African Journal of Conflict Resolution, numero 2, 2007
Autori: Gerard Hagg, ricercatore al Democracy and Governance Research Programme of the Human Sciences Research Council (HSRC), Sud Africa, e Peter Kagwanja, direttore di ricerca del Democracy and Governance Research Programme.
Traduzione di Fulvio Miceli
Identità e stato africano
Le analisi storiche descrivono in modo idilliaco il periodo pre-coloniale come l'età dell'oro delle relazioni inter-identitarie. L'età pre-coloniale però, secondo Hagg e Kagwanja non è stata caratterizzata dall'assenza di differenti identità, ma dal fatto che le identità (etniche, claniche,di genere, generazionali) non erano assolutizzate né politicizzate.
Il tribalismo politico (cosa diversa dall'etnicità “etica”, che può essere una base per l'ordine civile) avrebbe le sue radici nelle politiche coloniali. Uno dei problemi dell'Africa viene individuato nella dicotomia, ereditata dalla società coloniale, tra uno spazio civico pubblico percepito come territorio amorale dei diritti e uno spazio pubblico primordiale, percepito come morale e regolato dai costumi.
L'etnicizzazione della politica inizierebbe dalla definizione dell'etnicità come entità legale super-imposta alle caratteristiche di per sé fluide e libere delle popolazioni. Questo processo trasformò la razza e la tribù in denominatori fissi nel progetto legale coloniale. L'etnicità divenne il cardine della strategia del “divide et impera” coloniale. Lo stato coloniale pose un cuneo tra i gruppi etnici fornendo un trattamento preferenziale ad alcuni gruppi attraverso l'attribuzione di autorità e la costruzione di quadri amministrativi locali negli uffici coloniali. La manipolazione coloniale dell'etnicità lasciò in eredità alle società post-coloniali dell'Africa la polarizzazione tra “coloni”(immigrati) e nativi (indigeni). Questo è diventato l'asse attorno al quale ruotano le violenze etniche in Ruanda o quelle più recenti in Kenya.
Gli Stati dell'Africa post-coloniale hanno ereditato questi stereotipi etnici e di divisione
del potere fra le identità etniche e all'interno di esse, e i semi della competizione e del conflitto sono ora sparsi lungo linee di divisione etnica. Non è stato d'aiuto il fatto che molte élite post-coloniali mantengono la modalità del divide et impera per proteggere il proprio potere. L'ascesa di stati monopartitici o retti su sistemi militari ha consentito a questi governanti di nascondere la latente rivalità e animosità inter-etnica , ma il processo di democratizzazione e le riforme economiche associate ai Programmi di Adeguamento Strutturale(del Fondo Monetario e della Banca Mondiale) hanno tolto agli stati la possibilità di esercitare un'egemonia senza vincoli.
L'autorità dello Stato è inoltre stata ridotta dalla globalizzazione. La globalizzazione ha favorito incertezze e disuguaglianze che hanno rafforzato sensibilità e ideologie revansciste, ispirando l'atomizzazione dei processi politici. Il declino dello stato egemone ha consentito ai gruppi etnici rivali la contestazione dell'autorità dello Stato centrale e dell'elitè di governo
La crisi degli stati e i nuovi modelli di conflitti civili
Nel periodo post-coloniale ci si aspettava che la cittadinanza negli stati multietnici fosse inclusiva riguardo al potere, al processo decisionale e alle opportunità. Tuttavia il prevalere dello stato patrimoniale (nel quale il potere politico viene trasmesso privatamente alla cerchia dei famigliari, ndt) ha portato all'esclusione delle identità sfavorite, a uno sviluppo ineguale e a un diffuso malcontento.
Un sistema patrimoniale basato sulle identità etniche esclude i gruppi identitari rivali, ponendo barriere alla loro mobilità verso l'alto. Pertanto quelle che erano essenzialmente identità culturali divennero anche identità politiche. L'etnicità venne promossa come forza politica e la cittadinanza etnica divenne rivale della cittadinanza civile.
Con il collasso del consenso nazionalista che aveva portato l'Africa all'indipendenza, lo stato a partito unico si impose ampiamente nel continente africano come simbolo di “unità nell'uniformità” basata sull'egemonia e sulla capacità coercitiva di un singolo gruppo identitario o di una coalizione di gruppi. La corruzione e la mancanza di responsabilità divennero la norma, così come le crescenti pressioni sui funzionari pubblici a condividere le risorse con i membri delle loro comunità. Senza altre risorse, le comunità che si sentivano escluse dallo stato e discriminate dal gruppo dominante ricorsero spesso a tattiche violente. Questo accade paradossalmente quando la competizione democratica accresce la competizione per la sopravvivenza .
