I dati più importanti dell’Iran vengono spesso taciuti perché sono ovvi e basta una rapida occhiata a una cartina per comprenderli. Questo tipo di dati spiega perché quando – non se − ci sarà un cambiamento di regime o una qualche evoluzione a Teheran, rivoluzionerà la situazione geopolitica dal Mediterraneo al subcontinente indiano − e oltre.
Il petrolio e il gas naturale del Grande Medio Oriente si trovano nel Golfo Persico e nelle regioni del Mar Caspio (mappa a lato) Le rotte di trasporto dal Golfo Persico si irradiano per i mari; quelle dalla regione del Caspio tramite oleodotti fino al Mediterraneo, al Mar Nero, all’Oceano Indiano e in Cina. L’unico paese attraversato dalle rotte di entrambe le aree di estrazione è l’Iran, che si estende dal Mar Caspio al Golfo Persico. Fisicamente l’Iran è il punto di raccordo di tutto il Grande Medio Oriente.
Pare che il Golfo Persico abbia il 55% delle riserve mondiali di petrolio greggio. L’Iran domina l’intero Golfo, dallo Shatt al-Arab sul confine iracheno fino allo stretto di Hormuz, 990 chilometri più in giù. Grazie alle tante baie, insenature, cale e isole, la costa iraniana sullo stretto di Hormuz si sviluppa per 1356 miglia nautiche; quella degli Emirati Arabi Uniti, che è la seconda in lunghezza, è di sole 733 miglia nautiche.
L’Iran si affaccia per 480 chilometri anche sul Mar Arabico, dove ha un porto a Chabahar, vicino al confine pachistano, che offre un accesso all’Oceano Indiano d’importanza vitale per i paesi dell’ex Unione Sovietica in Asia Centrale, che non hanno sbocco sul mare.
A nord la costa iraniana del Mar Caspio, attorniata da montagne con fitte foreste, si distende per quasi 650 chilometri da Astara a ovest, al confine con l’Azerbaigian, fino a Bandar-e Torkaman a est, al confine con il Turkmenistan ricco di gas.
Un’occhiata a una mappa delle catene montuose dell’area (vedi mappa) aggiunge altri elementi degni di considerazione. I monti Zagros attraversano l’Iran dall’Anatolia a nordovest fino al Belucistan a sudest. A ovest degli Zagros si ha pieno accesso all’Iraq. Quando negli anni ’30 la scrittrice britannica Freya Stark esplorò la regione iraniana del Lorestan, fece base a Bagdad, non a Teheran.
A est e nordest si aprono gli accessi al Khorazan e ai deserti del Karakum e del Kizilkum, rispettivamente in Turkmenistan e Uzbekistan. L’Iran non solo si estende dal Golfo Persico al Mar Caspio, entrambi ricchi di fonti d’energia, sta anche a cavallo fra il Medio Oriente propriamente detto e l’Asia centrale. Nessun paese arabo ha le stesse caratteristiche, e nessun paese arabo tocca entrambe le regioni che producono energia. L’invasione mongola dell’Iran, che causò la morte di centinaia di migliaia di persone e distrusse la rete di irrigazione dei qanat, fu tanto devastante proprio perché l’Iran non ha barriere naturali verso l’Asia Centrale.
L’influenza iraniana sulle ex repubbliche sovietiche del Caucaso e dell’Asia Centrale è potenzialmente grande. L’Azerbaigian, che si trova al confine nordoccidentale, ospita pressappoco 8 milioni di Azeri turchi, nelle provincie iraniane di Azerbaigian e Teheran ce ne sono il doppio. Gli Azeri furono co-fondatori della prima entità statale iraniana fin dall’ascesa dell’Islam nel VII secolo. Il primo shah sciita dell’Iran (Ismail, nel 1501) era un Azero turco. In Iran molti importanti uomini di affari e ayatollah sono Azeri, inclusa l’attuale Guida Suprema Ali Khamenei. Anche se i media sono più interessati all’influenza iraniana a ovest, in Turchia e nel mondo arabo, l’influenza iraniana è altrettanto forte verso nord e verso est, e se ci fossero regimi meno repressivi in Iran e negli stati islamici dell’ex Unione sovietica, che permettessero maggiori interazioni culturali e politiche, l’influenza iraniana sarebbe ancora maggiore.
