Il carbone ha un’importanza vitale per l’economia cinese, ha alimentato il “miracolo industriale” degli ultimi trent’anni. In Cina i cambiamenti nella produzione e distribuzione del carbone − dalla decentralizzazione degli anni ’80 e ’90 all’attuale tendenza alla centralizzazione − riflettono e al tempo stesso determinano i cambiamenti del sistema politico.
Poiché le risorse delle regioni carbonifere tradizionali, quelle a nordest e nel centro del paese, stanno diminuendo, nell’ultimo decennio il grosso della produzione si è spostato verso ovest, nelle provincie interne scarsamente popolate di Mongolia, Ningxia, Gansu e Xinjiang. Questo ha reso cruciale - sia per le aziende carbonifere sia per la sicurezza energetica della Cina - l’espansione della rete ferroviaria. Lo conferma la strategia della Shenhua Energy Company, che sta trattando con il Ministero delle Ferrovie cinesi per investire circa 10 miliardi di yuan (1,6 miliardi di dollari) in progetti volti a migliorare i collegamenti tra aree di estrazione - Datong nello Shanxi, Ganqimadou, Zhungeer e l’enorme miniera di Tavan Tolgoi in Mongolia - e i porti sulla costa nord-orientale, Huanghua e Tianjin. Da qui il carbone può essere trasportato via mare alle città costiere del sud nel Guangdong e nelle province vicine, dove la domanda è elevata e le riserve locali sono limitate. Come la Shenhua anche la China Coal Energy Co. − altra grande impresa statale di estrazione − sta investendo in maniera ingente nell’espansione della rete ferroviaria e nello sviluppo dei porti; ciò le permette di mantenere il controllo su ogni fase del processo di estrazione e distribuzione, e favorisce la più ampia strategia del governo centrale per consolidare l’industria cinese del carbone – progetto molto complesso, se si considerano gli aspetti geografici, politici e economici.
Questa strategia va di pari passo con un’opera di forte centralizzazione delle società minerarie statali, che apparentemente presenta solo vantaggi. Le aziende estrattrici partecipano alla costruzione di più efficienti vie di trasporto e hanno accesso ai mercati meridionali via mare. Questo contribuisce a diminuire lo svantaggio della distanza tra le riserve di carbone e le regioni della costa, e l’intera nazione ne guadagna in accresciuta sicurezza energetica.
Tuttavia questa strategia solleva una serie di problemi, innanzitutto nei mercati internazionali. La Cina è di gran lunga il più grande mercato di carbone al mondo, pertanto − anche se le importazioni cinesi sono esigue rispetto alla produzione interna − è la domanda cinese a determinare i prezzi del carbone. Il suo rallentamento ha già influenzato pesantemente le operazioni di estrazione e le politiche di paesi come l’Indonesia e l’Australia, che dipendono dalla continua richiesta di carbone da parte delle regioni costiere della Cina.
Ma ancora più rilevante per Pechino sono le conseguenze politiche della centralizzazione dell’industria mineraria. Pechino ha fatto progressi significativi nel costruire economie di scala nell’industria del carbone, guidata da aziende in grado di estrarre e trasportare con efficienza il carbone dai giacimenti delle province occidentali. Ma questo va a scapito delle migliaia di compagnie minerarie di piccole dimensioni che costellano le province del nord e del nordest del paese, tradizionali fonti vitali di impiego e di guadagno per regioni che hanno poche altre possibilità. Nell’ordinare la chiusura di molte di queste aziende Pechino deve affrontare l’opposizione dei governi provinciali e locali, che hanno interesse a mantenerle aperte nonostante le conseguenze ambientali e le inefficienze economiche, perché assicurano la maggior parte delle loro entrate.
Mettendo in contrapposizione governo centrale e autorità locali e dunque rendendo ancora più profonde le spaccature nel sistema politico cinese, questo processo costringe la Cina ad affrontare la reviviscenza delle grandi tensioni – tra efficienza e impiego, crescita e stabilità, zone costiere e zone interne − che hanno sempre caratterizzato la sua storia.
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