Questa situazione è complicata da quella che è stata definita la natura predatoria dello stato africano, determinata dal fatto che l'elité dominante si appropria dello stato, usandolo come strumento di auto-arricchimento e per remunerare amici e sodali etnici. Nel conseguente regime neo-patrimoniale, il gruppo identitario del partito e del leader appare come una gigantesca piovra che fagocita le altre identità e gli altri gruppi sociali.
Ritorno alla barbarie o demoni della globalizzazione ?
Le radici del brutale insorgere della violenza in America Latina, Europa orientale e Africa si troverebbero nelle incertezze, nelle illusioni e nel disordine creato dalla globalizzazione. I conflitti civili africani non dipendono soltanto dalla depredazione locale, ma anche da legami e appoggi globali. Nella regione dei Grandi Laghi, per esempio, secondo un rapporto del Center for International Coprporation della New York University, le grandi aziende multinazionali non solo hanno finanziato gruppi che si contendono il potere, ma hanno anche impiegato mercenari per garantire la sicurezza delle imprese estrattive e commerciali. Inoltre le leggi internazionali e altre restrizioni legali rendono spesso più proficuo il mercato nero, fornendo incentivi finanziari ad associarsi con chi controlla e fornisce risorse pubbliche, indipendentemente dall'impatto sulla popolazione locale e dalle ripercussioni politiche per lo stato.
L'Africa è stata testimone di un crescente coinvolgimento delle milizie mercenarie, per esempio in Angola, Liberia e Sierra Leone. Il lucrativo commercio di legno e diamanti “di sangue” in Africa occidentale tende a rafforzare la tesi che i mercati siano in grado di fiorire facendo completamente a meno degli stati.
Questa visione dei mercati negli stati corrotti privilegia i profitti di guerra rispetto ai diritti umani delle persone intrappolate nelle zone di conflitto. Indeboliti o eclissati da conflitti locali e regionali, gli Stati africani contemporanei si ritrovano spogliati della maggior parte delle funzioni di governo e della stessa sovranità, e sempre più sotto l’influenza delle aziende multinazionali, delle ONG e delle burocrazie degli aiuti internazionali.
Gli Stati africani sono diventati irrilevanti agli occhi di molti dei loro cittadini, quando le riforme economiche imposte dall'esterno hanno annullato la loro capacità di rispondere alle esigenze della cittadinanza per quanto riguarda la dotazione di infrastrutture sociali e servizi quali la sanità e l'istruzione. Devastazioni derivanti da quella che viene definita la cupidigia delle aziende internazionali hanno anche minato le possibilità di sussistenza delle popolazioni locali, creando un malcontento che è terreno fertile per la proliferazione delle milizie in luoghi come la regione del delta del Niger
Diversi studi indicano il ruolo degli attori internazionali nella proliferazione di eserciti privati in punti caldi dell'Africa, che ha accentuato i conflitti e aumento le tensioni e i morti. La violenza identitaria tende ad aiutare in modo crudele il corso della globalizzazione in Africa, e il legame tra conflitto locale e la globalizzazione ha minato i diritti di cittadinanza ed i diritti umani dei popoli africani.
La pace liberale e i suoi limiti
La soluzione interna ai conflitti etnici locali è la pace liberale.
La pace liberale si fonda sulla teoria kantiana dei tre pilastri su cui poggia la pace globale: la repubblica rappresentativa, l’impegno ideologico per i diritti umani fondamentali e l'interdipendenza transnazionale.
Il modello sudafricano della transizione del 1994 dall’apartheid alla democrazia è stato salutato come una esempio di successo della pace liberale in Africa. Spinto dalla necessità di portare le parti in conflitto al tavolo del negoziato, il modello della pace liberale segue un percorso prevedibile: colloqui preliminari per preparare quelli formali, negoziati per un accordo di pace, istituzione di un governo di unità nazionale (GNU) di transizione che ha il compito di organizzare una nuova costituzione, ed infine elezioni democratiche multipartitiche. Il malcontento identitario che persiste dopo le elezioni non ha ricevuto sufficiente attenzione, per questo è difficile spiegare l’implosione di paesi come il Kenya, che sembrava un modello di pace e stabilità.