C’è poi quello che lo storico britannico Michael Axworthy chiama “l’Iran ideale”, fatto tanto di cultura e lingua quanto di razza e territorio. Egli sostiene che l’Iran è un polo di civiltà come l’antica Grecia o la Cina, che attrae altre popolazioni e lingue nella sua orbita: possiede l’essenza del soft power, in altre parole. Il dari, il tagiko, l’urdu, il pashtu, l’hindi, il bengalese e l’arabo iracheno sono tutte varianti del persiano, o ne sono stati sensibilmente influenzati. Si può viaggiare da Bagdad in Iraq a Dacca in Bangladesh restando all’interno della sfera culturale iraniana.
L’Iran non sorge da un gruppo di famiglie e ideologie religiose tenute insieme da confini arbitrari, come l’Arabia Saudita. I confini dell’Iran corrispondono quasi perfettamente a quelli dell’altopiano iraniano – per questo lo storico di Princeton Peter Brown lo chiama ‘la Castiglia d’oriente’ – anche se la sua civiltà si proietta ben oltre. All’epoca del conflitto con la Grecia l’impero persiano “si srotolava, come la coda di un drago, … fino all’Oxus (nome greco dell’Amu Darya), all’Afghanistan e alla Valle dell’Indo”, scrive Brown. W. Barthold, il grande geografo russo che visse a cavallo del XX secolo, situa il Grande Iran tra l’Eufrate e l’Indo e considera i Curdi e gli Afghani popolazioni essenzialmente iraniane.
Fra le antiche popolazioni del Vicino Oriente solo gli Ebrei e gli Iraniani “hanno testi e tradizioni culturali che sono sopravvissute ai tempi moderni”, scrive il linguista Nicholas Ostler. Il persiano (farsi) non è stato rimpiazzato dall’arabo, come molte altre lingue, e oggi ha la stessa forma che aveva nell’XI secolo, anche se ha adottato una versione modificata dell’alfabeto arabo. L’Iran possiede una storia invidiabile come stato nazionale e come civiltà urbana rispetto alla maggior parte dei paesi nel mondo arabo e della Mezzaluna Fertile, Mesopotamia e Palestina incluse.
In altre parole, non c’è nulla di artificioso nella realtà iraniana. Che ci siano diversi centri di potere in competizione tra di loro persino all’interno del regime clericale indica un livello di istituzionalizzazione più elevato degli altri paesi della regione, eccetto Israele, Egitto e Turchia.
Il Grande Iran sorse nel 700 a.C. con i Medi, antica popolazione iraniana che fondò, con l’aiuto degli Sciti, uno stato indipendente. Nel 600 a.C. questo impero si estendeva dall’Anatolia centrale all’Hindu Kush (ovvero dalla Turchia all’Afghanistan), e a sud fino al Golfo Persico. Nel 549 a.C. Ciro il Grande, della dinastia persiana degli Achemenidi, conquistò la capitale del regno dei Medi, Ecbatana (l’attuale Hamadan nell’Iran occidentale) e continuò l’opera di conquista. La mappa dell’Impero Achemenide (mappa a sinistra), governato da Persepoli, mostra l’antica Persia all’apice della sua potenza, fra il VI e il V secolo a.C. Si estendeva da Tracia e Macedonia a nordovest, Libia ed Egitto a sudovest, fino al Punjab a est, al Caucaso il Caspio e il Lago d’Aral a nord, e fino al golfo Persico e al Mar Arabico a sud. Non c’era mai stato impero più grande. La Persia fu dunque la prima superpotenza mondiale nella storia, e i leader iraniani del nostro tempo – sia l’ultimo shah che gli ayatollah – sentono ancora questa storia nelle ossa. Malgrado il pan-islamismo, l’attuale elite al potere è votata al nazionalismo iraniano.
