In considerazione della guerra contro il jihad globale, da gruppi terroristici aggregati, dei terroristi individuali e degli aderenti clandestini, dovremmo chiederci se esista un unico metodo o atteggiamento nel loro modo di farci guerra. Esiste una filosofia o un saggio come quello di Clausewitz che cerca di plasmare il loro pensiero bellico? Esiste un documento che possa essere esaminato e compreso in modo tale da consentirci di iniziare a pensare strategicamente dei nostri avversari? Esiste un'opera di spicco fra quelle dedicate alla guerra nella cultura islamica?
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La concezione coranica della guerra, Joseph C. Myers ci aiuta a entrare a fondo nella mentalità dei guerrieri islamisti.
La concezione coranica della guerra di JOSEPH C. MYERS
www.carlisle.army.mil/usawc/Parameters/06winter/win-ess.htm
La concezione coranica della guerra del generale di brigata dell’esercito pakistano S. K. Malik fornisce ai lettori spunti senza eguali. Pubblicato originariamente in Pakistan nel 1979, la maggior parte delle copie disponibili del libro sono reperibili in India o in piccole e insignificanti librerie mussulmane. Uno dei maggiori aspetti da considerare pensando a questo libro è il titolo stesso. Si presuppone che il Corano sia la parola di Dio rivelata ed espressa al suo profeta scelto, Maometto. Secondo Malik, il Corano presenta dottrine belliche e una propria teoria all’interno di una categoria molto differente rispetto a quelle cui sono abituati i pensatori occidentali, perché non è una teoria della guerra prodotta dall’uomo, ma da Dio. Si tratta di principi e di comandamenti bellici rivelati da Dio. Malik cerca di infondere la dottrina divina della guerra attraverso gli esempi del profeta. Di contro, la maggior prossimità di Clausewitz con la rappresentazione divina si ha nella sua discussione della trinità: il popolo, lo stato e l’esercito. Nel contesto islamico, la discussione sulla guerra si trova a un livello di verità ed esempio rivelati ben oltre la semplice teoria: Dio non ha bisogno di teorizzare. Malik osserva che, “in qualità di codice completo di vita, il Sacro Corano ci fornisce anche una filosofia della guerra. […] Questa filosofia divina è parte integrante dell’ideologia coranica”.
Storiografia
In questo libro Malik cerca di istruire i lettori sui soli aspetti dottrinari rilevanti delle operazioni belliche coraniche. L’approccio coranico alla guerra è “infinitamente supremo ed efficace […] [e] punta alla realizzazione della pace e della giustizia universali […] e fa grande affidamento sui suoi avversari per cooperare [con l’Islam] in una ricerca congiunta dell’ordine giusto e pacifico”. Il termine “dottrina” si riferisce sia agli approcci religiosi, sia a quelli esplicitamente strategici, non ai metodi e alle procedure belliche. L’opera di Malik è un trattato dotato di ramificazioni storiche, politiche, legaliste e moraliste sulle operazioni militari islamiche. Apparentemente, è senza eguali nel senso occidentale di operazioni militari, dato che il “Corano è fonte di eterno consiglio per l’umanità”.
L’approccio non è nuovo per gli islamisti e altri terroristi jihadisti che combattono secondo il “metodo di Maometto” o hadith (tradizione), che sono una parte consistente delle surah coraniche e della cultura degli jihadisti. Gli studiosi islamici mussulmani non avranno molto da discutere sulla visione della dottrina jihadica e delle operazioni militari coraniche esposta dall’autore. Questo libro è frutto di una cultura essenzialmente moderna, anche se dà spazio in molte sue parti ai punti di vista classici del jihad.
Gli argomenti di Malik sono chiaramente limitati, assai più editoriali che eruditi, e il suo tono è decisamente presuntuoso e talora assertore della supremazia islamica. Il raggio d’azione e l’influenza del libro non sono chiari, anche se è ipotizzabile che, dati l’idealismo del saggio, i suoi modi di considerare la guerra e il ruolo e gli scopi del “terrore”, il suo testo possa essere compreso da estremisti e radicali intenti a usare la violenza terroristica per il conseguimento dei loro obiettivi. Anche solo per questo motivo, il libro è degno di essere studiato.
Introduzione
La prefazione di Allah Bukhsh K. Brohi, ex ambasciatore pakistano in India, fornisce importanti spunti all’esposizione di Malik. Tanto è vero che la prefazione di Brohi getta le basi dei dieci capitoli del libro. Malik colloca le operazioni militari coraniche in un contesto accademico prossimo a quello usato dai teorici occidentali. Egli analizza le cause e gli obiettivi della guerra, nonché la sua natura e le sue dimensioni. Poi rivolge la sua attenzione all’etica e alla strategia delle operazioni militari. Verso la fine del libro critica l’uso delle operazioni militari coraniche basate sugli esempi delle campagne militari del Profeta Maometto e conclude con osservazioni riassuntive. Ci sono importanti implicazioni verso lo jus in bellum e lo jus ad bellum nelle parole dell’autore, nonché nelle sue discusse considerazioni riguardanti i mezzi e gli obiettivi della guerra. Sono questi concetti ad attrarre l’attenzione dei pianificatori e dello stratega.