I mediatori sudafricani hanno applicato con notevole successo in Burundi e nella Repubblica Democratica del Congo una variante del modello di pace liberale. In Costa d'Avorio, invece, i negoziati svoltisi dal 2004 sotto l'egida dell'Unione Africana e del Consiglio di sicurezza dell'ONU hanno portato alla cessazione della violenza, ma non sono riusciti a risolvere il conflitto. La vittoria sul campo di battaglia da parte del governo angolano dopo la morte di Savimbi nel 2002 ha invece fornito un’occasione di pace dopo una catena di fallimentari interventi basati sul modello della pace liberale.
Il successo della pace liberale come modello di risoluzione dei conflitti in Africain primo luogo l’assunto della validità universale dei principi della pace liberale che sottolineano l’obiettivo della tutela dei diritti individuali e non tengono conto delle concezioni tradizionali africane sulla famiglia e la parentela. sarebbe stato limitato da tre fattori:
Il secondo aspetto limitante è la contraddizione - intrinseca alla teoria liberale della pace - che è applicabile ai conflitti interni agli stati, ma non ai conflitti fra stati diversi basati sull’identità, nè ai conflitti regionali che attraversano i confini insieme ai ribelli e ai rifugiati.
Un'altra contraddizione interna della pace liberale è la sua enfasi sulla democrazia maggioritaria che tende a ignorare il ruolo delle autorità tradizionali e tende a polarizzare le identità.
Le prescrizioni della pace liberale per i conflitti africani sono spesso ridotte a uno o due dei tre pilastri, in particolare alla democratizzazione e all’impegno per i diritti umani fondamentali. Da qui i popolari adagi: 'La pace e la democrazia sono solo due facce della stessa medaglia', e 'le democrazie non vanno in guerra'.
Se è vero che la democrazia è uno strumento chiave per la pace e che le democrazie sono in molti casi in pace tra loro, in società etnicamente divise l’applicazione del modello di democrazia per il quale il “vincitore-prende-tutto” tende ad alimentare i conflitti, non a prevenirli. In luoghi dove nel corso del tempo le identità culturali sono state trasformate in identità politiche le elezioni democratiche sono combattute lungo linee etniche che portano alla tirannia della maggioranza, alla disaffezione della minoranza e all'intensificazione dei conflitti di identità.
La risoluzione dei conflitti Africa si fonda sul principio della condivisione del potere, ma gli sforzi occidentali per risolvere i conflitti violenti attraverso accordi di condivisione del potere hanno pesanti costi occulti. I modelli di condivisione del potere creano una struttura che incentiva gli aspiranti leader anche a intraprendere la via della ribellione armata. Quando gli accordi di pace fondano la condivisione del potere e la rappresentanza nelle istituzioni governative sulle quote etniche, come in Burundi, tali accordi possono soloestendere i conflitti. Ad esempio, il regime federale etiope prevede la condivisione del potere su base etnica, ma solo i gruppi dominanti se ne avvantaggiano.
Inoltre, non affrontando il problema delle ingiustizie contro i civili, i modelli di pace liberale tenderebbero a radicare una cultura di impunità. Superare i limiti della pace liberale, pertanto, richiede di conciliare la pace e la giustizia, mirando a creare le condizioni positive per la riconciliazione, mirando a creare condizioni positive per la riconciliazione, portando ad accordi globali e istituzioni democratiche che assegnino potere alle persone.
Inoltre devono essere affrontate le condizioni socio-economiche e politiche a cui le strutture che hanno contribuito alla disuguaglianza, all’ ingiustizia o alla mancanza di accesso ai servizi sociali sono legate.
Riconciliare identità, giustizia e pace
Invece di essere il motore del conflitto, le identità etniche dovrebbe essere ripensate come importanti elementi nella costruzione della pace.
Un aspetto centrale del processo di riconfigurazione delle relazioni inter-identitarie consiste nel riportare le identità politicizzate alle loro radici culturali, rendendole meno inclini alla violenza. Questo processo di riconfigurazione coinvolgerebbe infine la giustizia e la riconciliazione, le fasi finali della risoluzione del conflitto e della costruzione della pace, in cui l'identità deve svolgere un ruolo fondamentale.
La giustizia ha molte facce: la giustizia retributiva, cioè la punizione dei responsabili; la giustizia riparatoria volta a indennizzare le vittima, e la giustizia distributiva, volta a sanare i rapporti fra le parti.