I Parti incarnarono il meglio del genio iraniano, ovvero la tolleranza delle culture sulle quali esercitavano il potere, concedendo loro una certa autonomia. Il cuore dell’Impero dei Parti si trovava nella regione nord-orientale del Khorasan e nel vicino Karakum, dove si parlava la lingua iraniana. I Parti governarono tra il III secolo a.C. e il III secolo d.C. la regione che va grosso modo dalla Siria e dall’Iraq fino all’Afghanistan centrale e al Pakistan, includendo anche l’Armenia e il Turkmenistan. Più che la Persia achemenide, l’Impero dei Parti rappresenta un modello realistico per un Grande Iran del XXI secolo. Che non sarebbe necessariamente un male, visto che l’impero dei Parti era molto decentralizzato, era più una zona di forte influenza che di controllo assoluto, e usava ampiamente arte, architettura e pratiche amministrative ereditate dai Greci. Nell’Iran attuale non è certo un segreto che, benché il regime clericale sia potentissimo, le forze economiche, demografiche e politiche sono molto dinamiche, e segmenti importanti della popolazione sono ormai insofferenti al regime. Non è dunque da escludere la possibilità di un cambio di regime in Iran, e l’inizio di un nuovo positivo ‘impero iraniano’.
La storia medievale dell’Iran segue le linee di quella antica, sia come estensione fisica sia come estensione culturale, anche se in modo più sfumato. Nell’VIII secolo il centro politico del mondo arabo si spostò a est della Siria in Mesopotamia sotto i califfi Omayyadi e quelli Abbasidi – evidenziando, di fatto, l’ascesa dell’Iran. Il secondo califfo, Omar bin al-Khattab, sotto il cui regno gli eserciti islamici conquistarono i Sassanidi, adottò il sistema amministrativo persiano chiamato diwan. Il califfato degli Abbasidi al suo massimo splendore, a metà del IX secolo, governava la regione dalla Turchia al Pakistan e dal Caucaso e l’Asia centrale fino al Golfo Persico. La capitale era la nuova città di Bagdad, vicino alla vecchia capitale sassanide persiana di Ctesifonte, e la burocrazia persiana, che introdusse nuove gerarchie, costituì la base del nuovo impero. Il Califfato abbaside di Bagdad fu più un sistema di potere iraniano che uno sceiccato arabo. Alcuni storici lo hanno definito la “riconquista culturale” del Medio Oriente da parte dei Persiani, sotto la guida degli Arabi. Gli Abbasidi adottarono la tradizione persiana così come gli Omayyadi, più vicini all’Asia Minore, avevano fatto con quella bizantina. “Titoli persiani, vini e mogli persiane, amanti persiane, canzoni persiane, così come idee e pensieri persiani trionfarono”, scrive lo storico Philip K. Hitti. “Nell’immaginario occidentale” scrive Peter Brown, “l’impero islamico (abbaside) incarna la quintessenza del potere orientale. L’islam non ha avuto questa impronta da Maometto, né dai conquistatori del VII secolo, ma dalla vigorosa rinascita delle tradizioni orientali, per la precisione persiane, nell’VIII e IX secolo.’
Una componente molto rilevante del dinamismo culturale iraniano è lo sciismo, nonostante l’aurea rigida e oppressiva proiettata dal clero sciita al potere in questi tempi bui a Teheran. La venuta del Mahdi sotto forma del Dodicesimo Imam nascosto sancirà la fine dell’ingiustizia e perciò incita all’attivismo radicale, ma ben poco induce il clero sciita a giocare un ruolo politico manifesto. Influenzato dal sufismo, lo sciismo è anzi meno restio a sottostare al potere politico. Lo testimonia l’esempio dell’esponente di punta del clero iracheno degli ultimi anni, l’ayatollah Ali Sistani (di famiglia iraniana), che fa appello, dietro le quinte, a una politica di conciliazione, e soltanto in momenti cruciali. E’ possibile che in un Iran post rivoluzionario gli Iraniani guarderanno, per avere indicazioni spirituali, più alle città sante sciite di Al Najaf e Karbala in Iraq che alla propria città santa di Qom. È anche possibile che Qom adotti il quietismo di Al Najaf e Karbala, nonostante le profonde differenze tra lo sciismo di origine araba e quello di origine persiana.