Zia-Ul-Haq (1924-88), ex presidente del Pakistan ed ex capo di stato maggiore dell’esercito pakistano, apre il libro concentrandosi sul concetto di jihad nell’Islam e spiegando che non è semplicemente una sfera di competenza dell’esercito: Jehad fi sabilallah non è di dominio esclusivo del soldato professionale, né è limitata unicamente all’applicazione della forza militare.
Questo libro porta alla luce con semplicità, chiarezza e precisione la filosofia coranica in tema di applicazione della forza militare nel contesto globale, cioè il Jihad. Il soldato professionale di un esercito mussulmano, che persegue i fini di uno stato mussulmano, non può diventare “professionale” se, in tutte le sue attività, non porta l’“insegna di Allah”. Anche un civile di uno stato mussulmano deve essere consapevole del genere di soldato che può produrre il suo paese e del solo modello di guerra che le forze armate del suo paese possono intraprendere.
Il generale Zia afferma che tutti i mussulmani hanno un ruolo nel jihad, un concetto coranico di primo piano, secondo cui il jihad declinato bellicamente è responsabilità collettiva della ummah mussulmana, e non riguarda soltanto i soldati. Il generale Zia enfatizza come il concetto di professionismo militare islamico richieda “carattere religioso” per essere realizzato in pieno. Zia sostiene poi la tesi di Malik circa “l’unico modello di guerra” o di approccio alla guerra che può intraprendere uno stato islamico.
Combattendo le forze di contrarie all’iniziazione
Nella prefazione, l’ambasciatore Brohi spiega un aspetto che potrebbe sorprende molti lettori. Dichiara che Malik ha reso “un prezioso contributo alla giurisprudenza islamica” o al diritto islamico, e “un’analitica riaffermazione della saggezza coranica in tema di guerra e di pace”. Brohi vuol dire che la discussione di Malik, per quanto nelle vesti di una preziosa nuova edizione, è un approccio a un tema già ben sviluppato nella tradizione islamica.
Successivamente Brohi definisce jihad: “La parola più gloriosa nel vocabolario dell’Islam è Jihad, una parola intraducibile in inglese, ma che, in senso ampio, significa ‘sforzo’, ‘lotta’, ‘tentativo’ di promuovere le cause e gli scopi divini”. Egli introduce un concetto per certi versi criptico quando spiega il ruolo dell’uomo in uno “scenario coranico” come energicamente in lotta contro le forze del male o quelle che possiamo definire forze “contrarie all’iniziazione”, che sono in guerra con l’armonia e lo scopo della vita terrena. Per il vero musulmano, l’armonia e lo scopo della vita sono possibili soltanto attraverso la definitiva sottomissione dell’uomo alla volontà di Dio, in modo che tutta la volontà riesca a conoscere, accettare e professare Maometto quale profeta di Dio. Bisogna accettare i giorni del giudizio e riconoscere la tawhid, l’unicità di Dio.
Brohi enumera i classici dualismi della teologia islamica, secondo cui il mondo è teatro di lotta fra bene e male, fra giusto e sbagliato, fra Haq e Na-Haq (verità e non-verità), e tra halal e haram (legittimo e proibito). Secondo Brohi, è dovere dell’uomo scegliere la bontà e respingere il male. Brohi fa appello al “nobile jihad”, una dottrina del jihad post-classica sviluppata dall’ordine mistico sufi e da altri dotti sciiti.
Brohi colloca il jihad nel contesto del vincolo comunitario, se non imperiale; si tratta di espressioni controverse:
Quando un credente osserva che qualcuno sta cercando di ostacolare un altro credente che percorre la strada che porta a Dio, lo spirito del Jihad esige che quest’uomo che sta frapponendo ostacoli debba essere ostacolato nel suo disegno e che gli ostacoli debbano essere rimossi, in modo tale che l’umanità possa essere liberamente in grado di intraprendere il suo cammino diretto in Paradiso”. In altri termini, “non sforzandosi di chiarire o di sistemare il percorso, noi [musulmani] diventiamo spettatori passivi delle forze della contro-iniziazione imponendo un blocco nella via di coloro che intendono custodire la loro fede in Dio”.
Questo punto di vista sembra riflettere il classico dovere collettivo, insito nella dottrina del jihad, di difendere la comunità islamica dalle minacce (il concetto di jihad difensivo). Brohi sta dicendo qualcosa di più; ma sta anche cercando di delineare il dovere – il dovere attivo – di sgombrare il sentiero dell’Islam. È necessario non soltanto difendere il singolo credente, se è ostacolato nella sua fede, ma anche rimuovere gli ostacoli di quelle forze contrarie all’iniziazione che impediscono la sua crescita islamica. Questo permette di chiederci cosa si intenda effettivamente per forze d’iniziazione. La risposta è chiara per Brohi; la forza d’iniziazione è l’Islam e i suoi membri musulmani. “È dovere di un credente portare avanti il Messaggio di Dio e portarlo all’attenzione dei suoi simili in modi gentili. Ma se qualcuno cerca di impedirglielo, lui ha diritto di rappresaglia per scopi difensivi”.
