Da un’analisi di George Friedman per Strategic Forecast, 22 marzo 2011.
La coalizione che ha attaccato la Libia ha un obiettivo preciso: impedire a Gheddafi di massacrare i suoi nemici, lasciando però ai ribelli della Cirenaica la responsabilità di gestire le conseguenze dell’intervento. In poche parole l’Occidente vuole proteggere e ad appoggiare i nemici di Gheddafi, ma non vuole nessuna responsabilità nell’esito della guerra fra Gheddafi e i suoi nemici! E’ una ‘scelta’ che deriva dal modo in cui sono interpretati gli eventi mediorientali degli ultimi mesi in Occidente. L’opinione pubblica occidentale si è convinta che:
· alle proteste hanno partecipato vasti strati di popolazione sia in Egitto che in Tunisia, e si può quindi parlare di vere e proprie rivoluzioni contro i tiranni al potere;
· i ribelli vogliono rimpiazzare i regimi al potere con democrazie liberali.
Ma le cose non stanno proprio così. In Egitto soltanto una minoranza della popolazione ha partecipato alle proteste – a differenza dell’Iran del 1979, quando la rivoluzione coinvolse ampie porzioni della società, compresi operai e negozianti. Non sappiamo che cosa accadrà:l’Egitto potrebbe rimanere tale e quale, potrebbe trasformarsi in una democrazia liberale o anche degenerare in una democrazia illiberale.
Vediamo il Bahrein: ovviamente la maggior parte della popolazione (sciita) mal sopporta la dinastia sunnita al potere. Chiaramente si può dedurre che gli Sciiti vogliano andare alle elezioni per aumentare il loro potere, ma non è detto che vogliano instaurare una democrazia liberale sullo stile occidentale.
L’equazione ‘opposizione al regime uguale democrazia liberale’ non è così scontata. Tuttavia è idea diffusa che in Medio Oriente siano in atto rivoluzioni democratiche (nel senso occidentale del termine): per questo riteniamo che i movimenti di opposizione debbano essere finanziati e appoggiati nella lotta contro la tirannide.
Però abbiamo una difficoltà: aiutando i ribelli a far cadere i regimi rischiamo di essere accusati di imperialismo, stando seduti a guardare violiamo i principi morali in cui crediamo. Come riconciliare questi due opposti?
Se in Libia è in corso una rivoluzione contro il tiranno al potere, non si può tollerare che Gheddafi soffochi nel sangue una rivolta popolare! Abbiamo taciuto per 40 anni di fronte alle brutalità del regime libico, ma non importa: ora anche in Libia arriva il ‘Risorgimento arabo’ e non possiamo lasciarlo solo. Ma c’è differenza fra retorica e realtà. Sicuramente sono state le rivolte di Tunisia e Egitto a spingere gli oppositori di Gheddafi a imbracciare le armi. Ma questo non vuol dire che in Libia gli insorti combattano Gheddafi per portare la democrazia nel paese.
In Libia è in corso una lotta fra tribù con diversi capi: ex membri del governo, comandanti militari e oppositori di varia natura hanno colto l’occasione per scatenare la rivolta. Ma i ribelli della Cirenaica non sono affatto coesi e l’unica cosa che condividono è l’odio per Gheddafi.
Secondo le notizie dei primi giorni Gheddafi aveva le ore contate. Ma così non è stato. Al contrario il rais poteva – e può – ancora contare sull’appoggio di una parte dell’esercito e di alcune tribù, e ha ampiamente dimostrato di essere più forte dei ribelli. Gheddafi non solo non ha ‘abbandonato la nave’, ma ha dato battaglia arrivando in pochi giorni alle porte di Bengasi – che avrebbe conquistato se non fossero intervenuti gli Occidentali.
Secondo la retorica diffusa all’inizio della rivolta, Gheddafi è un tiranno che ha conservato il potere soltanto grazie all’uso della forza bruta; eppure il tiranno ha ancora molti seguaci, l’opposizione non è così democratica come ci viene dipinta, né tantomeno coesa e organizzata. Man mano che Gheddafi si avvicinava a Bengasi, la retorica è cambiata: nessuno parlava più del ‘trionfo delle masse democratiche’ ma della necessità di proteggerle – da qui la necessità di un intervento armato. Ma per evitare l’accusa di imperialismo era necessario intervenire in maniera ‘leggera’: colpire le forze di Gheddafi in modo da permettere ai ribelli di vincere sul terreno, ma senza toccare il terreno stesso.
Pensiamo davvero che sia possibile fare una distinzione fra ‘umanitarismo’ e ‘imperialismo’ – ovvero che si possa intervenire in Libia senza mettere il naso negli affari interni del paese? Pensiamo davvero che si possa scatenare un guerra per salvare persone innocenti senza causare altre morti?
Viene spontaneo il paragone con l’Iraq: in entrambi i paesi è stata imposta una no-fly zone per scalzare dittatori sanguinari. Ma a questa prima fase in Iraq è seguito l’intervento diretto ed è iniziato un periodo di guerra civile in cui siamo coinvolti anche noi.
In Libia potremmo forse avere una situazione come quella del Kosovo, dove alla fine i Serbi furono costretti a concedere l’autonomia di una provincia, grazie all’intervento della NATO. Ma a Gheddafi non chiediamo di consegnare una provincia ai ribelli, ma l’intero paese. In questo caso ci siamo schierati a fianco di una debole e frammentata coalizione di tribù che fanno fatica a trovare un livello minimo di unità interna. L’intervento armato probabilmente avrà successo, ma non è detto che dopo nascerà un governo migliore. Gheddafi è stato tutti questi anni al potere non solo perché era un dittatore brutale, ma anche perché sapeva come gestire le varie anime della Libia.
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