam.
Da quando siamo arrivati mio padre ha abbracciato e adottato l’interpretazione wahabita dell’Islam e la mia vita - e quella di mia madre - è diventata invivibile. Appena mio padre ha sospettato che potessi ritornare in Egitto ha confiscato il mio passaporto impedendomi di partire. Ho provato ad oppormi al suo controllo oppressivo, ma non è facile in un paese che permette agli uomini un controllo totale sulle donne in nome della religione. Tutti mi dicono che non posso lasciare l’Arabia Saudita senza il permesso del mio tutore (maschile), mi ripetono che è la legge saudita. Come posso ottenere il suo permesso quando il mio tutore è il mio carceriere? Continuo a ripetere che non sono di nazionalità saudita, ma questo non cambia il trattamento che mi è riservato.
Sono imprigionata, ormai da tre anni, in questo paese che ha distrutto il rapporto che avevo con mio padre, che applica il sistema di tutela maschile con il supporto delle autorità saudite.
Nel 2008 grazie ad un amico sono riuscita a mettermi in contatto con l’ambasciata egiziana. Mi hanno informata che potevo richiedere un passaporto solo in Egitto e mi hanno detto di non potermi aiutare a lasciare l’Arabia Saudita, in quanto non avevo i documenti necessari che mi erano stati confiscati da mio padre. Mi sono allora recata dal Saudi Human Rights Group, i quali mi hanno mandato dalla polizia dove ho denunciato mio padre, ma a tutt’oggi la polizia non lo ha ancora interrogato.
Ho provato a contattare Human Rights Watch, l’ufficio delle Nazioni Unite di Jeddah e parecchie ambasciate, ma nessuno è stato in grado di aiutarmi. Sto ancora cercando un modo per andarmene e non perdo la speranza. Se potete, aiutatemi, non chiedo altro che tornare a casa.
Arabia Saudita: bastonate e sassate
Una principessa saudita ha ottenuto asilo in Inghilterra dopo aver avuto un figlio illegittimo da un inglese. La donna ha dichiarato che avrebbe dovuto subire la pena di morte se fosse stata costretta a tornare nel suo paese. La giovane donna - protetta dall’anonimato - ha ottenuto lo status di rifugiata. Il tribunale ha preso la decisione perché c’era il rischio concreto che la richiedente pagasse con la lapidazione l’adulterio .
Il suo caso è solo uno delle numerose richieste di asilo presentate da cittadini sauditi alle autorità britanniche, non riconosciute apertamente da entrambi i governi. La diplomazia inglese evita di riconoscere questo fenomeno per non sottolineare apertamente la persecuzione delle donne in Arabia Saudita, che verrebbe interpretata come una critica diretta alla casa Saudita, creando imbarazzo ad entrambi i governi.
Curato da Emanuela Borgnino
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