Questa espressione sembrerebbe rivoltare da capo a piedi il concetto di auto- difesa. Un musulmano può proclamare l’Islam e fare proseliti, o l’Islam, come fede, cerca di estendere il suo invito e il suo raggio d’azione – intraprende il suo cammino – ma non può farlo. Poichè tutto questo rappresenta una minaccia dichiarata che giustifica un jihad difensivo. Secondo Brohi, questo non determina le “solite guerre che l’umanità ha combattuto per ragioni di vendetta o sicurezza […] di più terra o più bottino […] [questo] sforzo deve avvenire [è] a vantaggio di Dio. Le guerre nella teoria dell’Islam sono […] a vantaggio degli obiettivi di Dio in terra, e immancabilmente sono di carattere difensivo”. In altri termini, ovunque il messaggio di Dio e dell’Islam sia o possa essere ostacolato nella sua esposizione, respinto o contrastato da qualche “ostacolo” (termine non chiaramente definito), l’Islam ha naturalmente il diritto di difendere il suo destino manifesto.
Mentre la sua logica è discutibile, Brohi non è solo nelle sue estrapolazioni. Di fatto, la sua teoria riflette l’argomento di Rashid Rida, discepolo conservatore dell’egiziano Muhammad Abduh. Nel 1913 quest’ultimo pubblicò un articolo che valutava le prime campagne militari dell’Islam e stabiliva che i vicini più prossimi dell’Islam “impedivano la proclamazione della verità” provocando la difesa dell’Islam. “La nostra religione non è simile alle altre che si difendono […] ma la nostra difesa della religione è la proclamazione della verità e la rimozione della distorsione e del suo travisamento”.
Nessuna nazione è sovrana
L’esegesi del termine jihad è spesso discussa. Alcuni apologeti spiegano che nel Corano non ricorre mai il termine “guerra santa”; il che è vero, ma anche irrilevante. La guerra nell’Islam è sia giusta, sia ingiusta, e la giustezza dipende dai fini di tale conflitto. Brohi e Malik spiegano che lo scopo della guerra nell’Islam è quello di realizzare la volontà di Dio. Non soltanto tale scopo dovrebbe essere santo, ma anche la guerra deve essere giusta per essere “guerra santa”.
Il dualismo successivo che Brohi presenta è quello di Dar al-Islam e Dar al- Harb, la casa della sottomissione e quella della guerra. Egli descrive quest’ultima come “eterna sfida del Signore”. Mentre spiega che le condizioni per una guerra nell’Islam sono limitate (enumera una serie precisa di circostanze), l’autore osserva che, “nell’Islam, la guerra è intrapresa per stabilire la supremazia di Dio soltanto quando ogni altro argomento non è riuscito a convincere coloro che rigettano la Sua volontà e agiscono contro l’obiettivo stesso della creazione dell’umanità”. Brohi cita la Surah manoscritta coranica, al-Tawba:
Combatti coloro che non credono in Allah o nel Giorno del Giudizio, non sostengono tutto ciò che è proibito secondo Allah e il Suo Messaggero, non riconoscono la religione della Verità, (anche se sono) del Popolo del Libro, finché non pagano la Jizya con la loro sottomissione volontaria e si sentono sottomessi.
Dando ragione ai critici occidentali sostenitori di un Islam in perenne stato di lotta con il mondo non-islamico, Brohi replica con tono chiaramente dimesso spiegando che l’uomo è schiavo di Dio, e che la sfida a Dio è tradimento secondo la legge islamica. Coloro che sfidano Dio dovrebbero essere rimossi dall’umanità come un tumore canceroso. L’Islam esige che i credenti “invitino i non-credenti all’ovile dell’Islam” usando “la persuasione” e “metodi magnifici”. Egli sostiene anche che il “primo dovere” di un musulmano è la dawa, la proclamazione della conversione con “modi gentili”. È soltanto dopo il rifiuto della dawa e dell’invito all’Islam che i “credenti non hanno altra scelta se non quella di intraprendere una guerra difensiva contro coloro che minacciano l’aggressione”.
Naturalmente, molto dipende da come si presentano le minacce e l’aggressione. Risulta difficile da capire, in base alla struttura del suo argomento, come Brohi consideri i non-credenti e le condizioni necessarie alla loro conversione con mezzi pacifici; e, ove necessario, con la forza. Qui riecheggia la dottrina di Abd al-Salam Faraj, autore di Al-Farida al-Ghaibah, meglio noto come Il dovere trascurato, opera ampiamente letta in tutto il mondo mussulmano.