Lo studioso francese Olivier Roy afferma che lo sciismo è un fenomeno storico arabo che arrivò tardi in Iran, e qui produsse una gerarchia clericale in grado di prendere il potere. Lo sciismo è rafforzato dalla tradizione di uno stato forte e burocratizzato di cui l’Iran godette fin dall’antichità, diversamente dai popoli arabi, grazie alla coerenza spaziale dell’altopiano iraniano. I Safavidi portarono lo sciismo in Iran nel XVI secolo; il loro nome viene dall’ordine militante sufi, il Safaviyeh, che in origine era sunnita. I Safavidi erano una delle molte dinastie-confraternite, costituite da Turchi, Azeri, Georgiani e Persiani, che nel tardo XV secolo occuparono l’altopiano tra il Mar Nero e il Mar Caspio, dove si incontrano l’Anatolia, il Caucaso e il nordovest dell’Iran.
Per costruire uno stato sull’altopiano di lingua farsi questi nuovi regnanti di origini linguistiche e geografiche differenti adottarono come religione di stato lo sciismo duodecimano, che attende il ritorno del Dodicesimo Imam, diretto discendente di Maometto. Al suo apice l’Impero Safavide si estendeva pressappoco da Anatolia e Siria-Mesopotamia fino all’Afghanistan centrale e al Pakistan – ennesima variante del Grande Iran. Lo sciismo fu un importante agente di coagulazione dell’Iran come moderno stato-nazione, ma soltanto dopo che nel XVI secolo si verificò l’iranizzazione degli sciiti non persiani e delle minoranze sunnite. L’Iran era una nazione già nell’antichità, ma fu l’introduzione dello sciismo nell’altopiano iraniano da parte dei Safavidi a preparare l’Iran per l’era moderna.
L’Iran rivoluzionario di fine XX e inizio XXI secolo è espressione di questo singolare retaggio. Chiaramente l’ascesa degli ayatollah lo ha indebolito, facendo violenza alle affascinanti, sofisticate e stimolanti tradizioni dell’Iran del passato (Persia “terra dei poeti e delle rose” esclama l’epistola introduttiva di “Le avventure di Hajji Baba di Ispahan” di J. Morier). Ma la comparazione è la base di ogni analisi seria: in confronto alle sollevazioni e alle rivoluzioni del mondo arabo a inizio e a metà della Guerra Fredda, il regime deposto dalla Rivoluzione Iraniana del 1978-1979 era sorprendente per il suo slancio e la sua modernità. La verità è − e questo rimanda direttamente agli Achemenidi dell’antichità − che tutto ciò che riguarda l’Iran nel passato e nel presente è caratterizzato dall’essere di altissimo livello: che si tratti di gestione di imperi, da Ciro il Grande a Mahmoud Ahmadinejad (che mostra il talento iraniano tipico degli imperi nel gestire reti di militanti in Libano, a Gaza e in Iraq), di pensiero politico o di scritti religiosi, oppure della complessa efficienza della burocrazia e dei servizi di sicurezza per reprimere i dissidenti. L’ordine rivoluzionario di Teheran costituisce una struttura governativa avanzata, con una pluralità di centri di potere. Non si tratta del rudimentale e criminale governo di un solo uomo, com’era quello di Saddam Hussein nel vicino Iraq arabo.
Quello che rende il regime clericale iraniano così abile nel perseguire i propri interessi dal Libano all’Afghanistan è la sua identificazione con lo stato iraniano, che a sua volta è il prodotto della storia e della geografia. Il Movimento Verde, emerso durante le dimostrazioni antigovernative di massa dopo le discusse elezioni del 2009, è molto simile al regime che cerca di rovesciare. È estremamente evoluto per gli standard della regione (almeno fino alla Rivoluzione dei Gelsomini in Tunisia, due anni dopo) − altra dimostrazione del genio iraniano. L’?Onda Verde” è stato un movimento per la democrazia di prim’ordine, capace di usare con padronanza le ultime tecnologie di comunicazione – Twitter, Facebook, SMS – per incrementare il peso dell’organizzazione, e capace di usare una potente mistura di nazionalismo e di valori morali universali per portare avanti la propria causa. Sono stati necessari tutti i mezzi di repressione, violenti e no, dello stato iraniano per mettere a tacere il Movimento e nel farlo il governo di Teheran è stato molto più chirurgico di quello siriano, ad esempio. Se il Movimento Verde prendesse il potere o provocasse un cambiamento nella filosofia del regime clericale e nella sua politica estera, rendendole più moderate, l’Iran − con il suo stato forte e la sua dinamicità − avrebbe la capacità di allontanare l’intero Medio Oriente dalla radicalizzazione, divenendo l’espressione politica della nuova borghesia che si sta sviluppando nel Grande Medio Oriente, portatrice dei valori della classe media, tenuta in ombra dall’attenzione esclusiva per al Qaeda e il radicalismo fino alla Primavera Araba del 2011.
