Recentemente il governo afgano ha preparato un piano di pace per l’Afghanistan, chiamato Programma per la Pace e la Reintegrazione. Gli Stati Uniti sperano che il governo di Hamid Karzai e le forze di sicurezza ISAF riescano a coinvolgere i Talebani nei negoziati, in modo da garantire pace e stabilità all’Afghanistan. Ma non esiste una strategia chiara per portare i Talebani al tavolo dei negoziati.
Il 5 maggio 2010 il comandante talebano Ghani Baradar, catturato in Pakistan a gennaio, ha iniziato a collaborare con le autorità statunitensi per chiarire le intenzioni del Mullah Omar. I Talebani sono profondamente radicati nella realtà politica afgana e vengono percepiti come una forza ben presente dalla maggior parte della popolazione. L’esisto dei negoziati fra Talebani e governo sono molto incerti: pur ammettendo che i Talebani sono tuttora molto forti, gli USA mantengono inalterata la data del ritiro delle truppe. Perché mai i Talebani dovrebbero negoziare con un nemico che ha già deciso di andarsene e lasciare la lotta?
I piani di riconciliazione mirati al reintegro nella società - anche tramite la formazione professionale - dei Talebani potrebbero forse avere successo se i jihadisti non temessero rappresaglie dai Talebani dopo il ritiro degli Stati Uniti.
Per i Talebani non ci sono tanto questioni di denaro o di ideologia: cercano la possibilità di svolgere un ruolo attivo nel governo
. In molte regioni la popolazione ritiene che il governo dei Talebani, per quanto basato su una versione rigida della Shari’a, rappresenti la migliore delle alternative – se non addirittura l’unica.
Generalmente i programmi di ‘de-radicalizzazione’ mirano a neutralizzare le minoranze radicalizzate riassorbendole nelle correnti moderate. Ma è pressoché impossibile farlo in una società radicale, che appoggia valori ultraconservatori e che si sente fortemente destabilizzata dal governo, non dai ribelli. In Arabia Saudita, dove c’è una visione consensuale basata su un’interpretazione austera della Shari’a, il governo è riuscito a isolare i radicali legati ad al Qaeda perché volevano destabilizzare l’ordine interno.
I Talebani afgani si battono contro la presenza straniera sul territorio per portare il loro ordine – basato sull’autoritarismo religioso – in un paese infiammato da una guerra civile che dura da oltre trent’anni, ma non appoggiano realmente al Qaeda e il jihadismo transnazionale.
La strategia di Kabul è contradditoria: il governo infatti da una parte sostiene che i Talebani non sono radicali e allo stesso tempo gli offre un programma di ‘de-radicalizzazione’.
I Talebani sono solo una fra le varie forze politiche e sociali favorevoli all’introduzione di una versione austera della Sharii’a.
Anche se il Mullah Omar non sembra intenzionato a richiedere cariche governative, è chiaro che il movimento talebano vuole ristrutturare l’ambiente politico afgano in chiave religiosa e ottenere posti di rilievo all’interno dell’amministrazione del paese.
I vertici talebani non hanno interesse ad ottenere l’immunità o l’esilio, e dunque non si siederanno al tavolo dei negoziati prima di aver ottenuto importanti concessioni sul governo futuro. Non hanno nessuna fretta:
possono attendere il momento propizio per ottenere di più.
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