Infine, Brohi esamina il concetto della ummah e del sistema internazionale. “L’idea di Ummah di Maometto, il Profeta dell’Islam, non può realizzarsi nella struttura di stati territoriali”. Si tratta di un’opinione costante che puntella molte opere dedicate al concetto di stato islamico. Per i mussulmani, la ummah è una società religiosa e culturale trascendente unitaria, che riflette l’unità (tawhid) dell’Islam; l’idea di un Dio unico, indivisibile, di una comunità, di un credo e di un dovere di vivere per diventare religiosi. Secondo il Profeta, “La ummah partecipa a questo patrimonio con una serie di modelli di pensiero, di credenze e di pratiche […] e fornisce il principio spirituale d’integrazione dell’umanità – un principio sovra-nazionale, sovra-razziale, sovra-linguistico e sovra-territoriale”.
Per quanto riguarda il “diritto di guerra e di pace nell’Islam”, Brohi scrive che è “vecchio come il Corano stesso […]”. Nella sua analisi del diritto delle nazioni e dei loro rapporti internazionali, egli enfatizza che, “nel diritto internazionale islamico, questa condotta [di guerra e di pace] è, a rigore, regolata fra mussulmani e non-mussulmani, non essendovi altra nazione dal punto di vista mussulmano”. In altre parole, la guerra è tra mussulmani e non-mussulmani e non realmente fra stati. È transnazionale. Brohi aggiunge che, “nell’Islam, naturalmente, nessuna nazione è sovrana, poiché Allah soltanto è l’unico sovrano Che conferisce autorità”. Qui Brohi si rifà a ciò che studiosi islamici come Majid Khadurri hanno descritto come il “dualismo della religione universale e dello stato universale rappresentato dall’Islam”.
La filosofia divina sulla guerra
Il generale Malik inizia dividendo gli esseri umani in tre archetipi: coloro che temono Allah e professano la fede; coloro che respingono la Fede; e coloro che la professano, ma sono infidi nei loro cuori. Vanno studiati gli esempi del Profeta e le istruzioni impartiteli da Dio nelle sue prime campagne per comprendere praticamente questi tre esempi. L’autore evidenzia come “la filosofia divina sulla guerra” sia stata rivelata gradualmente lungo un periodo di 12 anni; la sua prima regola riguardava le cause e gli obiettivi della guerra, mentre l’ultima si focalizzava sulla strategia coranica, sulla condotta della guerra e sulle dimensioni etiche delle operazioni militari.
Nel capitolo 3, Malik critica numerosi pensieri-chiave esposti dagli studiosi occidentali in materia di cause della guerra. Egli esamina le ideologie di Lenin, di Geoffrey Blainey, di Quincy Wright e di Frederich H. Hartman, ognuno dei quali si espresse sulla guerra in un contesto storico e fisico inerente alla natura del sistema statuale. Malik ritiene carenti queste spiegazioni e si rivolge al Corano per la spiegazione: “la guerra potrebbe essere intrapresa a scopo di giustizia, verità, diritto e preservazione della società umana. […] Il tema centrale dietro le cause della guerra […] [nel] Sacro Corano è la causa di Allah”.
L’autore descrive il susseguirsi delle rivelazioni divine al Profeta, che “diedero ai mussulmani il permesso di combattere”. Alla fine, Dio costringerebbe e ordinerebbe ai mussulmani di combattere: “Combatti per la causa di Allah”. Nella sua analisi di questa surah, Malik evidenzia come siano stati aggiunti “nuovi elementi alle cause della guerra: per combattere, i mussulmani devono essere “anzitutto combattuti”; non devono “trasgredire i limiti di Dio” nella condotta della guerra; e tutti dovrebbero comprendere che Dio ritiene “la rivolta e l’oppressione” dei mussulmani “peggiori della morte violenta”. Questa oppressione era esemplificata dal rifiuto del diritto dei mussulmani al culto nella Sacra Moschea da parte dei primi arabi koraish, che popolavano La Mecca. Malik descrive questa situazione in dettaglio: “[…] la minuscola comunità mussulmana di La Mecca era oggetto della tirannia e dell’oppressione dei koraish sino alla proclamazione dell’Islam. […] La repressione nemica raggiunse il culmine quando i koraish negarono ai mussulmani l’accesso alla Moschea Sacra (la Ka’aba) per adempiere ai loro obblighi religiosi. Quest’atto sacrilego equivalse a un’aperta dichiarazione di guerra all’Islam. Alla fine, queste azioni costrinsero i mussulmani a emigrare a Medina dodici anni dopo, nel 622 d.C.”.
Malik sostiene che la tribù pagana koraish non avesse alcuna ragione di proibire il culto mussulmano, dato che i mussulmani non ostacolavano la loro forma di culto. Questo esempio storico ci aiuta a definire meglio il concetto che “la rivolta e l’oppressione sono peggiori della morte violenta” e che, come il Corano insegna, “agli occhi di Allah è più grave impedire l’accesso al Suo sentiero, negarLo e impedire l’accesso alla Sacra Moschea e scacciare i suoi membri”. Malik osserva anche che il Corano distingue coloro che combattono “per la causa di Allah e coloro che respingono la Fede e lottano per la causa del male”. In base alla teoria della guerra giusta coranica, la guerra va intrapresa “soltanto per combattere le forze della tirannia e dell’oppressione”.
