18 ottobre 2011
Il miracolo economico cinese è stato possibile grazie alle riforme di mercato introdotte nel 1978 dal presidente Deng Xiaoping, che favorirono l’integrazione della Cina nel mercato economico internazionale (culminate nel 2001 con l’ingresso nel WTO) dopo decenni di completo isolamento. Pechino aprì l’economia agli investimenti stranieri, legalizzò la proprietà privata e nei campi smantellò le inefficienti comuni liberando manodopera a basso costo che presto si riversò nei centri urbani trovando lavoro nelle aziende private.
Nell’arco di poco tempo si diffusero numerose piccole e medie aziende – alcune a conduzione familiare – che producevano componenti per beni da esportare all’estero – specialmente in occidente. Questo processo subì un’ulteriore accelerazione con le riforme del 1992 e 1994, che semplificarono la cornice legale e favorirono una maggiore decentralizzazione.
Tuttavia la rigidità del sistema politico cinese, che pretende di controllare ogni settore economico del paese, rappresenta un ostacolo allo sviluppo; negli ultimi anni la diffidenza del governo cinese per il settore privato è in aumento. Nel 2004 ad esempio Pechino ha bloccato un progetto locale dalla Jiangsu Tieben Steel, compagnia siderurgica privata nella provincia di Jiangsu, per ‘aver violato le leggi sulla protezione ambientale e le politiche industriali statali’. Di fatto si è trattato di una mossa per tarpare le ali alla Tieben, colpevole di essere troppo ‘indipendente’ agli occhi del governo centrale.
Da allora Pechino ha gradualmente ridotto l’appoggio alle imprese private (per lo più compartecipate da amministrazioni o enti pubblici locali) ed ha canalizzato gli investimenti verso le aziende direttamente sottoposte al governo centrale.
La crisi finanziaria internazionale del 2008Le politiche adottate dal governo cinese dopo la crisi del 2008 hanno privilegiato le grandi aziende statali a scapito delle piccole e medie imprese, che versano ormai in stato di crisi.
Il piano di stimolo varato da Pechino ha favorito i colossi statali nel settore petrolifero, ferroviario e delle telecomunicazioni e ha provocato un’espansione del settore statale a scapito di quello privato anche in altri ambiti – ad esempio nel settore immobiliare.
Con l’inasprimento della politica monetaria i privati non riescono più ad avere accesso al credito delle banche – concesso per lo più alle aziende statali che intrattengono stretti legami con il governo centrale – e sono costrette a ricorrere a prestiti ‘informali’ sul mercato nero a tassi d’interesse spesso insostenibili.
La storia si ripeteL’ostilità dello stato nei confronti del privato non è una novità in Cina.
Nella seconda metà del 1800 l’arrivo degli occidentali spinse la dinastia Qing – che governava il paese – ad aprirsi al mondo esterno. Allora il governo cinese, intenzionato a importare nuove tecnologie dall’occidente per ammodernare l’economia, appoggiò un manipolo di imprenditori privati nella creazione di una sorta di “capitalismo burocratico” guidato dalla casa regnante. Accanto a questo gruppo emerse però un secondo gruppo di imprenditori molto più indipendenti, contrari all’eccessiva ingerenza dello stato nell’economia.
Quando nel 1911 i governatori Qing decisero di nazionalizzare le ferrovie servendosi di prestiti esteri, la situazione precipitò: buona parte del sistema ferroviario era stato finanziato da agricoltori che avevano reinvestito nelle strade ferrate i profitti delle vendite del grano. La nazionalizzazione generò un’ondata di proteste che dal Sichuan si espanse a tutta la Cina e alla fine portò al crollo della dinastia Qing.
Un esempio concreto: il caso di WenzhouWhenzou, città dello Zhejiang (vedi mappa a lato), crebbe rapidamente dopo l’introduzione delle riforme di mercato di fine anni ’70, dopo la morte di Mao. Nell’arco di pochi anni grazie all’enorme disponibilità di manodopera si svilupparono numerose industrie che producevano componenti o prodotti finiti ad alta intensità di manodopera – calzature, tessuti, confezioni, elettrodomestici – per l’esportazione. Il modello di Wenzhou si diffuse rapidamente su scala nazionale.
La contrazione delle esportazioni dovuto al calo della domanda dei paesi occidentali dal 2008 in poi ha messo a nudo le debolezze di questo sistema, poco sostenibile perché totalmente dipendente dai mercati esteri. I privati, incoraggiati dai governi locali, non potendo sviluppare ulteriormente l’industria manifatturiera che anzi si contraeva, hanno investito in materie prime, prodotti agricoli e immobili, facendo triplicare nell’arco di pochi anni i prezzi degli immobili e alimentando una bolla speculativa che ora rischia di destabilizzare l’intera economia nazionale. Il piano di stimolo del 2008 ha ulteriormente aggravato la situazione, e la recente stretta monetaria, mirata a contenere l’inflazione, rischia di mandare in bancarotta numerose piccole e medie imprese.
A Wenzhou e in altri distretti industriali le imprese private si rivolgono al mercato finanziario ‘informale’, non ufficiale, privato, non trovando più credito dalle banche – tant’è che secondo stime ufficiose oltre l’80% delle famiglie di Wenzhou sarebbe coinvolto in queste attività illegali.
La stretta monetaria e creditizia del governo centrale mira alla ristrutturazione delle industrie private inefficienti, ma non vuole provocare fallimenti a catena che causerebbero disoccupazione e instabilità sociale. Per questo potrebbe decidere di nazionalizzarle e riformare poi il settore finanziario in un secondo momento.
Non sarà semplice né rapido riconvertire un sistema economico mirato prevalentemente all’export; le riforme potrebbero causare in una prima fase maggiore povertà e un aumento del malcontento popolare, che potrebbe mettere il crisi la leadership del partito.
A cura di Davide Meinero
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