Palestinesi, elezioni e i pericoli per il Medio Oriente

16/06/2010

Durante l’incontro alla Casa Bianca del 14 giugno 2010 il presidente dell’Autorità Palestinese  Mahmoud Abbas ha comunicato al presidente Obama che le elezioni municipali previste per il 17 luglio sono posticipate a data da definirsi.
 
Mahmoud Abbas sa bene che Fatah  avrebbe pochi voti e perderebbe il controllo sulle   amministrazioni locali, ma non perché i Palestinesi siano tutti in favore di Hamas: perché sono estremamente divisi fra di loro. La vittoria di  Hamas alle ultime elezioni politiche è conseguenza del fatto che quei Palestinesi che non si sono raccolti attorno al programma fanaticamente integralista di Hamas non si sono raccolti attorno a Fatah o ad altro partito, ma si sono frammentati in  tanti gruppuscoli  diversi, legati agli interessi dei singoli clan. Abbas ha il polso della situazione del suo popolo e sa che questo succederebbe di nuovo il 17 luglio. Meglio non tenere elezioni,  dunque.
 
La società palestinese è fortemente clanica, priva di un senso di unità nazionale.  
I Palestinesi trovano unità soltanto contro qualcuno - contro Israele, contro i non mussulmani - non  per costruire uno stato unitario. Altrettanto si può dire di molti altri Arabi. Mentre i paesi mussulmani del nord Africa e gli Iraniani hanno una identità storicamente e culturalmente radicata in elementi non soltanto religiosi, gli Arabi del Medio Oriente hanno una tradizione storica  di lealtà locale al clan e di lealtà al Califfo (discendente di Maometto) in quanto difensore dell’Islam. Il concetto di lealtà ad uno stato definito da confini geografici è estraneo alla cultura  popolare araba in Medio Oriente.
 
Gli stati sorti dal disfacimento dell’impero ottomano sono stati creati artificialmente nel XX secolo da decisioni internazionali  che nulla hanno a che fare con la storia e la mentalità della popolazione locale. Per questo il Medio Oriente è una regione senza equilibrio e senza pace.
Ora la Turchia tenta di riacquistare il predominio politico della regione, quasi cento anni dopo averlo perso (durante la prima guerra mondiale). Erdogan sta costruendo un’immagine della Turchia e di se stesso come erede del Califfo, difensore dell’Islam. Dunque capace di riportare  equilibrio e pace in Medio Oriente, controbilanciando le mire espansionistiche iraniane. Le spese di questa politica le dovrebbe fare Israele - che ovviamente non è d’accordo. Come non sono d’accordo gli Egiziani, che  storicamente non hanno mai accettato di buon grado l’egemonia del Califfo, e hanno sempre approfittato delle situazioni favorevoli per scrollarsi di dosso il dominio ottomano. E non sono d’accordo i Sauditi, che vedrebbero sparire l’egemonia religiosa faticosamente conquistata nei decenni utilizzando la ricchezza derivata dal petrolio.
  
In questa situazione l’operazione tentata dalla Turchia (di ottenere di nuovo l’egemonia su tutto il Medio Oriente  presentandosi come erede del Califfato) può proseguire soltanto se ha l’appoggio del mondo occidentale. Se l’Occidente non si schiera a favore della Turchia, la politica di Erdogan  è destinata a fallire rapidamente. Se  l’Occidente si schiera in favore della Turchia, abbandona Israele ad un duro destino, che potrebbe portarlo a scomparire davvero dalla faccia della terra. Erdogan ed i Turchi non vogliono necessariamente la scomparsa di Israele, ma sono certamente disposti ad accettarla se questo è necessario per raggiungere l’egemonia, in opposizione all’Iran.  
 
La provocazione della spedizione della Mavi Marmara su Gaza è servita a tastare il terreno: Erdogan intende obbligare l’Occidente a prendere posizione, a schierarsi a favore del  suo piano. Israele  forse è caduto nella trappola della provocazione, o forse Netanyahu ha coscientemente deciso di  raccogliere la provocazione e mettere subito l’Occidente di fronte al dilemma, obbligandolo a prendere posizione.
Comunque sia, ora spetta a noi occidentali  decidere: lasciamo libero corso al tentativo di Erdogan, sapendo che questo può segnare la fine di Israele e del popolo ebraico?
 
Per ora Obama pare voglia prender tempo, barcamenarsi senza esporsi troppo, in attesa di vedere  che piega prendono gli eventi. Come ha fatto in occasione del disastro della piattaforma petrolifera lungo le coste della Louisiana: non ha preso nessuna iniziativa per fermare il disastro, non ha  mobilitato tecnici e scienziati e compagnie americane per trovare una soluzione concreta al  problema. Ha aspettato e aspettato: appena la BP, da sola, ha  trovato modo di tamponare la situazione, è piombato in zona e ha fatto grandi discorsi demagogici contro la BP, rassicurando i propri elettori danneggiati,  perché il governo obbligherà la BP a pagare i danni.  
 
Visto (dai comportamenti tenuti sino ad ora) quale è il carattere e la cifra politica di Obama, è realistico pensare che gli USA temporeggeranno cercando di dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte. L’Europa non ha una voce  comune, ed i paesi europei hanno punti di vista diversi e contrastanti al loro interno. Dunque l’Occidente tenterà di NON prendere  posizione.
Di conseguenza la Turchia, Israele e l’Iran – le tre parti che hanno poste altissime in gioco -   
continueranno a cercare e creare occasioni per stringere alleanze, effettuare altre provocazioni, minare l’immagine altrui, fino a obbligare l’Occidente a prendere una decisione.  
 
I prossimi mesi si profilano come molto difficili, e anche molto pericolosi: durante questo  gioco l’Egitto può cadere in mano agli estremisti islamici, ed allora davvero si metterebbero in moto dinamiche inarrestabili che porterebbero ad una terza guerra mondiale.
 
A cura di Laura Camis de Fonseca
 
     
 
 

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