Sfidando la nozione di Clausewitz che la “politica” fornisca il contesto e il limite della guerra, Malik afferma esattamente il contrario: “la guerra costrinse la politica a definire e a delimitare i suoi parametri”; e, dato che quella discussione si focalizza su problemi limitati come gli interessi nazionali e le diverse relazioni inter-statali, si tratta di una prospettiva minoritaria. Nel contesto divino del Corano, la guerra è diretta alla diffusione della “giustizia e della fede in Allah insieme e dovunque”. Secondo l’autore, la guerra va combattuta in modo aggressivo, la morte violenta non essendo il male peggiore. Nel corso della guerra dovrebbe essere perseguita e ricambiata ogni opportunità di pace. Questo si riferisce a ogni richiesta di pace da parte dei nemici dell’Islam, ma soltanto se descritta dalla “filosofia e metodologia ben delineate” del Corano per preservare la pace.
È importante comprendere il contesto in cui il Corano definisce e descrive la “pace e la giustizia”. Malik rinvia il lettore alla battaglia di Badr per spiegare questi principi. Vi è la pace con quei pagani che cessano l’ostilità, mentre la guerra continua con coloro che la rifiutano. Egli cita la seguente surah: “finché questo è vero per te, lo è per gli altri, perché Allah ama il giusto”. Riferendosi allo scenario precedente il trattato di Hodaibayya nell’anno nono della hijra (“volo”), o ai pellegrinaggi a La Mecca, Malik sottolinea come Allah e il profeta abbiano abrogato quei trattati con i pagani abitanti di La Mecca.
Furono rispettati solo i pagani che accettarono volontariamente le condizioni senza trattato. Coloro che si rifiutano, intima il Corano, vanno uccisi dovunque succeda. Questo precedente e le “rivelazioni comandavano ai mussulmani di adempire ai loro impegni del trattato per il periodo stabilito, ma non li obbligavano a rinnovarlo”. È anche stabilito il precedente che i mussulmani possano concludere trattati con non-credenti, ma solo per un periodo temporaneo. Commentando gli approcci occidentali alla pace, Malik ritiene che essi non superino “l’esame del tempo”, privi come sono di una rilevanza futura. Il punto di vista dell’autore è che la pace fra stati ha soltanto fini secolari, non divini; e la pace in un contesto islamico è pattuita soltanto per la promozione dell’Islam.
Quando il Profeta prese il controllo della Mecca, decretò che i non-credenti potessero radunarsi o fare la guardia alla Sacra Moschea. In seguito consolidò il suo potere sull’Arabia e molti che non avevano ancora accettato l’Islam, “inclusi cristiani ed ebrei, poterono scegliere fra la guerra e la sottomissione”. A questi non-credenti era richiesto il pagamento di un testatico o jizya e l’accettazione dello stato di dhimmitudine [servitù all’Islam] per continuare a praticare la loro fede. Secondo Malik, le tasse erano soltanto simboliche e insignificanti. In sintesi, l’autore sostiene che “l’obiettivo della guerra è quello di ottenere condizioni di pace, giustizia e fede. Per questo è essenziale distruggere le forze oppressive e persecutrici”. Questo punto di vista è in linea con quello sottolineato da Khadduri: “La jihad, va ribadito, riguardava la guerra come strumento dell’Islam per trasformare il dar al-harb in dar ar-Islam [….] nella teoria giuridica islamica, l’obiettivo finale dell’Islam non è la guerra per sé, ma lo stabilimento definitivo della pace”.
La natura della guerra
Malik sostiene che la “natura e la dimensione della guerra” siano le principali caratteristiche che distinguono le operazioni militari coraniche da tutte le altre dottrine. Egli riconosce il contributo di Clausewitz alla comprensione delle operazioni militari nel suo contesto morale e spirituale. Le forze morali della guerra, come affermò Clausewitz, sono forse gli aspetti più importanti del conflitto armato. Ribadendo che ai mussulmani è richiesto di intraprendere la guerra “con lo spirito del dovere e dell’obbligo religioso”, l’autore chiarisce che, in cambio della lotta in nome di Allah, sarà resa l’assistenza angelica e divina ai combattenti e agli eserciti jihadisti. A questo punto, Il concetto coranico della guerra si sposta dal piano metafisico a quello sovrannaturale, diversamente da qualsiasi esempio occidentale. Malik sottolinea che l’assistenza divina esige “standard divini” da parte del guerriero mujahideen per la promessa di ottenere l’aiuto di Allah.
In seguito, l’autore si basa sul ruolo del guerriero jihadista nei confronti della causa, del fine e del supporto divini, sostenendo che, affinché sia senza eguali, sia il più coraggioso e il più impavido, il guerriero deve dotarsi di una corretta preparazione spirituale, partendo dalla totale sottomissione alla volontà di Dio. Il Corano rivela che le forze morali sono “i reali problemi della programmazione e della condotta bellica”. Malik cita il Corano: “Il combattimento ti è prescritto […] e non devi approvare qualcosa che è buono per te e amare ciò che è male. Ma Allah lo sa e tu no”.
