11 maggio 2011
Lo Yemen si trova in una fase di stallo: il presidente Saleh ha ancora un sufficiente appoggio per rimanere in carica, ma la sua autorità al di là della capitale si sta rapidamente sgretolando, e c’è il rischio che la penisola araba diventi terreno facilmente penetrabile da parte dei terroristi di Al Qaeda (AQAP), ancora saldamente presenti nella regione.
La comunità internazionale ha opinioni divergenti su Saleh:
1) alcuni credono che il crollo dell’attuale regime possa portare a una guerra civile che giocherebbe a favore dei gruppi terroristici;
2) altri invece sostengono che Saleh in tutti questi anni ha continuato ad aiutare i jihadisti, e che solo con la sua eliminazione sarà possibile mettere in atto una strategia anti-terroristica efficace.
Ma chi ha ragione?
Non è un mistero che ci siano numerosi estremisti nelle forze armate e nei servizi segreti yemeniti, i quali garantiscono copertura ad al Qaeda e ai movimenti affiliati nella penisola araba. Per capirne le ragioni, occorre tornare all’epoca della guerra fra mujaheddin a Sovietici in Afghanistan: allora Osama bin Laden, la cui famiglia proviene dalla regione orientale dello Yemen, radunò un folto gruppo di volontari yemeniti da inviare a combattere il jihad contro i comunisti in Afghanistan. I jihadisti rientrarono in patria a guerra conclusa, nel 1989, subito dopo la sconfitta sovietica.
A capo dei jihadisti tornati dall’Afghanistan sedeva Tariq al Fadhli, che si alleò con lo sceicco Abdul Majid al Zindani, il padre spirituale del movimento salafita yemenita. Le terre della tribù di al Fadhli erano state conquistate dai marxisti del Partito Socialista Yemenita, che governarono lo Yemen meridionale dal 1971 al 1990. Presto al Fadhli mosse guerra allo Yemen meridionale potendo contare sull’appoggio di molti reduci arabi provenienti da Siria, Egitto, Arabia Saudita e Giordania, che avevano preferito trasferirsi in Yemen per non finire in galera nei loro paesi con l’accusa di terrorismo.
Dopo l’unificazione del 1990 i salafiti vennero allontanati dal governo e i marxisti del sud entrarono nelle istituzioni della Nuova Repubblica dello Yemen – sebbene sottomessi ai politici del nord. Da allora in poi i jihadisti rivolsero l’attenzione contro obiettivi stranieri: nel 1992 organizzarono attentati contro alberghi ad Aden, dove stazionavano i soldati che partecipavano all’operazione Restore Hope in Somalia; nel 1993 lanciarono un razzo contro l’ambasciata americana. Il governo reagì duramente incarcerando Fadhli e i suoi discepoli – che continuarono a dichiararsi innocenti.
Con l’aumento delle tensioni fra il sud e il nord del paese, il presidente Saleh fece rilasciare al Fahdli e i suoi seguaci spingendoli a unirsi alle sue forze nella lotta contro i socialisti del sud, che volevano l’indipendenza. Il piano di Saleh funzionò: i ribelli del sud vennero sconfitti, e gli islamisti – fra cui il generale Mohsen, comandante della divisione yemenita nordoccidentale – che avevano contribuito alla vittoria vennero lautamente ricompensati ed entrarono a far parte delle forze di sicurezza del paese.
Dopo l’attentato contro il cacciatorpediniere USS Cole, ormeggiato nel porto di Aden, nel 2000, gli USA iniziarono a esercitare pressione su Saleh affinché prendesse provvedimenti contro i jihadisti presenti nell’amministrazione dello stato. Il presidente studiò quindi un piano per disfarsi della ‘vecchia guardia’ nominando gradualmente a capo delle agenzie governative i membri della sua famiglia e congedando i vecchi elementi islamisti. In cambio Washington aumentò gli aiuti economici passando da $5 milioni nel 2006 a $155 milioni nel 2010. Questa cifra sarebbe dovuta ulteriormente salire a $1 miliardo nei prossimi anni, ma dopo lo scoppio dei disordini gli USA hanno congelato gli aiuti finanziari in attesa che la situazione si stabilizzi.
Mohsen non vide di buon occhio le mosse di Saleh, che a poco a poco aveva rimosso tutti i suoi alleati per sostituirli con membri della famiglia. Peraltro lo stesso Mohsen venne preso di mira dal regime, che tentò anche di eliminarlo fisicamente a più riprese – ad esempio tentando di far bombardare la sua postazione dai Sauditi per un ‘semplice errore’.
