La Turchia è sempre più consapevole della propria forza. Come ha detto il ministro degli esteri Ahmed Davutoglu, la politica estera turca mira a riprendere i contatti con i paesi che storicamente facevano parte dell’Impero Ottomano - ovvero ad aumentare i legami con il Medio Oriente islamico.
La politica dello ‘zero problemi con i vicini’ ha avuto successo finora, e ha permesso ad Ankara di rompere l’isolamento e riallacciare i legami con i paesi vicini: l’antagonismo fra Siria e Turchia ha lasciato il posto ad un’alleanza strategica fondamentale, e ora Ankara cerca persino rapporti con la leadership curda dell’Iraq settentrionale, dopo decenni di chiusura. La Turchia si è avvicinata alla Repubblica Islamica dell’Iran e ad altri regimi del golfo, per non parlare dei nuovi legami con il presidente sudanese Omar al-Bashir.
Il partito AKP – attualmente in carica – ha deciso di dedicare energie al conflitto mediorientale, dapprima ponendosi come mediatore fra Siria e Israele e successivamente schierandosi a favore dei Palestinesi nel conflitto israelo-palestinese.Ma è soltanto con il recente scontro fra la nave diretta a Gaza e l’esercito israeliano che la Turchia è venuta allo scoperto, rivelando al mondo le potenzialità della sua politica estera, finora sottovalutate in Occidente.
Pur avendo modificato radicalmente la propria politica estera Ankara sino ad ora è riuscita a mantenere pressoché intatti i legami con l’Occidente – sia con la NATO che con l’UE. Questo delicato equilibrio ha tenuto perché l’Occidente era interessato ad un riavvicinamento fra i paesi mediorientali e la Turchia, che avrebbe potuto mediare e anche influenzare positivamente attori come Siria, Hamas o Iran. Anche Washington aveva teso la mano a Damasco e Teheran, e non poteva quindi permettersi di criticare Ankara che faceva altrettanto.
Ma non è semplice capire la politica estera del partito AKP: per quanto si possa comprendere il riavvicinamento a Siria e Iran in quanto vicini regionali – e anche per il ruolo che svolgono nella repressione dei separatisti curdi – non è altrettanto chiaro perché Ankara difenda a spada tratta il programma nucleare iraniano. Allo stesso modo è comprensibile che il governo si sia schierato dalla parte dei Palestinesi viste le tendenze filo-palestinesi dell’opinione pubblica, ma non si spiega perché l’AKP dichiari così apertamente le proprie simpatie per Hamas e abbia un rapporto decisamente freddo con i capi di Fatah in Cisgiordania. Solo l’ideologia dell’AKP può spiegare queste scelte.
Proprio come i paesi occidentali, Ankara ha iniziato a servirsi di aziende private e di ONG per promuovere la propria politica estera: quando il premier Erdogan e il presidente Abdullah Gul si recano in una capitale del Medio Oriente, portano con sé orde di uomini d’affari turchi appartenenti alla classe imprenditoriale musulmana, che costituisce la base elettorale dell’AKP. Così facendo l’AKP prende due piccioni con una fava: da una parte aumenta la propria egemonia nella regione e dall’altra garantisce prosperità alla Turchia.
Il partito AKP è solito servirsi di ONG per finanziare media filo-governativi islamici, non solo in Turchia. Infatti il caso ‘Deniz Fereri’ – sottoposto ad un tribunale tedesco – ha portato alla come alti funzionari turchi finanziassero media islamici con i soldi delle organizzazioni caritatevoli islamiche turche in Europa.
L’IHH (Insani Yardim Vakfi), che ha organizzato la recente spedizione a Gaza è un esempio di come le organizzazioni non governative vengono utilizzate per promuovere la politica estera turca. L’IHH gestisce progetti per conto dell’Agenzia Turca per lo Sviluppo Internazionale: il governo turco ad esempio le affida la distribuzione di aiuti umanitari nell’Iraq settentrionale per accrescere la propria influenza nella regione. L’IHH, che è solita intrattenere legami con diversi movimenti islamisti, è stata anche indagata per aver spedito armi alle milizie islamiche in Bosnia e Afghanistan.
L’IHH ha acquistato la nave Mavi Marmara dal comune di Istanbul – governato dall’AKP - ed è impossibile che abbia organizzato la spedizione verso la Striscia di Gaza senza il consenso del governo turco. Ma inaspettatamente lo scontro con Israele ha creato una fenditura all’interno del movimento islamico conservatore: la comunità religiosa di Fethullah Gulen – da cui provengono i quadri dell’AKP – non gradisce l’atteggiamento così apertamente anti-israeliano del premier Erdogan, e ha criticato la flottiglia per non aver accettato l’accordo con Israele sulla consegna degli aiuti umanitari.
La Turchia ritiene che l’Occidente sia in declino, e di poter quindi aspirare non soltanto al ruolo di potenza egemone regionale, ma anche di potenza mondiale. Con l’allargamento del G8 a G20 dopo la crisi finanziaria, la Turchia ha effettivamente acquistato maggiore importanza, e potrebbe anche sfidare l’autorità di Washington. L’accordo sul nucleare iraniano mediato da Turchia e Brasile e la recente vicenda della Mavi Marmara sembrano confermare questa visione. Ankara ha persino rimproverato gli Stati Uniti per non aver criticato l’abbordaggio della spedizione da parte di Israele.
Kemal Ataturk, fondatore della repubblica turca, cercava la soluzione per vivere in pace, sia in patria sia con il resto del mondo. Ataturk consigliò alla Turchia di evitare di lanciarsi in avventurose operazioni all’estero, ma non seppe porre rimedio al problema curdo – che al contrario contribuì ad alimentare. Erdogan invece ha deciso di cercare un confronto all’estero sfidando gli interessi israeliani e americani nella regione, mentre in patria sta lavorando per ottenere un accordo con i Curdi – anche se i risultati si fanno attendere.
La politica di Davutoglu (zero problemi con i vicini) si basa su un assunto errato, ovvero che nessuno dei paesi confinanti contrasterà mai gli interessi turchi nella regione. La decisione di prendere le distanze da Israele si basa sulla convinzione – errata - che la Turchia non abbia bisogno dell’aiuto di Gerusalemme. Probabilmente Ankara ritiene che l’America e l’Occidente abbiano molto più bisogno della Turchia di quanto la Turchia abbia bisogno di loro.
Una cosa è certa: la leadership dell’AKP ha spinto l’Occidente – e gli Stati Uniti – a chiedersi se la Turchia potrà ancora essere un alleato fidato in futuro.
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