Parlare di destino è pericoloso, perché implica l’accettazione del fato e un certo determinismo, ma la geografia, la storia e il capitale umano dell’Iran fanno ritenere probabile che il Grande Medio Oriente − e per estensione l’Eurasia − saranno profondamente influenzati, nel bene o nel male, dall’evoluzione politica dell’Iran. La geografia dell’Iran, come detto, si “affaccia” sull’Asia Centrale così come sulla Mesopotamia e sul Medio Oriente. Eppure la disintegrazione dell’Unione Sovietica ha portato vantaggi limitati all’Iran, a paragone con la storia del Grande Iran nella regione. Il suffisso “istan” usato per i paesi dell’Asia centrale e meridionale e che significa “luogo”, viene dal persiano; i canali per l’islamizzazione e civilizzazione dell’Asia centrale sono state la lingua e la cultura persiana, la lingua dell’intellighenzia e delle elite nell’Asia centrale fino all’inizio del XX secolo è passata da una forma all’altra di persiano. Ma nel 1991 l’Azerbaigian sciita ha adottato l’alfabeto latino e si è rivolto alla Turchia per cercare tutela. Come altre repubbliche a nordest dell’Iran, l’Uzbekistan sunnita si è orientato più verso il nazionalismo che verso l’islamismo, per timore dei fondamentalisti interni, e questo rende gli Uzbeki diffidenti anche nei confronti dell’Iran. Il Tagikistan, sunnita ma di lingua persiana, cerca un protettore nell’Iran, ma Teheran è frenata − nell’assumere questo ruolo − dal timore di inimicarsi i musulmani di lingua turca in altre zone dell’Asia centrale. In quanto nomadi e semi nomadi, i popoli dell’Asia centrale erano raramente musulmani devoti, e settant’anni di comunismo non hanno fatto che rafforzare le loro tendenze secolariste. Dovendo in qualche modo “re-imparare l’islam”, sono scoraggiati e intimiditi dall’Iran clericale.
Chiaramente ci sono stati anche sviluppi positivi per Teheran. L’Iran, come testimonia il suo programma nucleare, è uno dei paesi più avanzati del Medio Oriente dal punto di vista tecnologico (in linea con la sua cultura e la sua politica), e come tale ha costruito progetti idroelettrici, strade e ferrovie in paesi dell’Asia centrale, che un giorno saranno tutti collegati all’Iran, direttamente o attraverso l’Afghanistan. Inoltre un gasdotto collega il sudest del Turkmenistan con il nordest dell’Iran, portando il gas naturale turkmeno nella regione caspica dell’Iran. Questo permette all’Iran di destinare invece all’esportazione − attraverso il Golfo Persico − il gas naturale estratto dai propri giacimenti nel sud del paese. Il tutto è stato reso possibile dal collegamento ferroviario costruito tra i due paesi negli anni ’90. Il Turkmenistan possiede le quarte riserve al mondo di gas naturale e destina tutte le sue esportazioni a Iran, Cina e Russia. Sorge così la possibilità di un asse energetico euroasiatico costituito da queste tre potenze continentali, al momento tutte opposte alla democrazia occidentale.