L’identità svolge un ruolo importante nell’ambito della giustizia riparatoria. Si può fare una distinzione tra ingiustizia accidentale e strutturale. E' importante sottolineare il ruolo dell’ingiustizia strutturale che prende in genere una forma legalizzata o istituzionalizzata , come nel defunto regime dell'apartheid in Sud Africa, sebbene anche forme non legali di esclusione, come il sistema delle caste all'interno dei gruppi identitari e tra di essi, possano condizionare la giustizia.
Il superamento delle ingiustizie, sia strutturali che accidentali richiede di sviluppare istituzioni che radichino la giustizia, l'uguaglianza e la correttezza . Raggiungere questo obiettivo può richiedere la ricostituzione di uno stato “multi-identitario”, che tenga conto dell’etnia come di altre forme di identità - classe, professione, genere, livello d'istruzione e di età. L’istituzionalizzazione della giustizia richiede di stabilire rapporti mobili tra le diverse identità e culture ed evitare la tendenza a paralizzare la politica lungo linee di identità, in particolare etniche.
Nei documenti dell'UNESCO, e in particolare nella Convenzione sulla Protezione e la Promozione della Diversità delle Espressioni Culturali, il riconoscimento della diversità culturale come risorsa nello sviluppo socio-economico sottolinea il suo ruolo potenziale nella riconciliazione, nella giustizia e in una pace sostenibile.
Nella stessa ottica la Carta per la Rinascita Culturale dell'Africa (African Union 2005) afferma che 'tutte le culture del mondo hanno eguale diritto al rispetto ', e che ‘la diversità culturale è un fattore di reciproco arricchimento fra i popoli e le nazioni '. Questa visione cosmopolita dell’ identità promuove la cittadinanza civile, piuttosto che un ristretto nazionalismo etnico. La creazione di uno Stato inclusivo favorirebbe un clima di coesione sociale, la costruzione di capitale sociale e di cittadinanza civile. La reciprocità nell'ambito della cittadinanza civile è parte integrante di una pace sostenibile, un fatto riconosciuto dalla Carta Africana dei Diritti dell'Uomo e dei Diritti dei Popoli.
È necessario riconfigurare e conciliare la democrazia con la realtà africana di società etnicamente divise, al fine di consentire allo Stato di diventare un arbitro neutrale tra identità concorrenti.
La giustizia ha almeno due dimensioni globali. In primo luogo, l'istituzione di accordi volti a impedire lo sfruttamento di conflitti inter-identitari da parte di aziende internazionali o di governi. Ne sono esempio il Processo Kimberley, che contrasta il commercio dei “diamanti di sangue”, e il dibattito su di un quadro comune in materia di sfruttamento delle risorse. In secondo luogo, la pressione internazionale nel contesto del Consiglio di sicurezza dell'ONU è stata utilizzata per forzare le parti in guerra al tavolo della pace.
Oltre alla giustizia, è ampiamente riconosciuto che la riconciliazione è di enorme valore per garantire una pace sostenibile Il concetto di riconciliazione viene generalmente definito come un nuovo rapporto tra avversari sulla base del riconoscimento leale dei torti che ciascuna parte ha inflitto agli altri, e su scuse, perdono e risarcimento, dando vita a nuove relazioni.
La prima tappa verso la riconciliazione è la smobilitazione dei combattenti.
Mentre i modelli di pace liberale pongono al primo posto il disarmo dei gruppi armati, è importante estendere la nozione di smobilitazione alla mente. Le guerre identitarie sono spesso basate su miti e percezioni che hanno creato l’altro come nemico, e fatto emergere i presupposti dei conflitti violenti. La trasformazione del conflitto deve affrontare e trasformare queste percezioni, questi miti e stereotipi che informano l'infrastruttura della guerra, e radicare la tolleranza e il rispetto dell’ altro.
La seconda fase della riconciliazione comporta l'attraversamento delle faglie identitarie. Fondamentale per questa fase è la creazione della consapevolezza dell’ '"altro" attraverso interazioni tra i diversi gruppi per lo sviluppo di un senso di fiducia circa la sicurezza della propria vita. L’obiettivo è che individui e gruppi identitari giungano a riconoscere la realtà delle loro molteplici identità come base sicura del loro futuro in una nazione civile.