Il Corano istruisce il guerriero jihadista affinché “combatta […] con totale devozione e non contempli mai un combattimento sul campo di battaglia per paura della morte”. Il guerriero jihadista, che muore per Allah, non muore veramente, ma rivive in paradiso. Malik enfatizza quest’aspetto in parecchi versi coranici. “Non pensare a coloro che sono uccisi per Allah come a dei morti. […] No, loro vivono trovando sostentamento nella Presenza del Signore”. Malik osserva anche che “Quei credenti non sono uguali. […] Allah ha concesso un grado superiore a coloro che si sforzano di combattere […]”.
Le dimensioni coraniche della guerra sono “rivoluzionarie”, dato che conferiscono al guerriero jihadista una “personalità così forte e senza eguali, capace quasi di dominare ogni contingenza bellica”. Il tema della preparazione spirituale della pura fede è apparso nei prolifici scritti jihadisti di Usaman Dan Fodio nei primi anni del secolo XIX ed è stato ripetuto dallo scrittore saudita Abdallah al-Qadiri nel 1992. Entrambi sottolineano il ruolo del “nobile jihad”. Chi diventa un mussulmano più puro e disciplinato serve la causa dell’Islam meglio in pace e in guerra.
Malik, come Brohi, non nega che l’Islam si sia “diffuso con la spada”, ma risponde ai critici che l’Islam si è diffuso in guerra con disciplina e che, “nell’uso della forza, non ha paralleli”. Poi sostiene che la disciplina nelle operazioni belliche è un affare a due facce”. Mentre il nemico (indefinito) non riesce a esercitare la disciplina e commette “eccessi” (indefiniti), “la stessa ingiunzione di preservare e promuovere la pace e la giustizia esige l’uso della forza limitata. […] L’Islam permette l’uso della spada per tali scopi”. Poiché Malik sta parlando nel contesto della guerra attiva e reagisce agli “eccessi della guerra”, non è chiaro ciò che intende per “forza limitata” o reazione.
L’autore si dilunga sulle idee iniziali che le forze morali e spirituali sono prevalenti in guerra. Egli contrasta gli approcci strategici islamici con le teorie occidentali delle operazioni belliche orientate all’applicazione della forza, principalmente nel dominio militare, in quanto opposte all’Islam, dove il fulcro risiede in un’applicazione più ampia della potenza. La potenza, nel contesto di Malik, è quella del jihad, che è totale, sia nella condotta della guerra, sia nella strategia di sostegno; la chiama “strategia totale o grandiosa”. Malik fornisce la seguente definizione: “Jehad è una lotta continua e infinita intrapresa su tutti i fronti, inclusi quelli politico, economico, sociale, politico-interno, morale e spirituale per ottenere gli obiettivi della politica”. La potenza della jihad porta con sé quella di Dio.
Quindi, il concetto coranico di strategia è una teoria divina. Gli esempi e le lezioni da trarne possono trovarsi nello studio dei classici, ispirati a eventi come le battaglie del Profeta, per esempio Badr, Khandaq, Tabuk e Hudaibiyya. Malik si riferisce nuovamente all’assistenza divina di Allah e all’aiuto degli ospiti angelici. Si riferisce alle battaglie di Hunain e di Ohad come esempi in cui, apparentemente, la sconfitta è stata capovolta e Allah “inviò giù in terra la Tranquillità nei cuori dei credenti, che può aggiungere Fede alla loro Fede”. Malik sostiene che la divina provvidenza indurisce il jihadi in guerra, “rafforza i cuori dei Credenti”. La Serenità della fede, “la fiducia, la speranza e la tranquillità” di fronte al pericolo è lo standard divino.
Infondi il terrore nei loro Cuori
Malik ricorre ad alcuni esempi per dimostrare che Allah infonderà “il terrore nei cuori dei Non-credenti”. A questo punto amplia la sua teoria coranica più controversa e congetturale in relazione alle operazioni belliche: il ruolo del terrore. I lettori devono capire che l’autore sta pensando e scrivendo in termini strategici, non nel linguaggio canonico delle battaglie e degli scontri militari. Malik continua: “quando Dio desidera imporre la Sua volontà sui nemici, sceglie di farlo gettando il terrore nei loro cuori”. Egli cita un altro verso: “contro di loro tendi la tua forza sino all’estremo della tua potenza, includendo i destrieri della guerra, per infondere il terrore nei (cuori) dei nemici di Allah […]”. La sintesi strategica di Allah è specifica: “la strategia militare coranica vieta di prepararci alla guerra sino al massimo delle forze per infondere il terrore nei cuori dei nemici, noti o nascosti, proteggendoci dall’essere colpiti dal terrore dai nemici”. Il terrore è un effetto; la conclusione di questa condizione.