Alla fine del 2010 Saleh, ormai certo di essere in una botte di ferro, era pronto ad abrogare la legge che poneva limite al numero dei mandati presidenziali, per ricandidarsi nuovamente. Ma non aveva previsto la ‘primavera araba’: le rivolte dal Nordafrica si diffusero anche nello Yemen. Mohsen vide nelle proteste un’opportunità di riscatto e cavalcò il malcontento per ritornare alla ribalta: quando migliaia di Yemeniti si riversarono nelle strade di Sana’a a fine marzo dispiegò il suo contingente a difesa dei manifestanti impedendo alla Guardia Repubblicana – fedele a Saleh – di schiacciare la rivolta nel sangue. Oltre a Mohsen anche altri militari della ‘vecchia guardia’ si schierarono contro il governo di Saleh, così come importanti capi tribali e personaggi politici di rilievo, fra cui Abdullah bin Hussein al-Ahmar, uomo d’affari a capo del partito Islah, che controlla il Joint Meeting Parties, la coalizione all’opposizione. Questi oppositori godono di molto appoggio in Yemen, ma non abbastanza da rovesciare il governo Saleh. Per questo la situazione è ora in fase di stallo: a differenza della Libia dove esiste una linea geografica chiara che divide le forze governative e i ribelli, lo Yemen è diviso lungo linee tribali, claniche ed economiche complesse e difficili da individuare.
La posizione di Washington.
Sauditi, Americani e Yemeniti sanno ormai che il regno di Saleh, durato oltre 33 anni, sta volgendo al termine. Ma che cosa accadrà alla sua famiglia quando il presidente lascerà il potere?
Gli Stati Uniti si trovano in una posizione particolarmente difficile: l’opposizione è un coacervo di forze variegate, dai socialisti agli islamisti radicali, uniti solamente dall’intenzione di smantellare il regime ed eliminare i familiari di Saleh che controllano le agenzie di intelligence del paese. E qui iniziano le preoccupazioni. Gli Stati Uniti hanno speso molto tempo e denaro per ‘ripulire’ queste agenzie e formare una nuova generazione di funzionari capaci di contrastare gli estremisti; ora temono di perdere il lavoro di tanti anni. Probabilmente Mohsen e gli altri della ‘vecchia guardia’ non avrebbero problemi a trattare con Washington pur di ottenere i generosi aiuti finanziari, ma visti i trascorsi jihadisti non è detto che siano davvero intenzionati a prendere le distanze dai loro ex compagni di lotta. Gli USA non conoscono bene il panorama yemenita, non hanno legami con le tribù locali, quindi non sanno identificare gli interlocutori affidabili in una realtà estremamente complessa.
Il ruolo dell’Arabia Saudita.
La famiglia reale saudita invece conosce molto bene il suo vicino meridionale: infatti ha sempre tenuto sotto controllo lo Yemen comprandosi la lealtà dei capi tribali e mantenendo buoni legami con gli islamisti, Mohsen compreso. Riyadh, proprio come Washington, teme che il paese possa precipitare nel caos e che i terroristi di Al Qaeda nella Penisola Araba – per lo più sauditi – tentino di destabilizzare la regione; per non parlare poi del rischio di una nuova ondata di profughi, lavoratori illegali e delinquenti di varia natura che potrebbero causare gravi problemi alla fragile società saudita.
L’Arabia saudita è inoltre preoccupata perché gli al-Houthi, ribelli sciiti appartenenti alla setta zaidita che combattono a intermittenza contro il governo yemenita dal 2004, hanno immediatamente approfittato dei disordini per ravvivare la ribellione. Gli al-Houthi sono considerati eretici dai Wahhabiti sauditi, e inoltre intrattengono legami con gli sciiti ismailiti delle province di Najran e Jirzan (vedi mappa) che potrebbero imitare i ribelli del sud e ribellarsi a Riyadh.
Con il passare del tempo la situazione in Yemen rischia di farsi sempre più complicata: mentre gli USA utilizzano un po’ di tempo in più per cercare valide alternative fra le forze di opposizione, dall’altra ogni minuto che passa il potere di Saleh scema. Una cosa è certa: gli oppositori – socialisti, islamisti e jihadisti di vari natura – non aspetteranno che gli USA abbiano elaborato una strategia, ma andranno avanti con la loro lotta per abbattere il regime il più velocemente possibile. E in caso di guerra civile, i terroristi di AQAP avranno mano libera.
I vostri commenti
Per questo articolo non sono presenti commenti.
Lascia un commento
Vuoi partecipare attivamente alla crescita del sito commentando gli articoli e interagendo con gli utenti e con gli autori?
Non devi fare altro che accedere e lasciare il tuo segno.
Ti aspettiamo!
Accedi
Non sei ancora registrato?
Registrati