L’Iran e il Kazakistan hanno costruito un oleodotto fra i due paesi che porta il petrolio kazako nell’Iran settentrionale, liberando una quantità corrispettiva di petrolio iraniano per l’esportazione dai giacimenti del sud attraverso il Golfo Persico. Il Kazakistan e l’Iran sono collegati anche da una ferrovia, che fornisce al Kazakistan un accesso diretto al Golfo.
Una rete ferroviaria potrebbe collegare anche il montuoso Tagikistan all’Iran, attraverso l’Afghanistan. L’Iran rappresenta la via più breve attraverso cui tutti questi paesi ricchi di risorse possono raggiungere i mercati internazionali.
Ma ci sono ancora ostacoli. A confronto con prestigio di cui l’Iran sciita gode presso vari settori del mondo arabo sunnita, per non parlare del sud del Libano e dell’Iraq sciita − per l’inesorabile sostegno alla causa palestinese e il suo intrinseco antisemitismo – è significativo che questa capacità di ottenere il favore delle masse non si riproponga semplicemente anche in Asia centrale. Il fatto è che le ex repubbliche sovietiche mantengono relazioni diplomatiche con Israele e non condividono l’odio nei suoi confronti, che è ancora onnipresente nel mondo arabo, nonostante le fasi iniziali della Primavera Araba. C’è poi qualcosa di più grande e profondo che limita la presa dell’Iran non solo sull’Asia centrale ma anche sul mondo arabo. Si tratta della persistenza del suo soffocante potere clericale che da un lato impressiona in negativo – perché usa a tradizione iraniana dello stato forte per reprimere ingegnosamente l’opposizione democratica e torturare e stuprare i suoi stessi cittadini – dall’altro ha appannato il fascino linguistico e cosmopolita che nei secoli ha creato il Grande Iran culturale. In questo regime il mondo iraniano in technicolor è stato rimpiazzato da un bianco e nero sgranato. Le ambizioni imperiali dell’Iran sono al momento limitate dalla natura del suo potere clericale.
Qualche anno fa ero a Ashgabat, la capitale del Turkmenistan, dove Teheran e Mashad − sul limitare del Khorasan iraniano − appaiono tradizionalmente come centri cosmopoliti di commercio e pellegrinaggio, in cruda opposizione al paesaggio del Turkmenistan, scarsamente abitato da popolazioni nomadi. Ma anche se il commercio e la politica energetica si sviluppano rapidamente, l’Iran non esercita nessun fascino sui musulmani turkmeni, in gran parte secolarizzati, che sono intimiditi dai mullah. Per quanto l’influenza iraniana sia estesa proprio in virtù della sua sfida a muso duro all’America e a Israele, la vera capacità attrattiva dell’Iran non si manifesterà in tutta la sua gloria culturale fino a quando il regime non si liberalizzerà o sarà rovesciato. Un Iran democratico − o quasi – può fungere da stimolo per centinaia di milioni di musulmani nel mondo arabo e in Asia centrale, proprio per la potenza della sua storia geopolitica.
Il liberalismo nel mondo arabo sunnita può essere favorito non solo dall’esempio dell’occidente, o di un Iraq democratico ma ancora disfunzionale, ma anche dalla sfida di un futuro sciismo iraniano liberale e storicamente eclettico. Un Iran del genere potrebbe realizzare ciò che vent’anni di politiche occidentali post guerra fredda e la promozione della società civile non sono riusciti a fare: portare a una sostanziale riduzione delle restrizioni dello stato di polizia nell’Asia centrale ex sovietica.
Con la sua ricca cultura, il vasto territorio e le sue città brulicanti e tentacolari, l’Iran è, come la Cina o l’India, una civiltà a sé stante, il cui futuro sarà determinato in maniera preponderante dalla politica interna e dalle condizioni sociali. Diversamente dagli Achemenidi, dai Sassanidi, dai Safavidi e da altri imperi iraniani del passato, che ebbero ricadute positive o furono veri e propri ispiratori morali e culturali, l’attuale impero iraniano governa più con la paura e l’intimidazione, più attraverso attentati suicidi che tramite i suoi poeti. Questo riduce il suo potere e al tempo stesso mostra la possibilità di un suo crollo.
Se si volesse individuare un singolo cardine del destino dell’Iran, questo sarebbe l’Iraq.