Malik identifica il centro di gravità della guerra nel “corpo umano, nell’animo [dell’uomo], nello spirito e nella Fede”. Badate bene che la Fede è capitalizzata, significa più che semplice coraggio morale o fortezza. La Fede in questo senso è nel dominio della fede religiosa e spirituale; questo è il centro di gravità della guerra. L’arma principale contro questo concetto islamico è “la forza delle nostre anime […] [che tengono] il terrore lontano dai loro cuori”. Per realizzare le decisioni determinanti e operative capaci di adottare questo cambiamento bellico bisogna anzitutto “creare un sano rispetto per la nostra Causa” – la causa dell’Islam. Questo “rispetto” deve essere designato in anticipo della guerra e del conflitto nelle menti dei nemici. Malik introduce i concetti di manovra informativa, psicologica e percettiva delle operazioni belliche. Riecheggiando Sun Tzu, egli afferma che, se adeguatamente preparata, la “guerra muscolare”, la guerra fisica sarà già vinta dalla “guerra di volontà”. Perciò il rispetto è ottenuto psicologicamente dalla “bellezza” e dai “modi gentili” o dall’applicazione strategica del terrore – come ha suggerito prima Brohi.
Esaminando il tema dello scenario preparatorio della guerra, Malik parla di “guerra di preparazione da intraprendere […] in pace”, cioè che le attività preparatorie in tempo di pace sono di fatto parte di ogni guerra e “decisamente più importanti della guerra guerreggiata”. Quest’affermazione non dovrebbe essere presa alla leggera; significa in sostanza che l’Islam è in perpetuo stato di guerra, mentre la pace può essere definita soltanto come l’assenza di guerra guerreggiata. Malik sostiene che gli sforzi preparatori in tempo di pace dovrebbero essere orientati alle guerre combattute future, per sviluppare la Volontà coranica e divina nel mujahid. Quando gli eserciti e i soldati posseggono limitate risorse fisiche, dovrebbero continuare a enfatizzare lo sviluppo delle “risorse spirituali”, che sono fattori favorevoli capaci di creare sinergia con l’azione militare futura.
L’affermazione più controversa di Malik è sintetizzata in questo modo: in guerra, “il punto in cui mezzi e fini s’incontrano” è il terrore. Egli concepisce il terrore come obiettivo principale della guerra; una volta ottenuto il terrore, il nemico raggiunge il suo punto culminante. “Il terrore non è un mezzo per imporre una decisione sul nemico; è la decisione che vogliamo imporre […]”. Il bene principale divino delle operazioni belliche di Malik può essere riesposto come “infondi loro terrore; non sentirlo mai”. L’obiettivo finale di queste forme di operazioni belliche “ruota intorno al cuore umano, l’animo, lo spirito e la Fede [dei nemici]”. Il terrore “può essere instillato soltanto se la Fede dell’avversario è distrutta. […] È essenziale, nell’analisi finale, disturbare la Fede [dei nemici]”. Coloro che sono fermi nella loro convinzione religiosa sono immuni al terrore, “una Fede debole fornisce scorrerie al terrore”. Perciò, come parte delle preparazioni alla jihad, le azioni saranno orientate a indebolire la “Fede” dei non-Islamici, rafforzando quella degli Islamici. Ambiguo resta nella pratica ciò che crea l’indebolimento o il “disturbo”. Malik conclude: “Il disturbo psicologico è temporaneo; il disturbo spirituale è permanente”. L’animo dell’uomo può essere toccato soltanto dal terrore”.
Poi Malik si sposta su una discussione più accademica di dieci categorie generali riguardanti la condotta delle operazioni belliche islamiche. Queste categorie sono facilmente traducibili e riconoscibili alla maggior parte dei teorici occidentali; pianificazione, organizzazione e condotta delle operazioni militari. A questo riguardo, l’autore non offre spunti straordinari. Il suo capitolo conclusivo ribadisce le conclusioni principali, sottolineando che “Il Sacro Corano pone maggiore enfasi sulla preparazione alla guerra. Vuole prepararci al meglio alla guerra. La prova […] consiste nella nostra capacità di instillare il terrore nei cuori dei nostri nemici”.
Valutazione del concetto coranico di guerra
Mentre il raggio d'azione della tesi di Malik non può essere valutata nel mondo islamico, non va nemmeno ignorato. Per quanto controverse, le sue citazioni sono accuratamente estratte dalle fonti islamiche e trovano riscontro nella classica giurisprudenza islamica. Come nota l’autore, “il pensiero militare islamico è parte integrante e inseparabile di tutto il messaggio coranico”. I pianificatori e gli strateghi politici che si sforzano di comprendere la natura della “Lunga Guerra” dovrebbero considerare lo scritto di Malik in questa luce.
Malik chiarisce che il Corano fornisce la dottrina, la guida e gli esempi per la condotta delle operazioni belliche coraniche e islamiche. “Ci dà una strategia di guerra che penetra in profondità per distruggere la fede degli avversari e per rendere le loro facoltà fisiche e mentali del tutto inefficaci”. La tesi di Malik si concentra sul fatto che la ragione principale per studiare il Corano è quella di ottenere una migliore comprensione di questi concetti e intuizioni. Il Profeta Maometto, come attesta il Corano, cambiò l’intento e l’obiettivo della guerra – sollevando la sfera della guerra su di un piano e uno scopo divini; la proclamazione e diffusione globali dell’Islam. Naturalmente, questo cancella la visione politica clausewitziana e la diade politica: la guerra non è semplicemente la politica dello stato.
