di Fouad Ajami, New York Times, 26 febbraio 2011
Forse la rivoluzione araba del 2011 ha seguito il percorso della sofferenza e della crudeltà. La rivolta è esplosa in Tunisia e si è rapidamente estesa in Egitto, Yemen, Bahrein per poi tornare indietro in Libia. In Tunisia e in Egitto a quanto pare è la liberta ad aver vinto, per la gioia della popolazione. In Libia invece le forze ‘controrivoluzionarie’ hanno deciso di dare battaglia, e un despota privo di qualsiasi pietà ha dichiarato guerra al suo stesso popolo.
[…] La carriera di Gheddafi ebbe inizio il primo settembre 1969, quando ufficiali e cospiratori rovesciarono una monarchia debole ma tollerante. Il 17 febbraio 1970 venne proclamata la Repubblica Libica: da allora la società impaurita si è rifugiata nel silenzio sopportando le angherie del tiranno per oltre quattro decenni. Al momento non c’è via di scampo: siamo alla resa dei conti e sarà una lotta all’ultimo sangue […]
Anche i popoli arabi hanno grosse responsabilità, bisogna ammetterlo: nei decenni le masse hanno seguito i dittatori, hanno cantato slogan in loro favore credendo alle loro promesse e chiudendo gli occhi di fronte ai loro crimini. Senza voler girare il coltello nella piaga, la vecchia ‘piazza araba’ – diamole l’addio una volta per tutte – non ha mai proferito parola sulle crudeltà inflitte da Saddam agli Sciiti e ai Curdi in Iraq, perché era amato dalle folle e difendeva gli interessi dei Sunniti.
Anche nel 1978 nessuno si accorse che l’Imam Musa al-Sadr, leader degli Sciiti in Libano, era scomparso misteriosamente durante una visita in Libia. Nella tradizione araba l’ospitalità è sacra, tuttavia nessuno mosse un dito. Il colonnello Gheddafi evidentemente aveva abbastanza soldi per insabbiare la cosa […].
Gheddafi fece credere di essere l’erede del leggendario leader egiziano Gamal Abdel Nasser. Scrisse - per lo meno così disse - il Libro Verde, in cui offriva facili soluzioni per tutti i problemi di gestione dello stato. Gli intellettuali arabi più servili tessero le sue lodi, fingendo che tutto quel ciarpame meritasse una lettura approfondita!
Per capire il presente dobbiamo ritornare al passato. I tumulti nella politica araba iniziarono nel periodo fra gli anni ’50 e ’60, quando molti governi vennero rovesciati da assassini o da movimenti fortemente ideologizzati. I monarchi vennero scalzati con una certa facilità da uomini provenienti da classi sociali più umili, che avevano fatto carriera nell’esercito o all’interno di partiti radicali.
Negli anni ’80 in Egitto, Siria, Iraq, Algeria e Yemen nacquero […] stati di polizia basati sul terrore. I nuovi leader non avevano pietà per nessuno, e avevano l’abitudine di uccidere gli oppositori senza tanti problemi – gli Arabi avevano creato un nuovo mondo di oppressione e crudeltà.
L’uomo medio fu costretto a trovare un modus vivendi e a rifugiarsi all’interno delle mura domestiche. In pubblico vigeva il culto della personalità, indipendentemente dal leader al potere – Saddam Hussein, Muammar Gheddafi, Hafez al-Assad, Zine el-Abidine Ben Ali, etc. Il loro potere non aveva limiti, nessun contratto sociale venne mai stipulato fra cittadini e governanti.
La paura era il collante della politica: negli stati più ricchi (quelli con il petrolio) i governanti non esitarono a servirsi della ricchezza per consolidare il terrore. I cittadini arabi, una volta orgogliosi, vennero ridotti in stato di servitù e rinchiusi all’interno di una grande prigione a cielo aperto. Ma le autocrazie sembravano eterne e inattaccabili.
Man mano che invecchiavano, i golpisti e i cospiratori di una volta insediavano nei posti di comando dinastie rapaci. Così diventarono i ‘padroni’ delle nazioni’: mogli e figli divoravano tutto ciò che era possibile per soddisfare la propria sete di ricchezza e la propria vanità.
Fouad Ajami, professore alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies e membro dell’Hoover Institute, è autore di:“The Foreigner’s Gift: The Americans, the Arabs and the Iraqis in Iraq.”
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