Negli anni 90 in Africa sono emersi due tipi di strumenti per la riconciliazione: le Commissioni per la Verità e la Riconciliazione ( Truth and Reconciliation Commissions -TRC) e le istituzioni tradizionali per la riconciliazione. Il primo strumento, reso popolare dall’esperienza sudafricana di transizione dall'apartheid alla democrazia, è stato oggetto di ampie ricerche, tuttavia le opinioni sulla sua efficacia variano. In molti casi le TRC hanno ripristinato la convivenza pacifica tra i gruppi identitari portandoli anche al perdono reciproco. Una delle carenze dei TRC è che realizzano un'amnistia generalizzata per i colpevoli.
L’esempio più noto di istituto tradizionale è il Gacaca utilizzato dopo il genocidio in Ruanda. Un altro è il tentativo dell’ Abashingantahe (consiglio dei saggi) in Burundi di conciliare le parti in conflitto. Si deve notare che gli approcci africani alla riconciliazione non necessariamente sono in contrasto con i valori universali o i diritti umani. Piuttosto, secondo i due autori, cercano di compensare i punti deboli del modello della pace liberale di pace, che subordinerebbe la comunità all’ individuo.
Che per realizzare la pace ci si riferisca a modelli di pace liberale o a strutture indigene , le tensioni si presentano a due livelli: tra pace e giustizia e tra riconciliazione e giustizia.
Per quanto riguarda la tensione tra pace e la giustizia, i dibattiti si sono concentrati sulla questione dell'impunità. Da Charles Taylor in Liberia a Kony dell'Esercito di Resistenza del Signore nel Nord dell’Uganda, i ribelli sono stati propensi a rifiutare accordi di pace senza garanzia di impunità.
Per quanto riguarda la tensione tra la riconciliazione e la giustizia, i movimenti per i diritti umani hanno enfatizzato la giustizia retributiva come mezzo per eliminare l'odio e ripristinare le relazioni inter-identarie. Da parte loro i gruppi religiosi hanno enfatizzato il perdono come percorso verso un futuro rinnovato. La questione riguarda il modo in cui si concepiscono le relazioni tra gli individui e il gruppo: nonostante la sofferenza dei singoli membri, le comunità spesso vogliono andare avanti con la loro vita normale, che richiede, innanzitutto, la pace.
Il dilemma tra pace, riconciliazione e giustizia ha anche una dimensione regionale. Gli accordi di pace tra stati confinanti hanno spesso portato alla resa di rifugiati e ribelli al governo del paese di origine, senza una garanzia di sopravvivenza. Da una prospettiva globale gli attori internazionali si sono concentrati sulla necessità di punire legalmente i crimini contro l'umanità, senza considerare l'impatto della crociata per la giustizia,sulla pace e sulla stabilità dello stato coinvolto. La giustizia può anche diventare semplicemente vendetta mascherata da giustizia.
Questo richiama l'attenzione sul bisogno di una giustizia che non miri a distruggere gli sconfitti e di un sistema di pace che concili la giustizia con la democrazia in modo da riconoscere il ruolo delle maggioranze e delle minoranze etniche, senza escludere né le une né le altre.
Per quanto riguarda la tensione tra la riconciliazione e la giustizia, i movimenti per i diritti umani hanno enfatizzato la giustizia retributiva come mezzo per eliminare l'odio e ripristinare le relazioni inter-identarie. Da parte loro i gruppi religiosi hanno enfatizzato il perdono come percorso verso un futuro rinnovato. La questione riguarda il modo in cui si concepiscono le relazioni tra gli individui e il gruppo: nonostante la sofferenza dei singoli membri, le comunità spesso vogliono andare avanti con la loro vita normale, che richiede, innanzitutto, la pace.
Il dilemma tra pace, riconciliazione e giustizia ha anche una dimensione regionale. Per esempio, gli accordi di pace tra stati confinanti hanno portato alla resa dei rifugiati e ribelli al governo del paese di origine, senza una garanzia di sopravvivenza. Da una prospettiva globale gli attori internazionali si sono concentrati sulla necessità di punire legalmente i crimini contro l'umanità, senza considerare l'impatto della crociata per la giustizia, la pace e la stabilità dello Stato coinvolti.
D'altra parte, la giustizia può diventare semplicemente vendetta, mascherata da giustizia. Questo, dunque, richiamerebbe l'attenzione sul bisogno di una giustizia che non miri a distruggere gli sconfitti e sulle richieste di una pace globale, che concili la giustizia alla democrazia in modo da riconoscere il ruolo delle maggioranze e delle minoranze etniche, senza escludere né le une né le altre.
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