L’Iraq, come ci mostrano la storia e la geografia, è intrecciato all’Iran più di qualsiasi altro paese straniero. La moschea sciita dedicata all’imam Ali ( cugino e genero del Profeta) a Al Najaf e quella dell’imam Hussein (nipote del Profeta) a Karbala, entrambe nell’Iraq centro-meridionale, hanno comunità teologiche sciite che sfidano quella iraniana di Qom. Se la democrazia irachena mostrasse un minimo di stabilità, l’atmosfera intellettualmente più libera delle città sante irachene potrebbe avere un forte impatto sulla politica iraniana. In senso più ampio, un Iraq democratico può divenire un polo di attrazione, e i riformatori iraniani potrebbero trarne vantaggio. Mano a mano che gli Iraniani diventeranno più profondamente coinvolti nella politica irachena, la vicinanza fra i due paesi − che hanno un lungo confine comune − potrebbe contribuire a smussare gli aspetti più repressivi dei due sistemi. La politica iraniana verrebbe influenzata dall’interazione con una società pluralista, araba e sciita. Se la crisi economica iraniana continuerà gli Iraniani potrebbero non tollerare più che il loro governo spenda centinaia di milioni di dollari per comprare reti di influenza in Iraq, in Libano o altrove. E gli Iraniani potrebbero finire con l’essere odiati in Iraq, prendendo il posto dei “brutti Americani”. L’Iran vorrebbe semplicemente aizzare le fazioni sciite contro quelle sunnite, ma non può, perché restringerebbe l’universalismo islamico radicale − che l’Iran vuole rappresentare anche per il mondo sunnita − a una semplice setta priva di attrazione per i non sciiti. L’Iran potrebbe rimaner impantanato nel costruire deboli coalizioni tra sunniti e sciiti in Iraq, destinate a non funzionare, inducendo gli Iracheni a sviluppare sempre più odio per questa intrusione nei loro affari interni. Pur senza giustificare il modo in cui l’invasione dell’Iraq del 2003 fu progettata e realizzata, o motivare razionalmente le migliaia di milioni di dollari spesi e le centinaia di migliaia di vite perse nella guerra, bisogna dire che la caduta di Saddam Hussein potrebbe aver avviato un processo che prima o poi porterà alla liberazione di due paesi, non di uno solo. La stessa situazione geografica che ha facilitato l’ingerenza iraniana nella politica irachena potrebbe essere determinante nel permettere l’influenza irachena sull’Iran.
La prospettiva di un cambiamento – o evoluzione – di regime in Iran, anche se il Movimento Verde pare essere finito come una bolla di sapone, è molto più realistica di quanto non lo fosse per l’Unione Sovietica nel periodo della Guerra fredda. Un Iran liberato e governi meno autocratici nel mondo arabo – che potrebbero concentrarsi di più sulle questioni interne non avendo più immediati problemi di sicurezza – porterebbero a un più equo e fluido bilanciamento del potere tra i sunniti e gli sciiti in Medio Oriente, e questo aiuterebbe a tenere la regione occupata nelle dinamiche interne di potere, più che nei rapporti con l’America o Israele.
Un regime più liberale a Teheran si iscriverebbe nella più ampia scia culturale degli imperi persiani del passato, in una tradizione non certamente limitata al clero reazionario. Un Iran più liberale, comprendente grandi minoranze curde, azere, turkmene, può essere molto meno centralizzato e lasciare che le periferie etniche si allontanino dall’orbita di Teheran. L’Iran è stato un impero multinazionale più a lungo che un singolo stato coeso, e la sua vera taglia è contemporaneamente più grande e più piccola di quella delimitata dai confini attuali. Il nordovest dell’Iran attuale è curdo e azero turco, invece parti dell’Afghanistan occidentale e del Tagikistan sono culturalmente e linguisticamente compatibili con uno stato iraniano. È all’amorfismo dei Parti che l’Iran deve far ritorno, man mano che l’ondata di estremismo islamico e la legittimità del regime dei mullah vengono erose.
(traduzione di Valentina Viglione dall’originale in inglese, apparso su Stratfor il 29 agosto 2012)
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