Le operazioni belliche coraniche sono “guerra giusta”: è jus in bellum e jus ad bellum se combattuta “in nome di Allah” per scopi divini e fini islamici. Questo contraddice la filosofia occidentale alla base della teoria della giusta guerra. Un’altra importante implicazione è che la jihad consiste in una serie ininterrotta di pace e guerra. Essa è costante e copre lo spettro che va dalla grande strategia alla fase tattica; da quella collettiva a quella individuale; da quella preparatoria a quella esecutiva della guerra.
Malik sottolinea il fatto che la preservazione della vita non è lo scopo finale o il bene principale delle operazioni belliche coraniche. La mèta desiderata è quella di porre fine alla “ribellione e all'oppressione”, di ottenere attraverso la jihad gli obiettivi di guerra dell’Islam. La morte in questa causa porta il mujahid direttamente alla ricompensa paradisiaca; il sacrificio è sacro. Ne consegue naturalmente che la morte non è temuta in tali operazioni belliche ; invero, la “tranquillità” comporta l’aiuto e l’assistenza divini . La “base” della strategia militare coranica è la preparazione spirituale e la “protezione di se stessi dal terrore”. I lettori possono supporre che i campi d’addestramento di al Qaeda (La Base) siano stati progettati per la preparazione spirituale come militare. Va solo ribadito l’esempio dei preparativi all’“ultima notte” di Mohammed Atta.
Il campo di battaglia della guerra coranica è l’animo umano – è una guerra religiosa. Il suo obiettivo è quello di disturbare e di distruggere la “Fede” [religiosa] del nemico. Esso è in armonia con gli obiettivi di al Qaeda e di altre organizzazioni radicali islamiche. “Le guerre nella teoria islamica servono […] a far avanzare gli scopi di Dio in terra e, inevitabilmente, sono di carattere difensivo”. I trattati di pace sono teoricamente temporanei, protocolli pragmatici. Questo studio riconosce il destino manifesto dell’Islam e il modo per conseguirlo.
La tesi del generale Malik può essere fondamentalmente descritta come “l’Islam è la risposta”. Egli giustifica la guerra e la rivitalizzazione dell’Islam. Si tratta è di un’esegesi guerriera del Corano. Come altri moderni islamismi, Malik è fondamentalmente romantico. Si focalizza sul Corano per la jihad, una dottrina che rievoca alla memoria i tempi del Profeta e del periodo classico- jihadista quando l’Islam godeva delle campagne militari più fortunate e di una rapida crescita.
Il contenuto metafisico del libro confina col soprannaturale e disegna “attese garantite” che non possono essere valutate e comprovate nell’arena dell’esperienza miliare. Il fatto d'incorporare “l’intervento divino” nelle campagne militari, se può essere vantaggioso, non può essere calcolato quale evidente moltiplicatore della forza. I critici possono anche appellarsi all’aspetto astorico della tesi di Malik; che l’Islam sia in uno stato di lotta costante col mondo non-Islamico. Ci sono esempi di eserciti mussulmani che servono fianco a fianco con quelli cristiani in combattimento e le campagne militari sono numerose, come dimostra il recente caso iracheno.
La valutazione di Malik del Corano come fonte di rivelazione divina per la vittoria bellica può anche essere criticata dal punto di vista storico. Se essa fosse stata del tutto vera e operativa, allora i 1400 anni di storia militare mussulmana starebbero a dimostrare qualcosa che va al di là del suo attuale stato. Guerra e pace nell’Islam sono declinate e diminuinte come è successo alla condotta bellica di tutte le civiltà, antiche e moderne. L’Islam come forza militare indipendente è in recessione dal 1492, anche se la recente minaccia del terrore jihadista contro il sistema internazionale è, almeno in parte, una possibile reazione a questa lunga recessione. La tesi di Malik riconosce essenzialmente questo modello; in realtà, il libro di Malik può essere visto come un tentativo di capovolgere questa tendenza. Gli eventi dell’11 settembre possono essere valutati come una conferma della tesi dell’autore riguardante la preparazione spirituale e l’uso del terrore. Gli attacchi al World Trade Center e al Pentagono intendevano seminare “rispetto” (timore) nelle menti dei nemici dell’Islam. Questi atti non erano diretti soltanto ai non-credenti occidentali, ma anche ai leader mussulmani che “professano la fede, ma sono infidi nei loro cuori” (alleati e sostenitori degli Stati Uniti). La ferocia di Abu Musab al- Zarqawi e di altri in Iraq riflette un fulcro sul terrore estremo inteso a far deperire la volontà dei nemici dell’Islam.
Malik e Brohi enfatizzano entrambi la natura difensiva della jihad nell’Islam, ma questa posizione appare soprattutto la difesa di un destino manifesto inevitabilmente risultante dal conflitto. Nella loro interpretazione della jihad, entrambi contraggono naturalmente un debito intellettuale verso il teorico islamista pakistano Abu al-Ala al-Mawdudi. Al-Mawdudi è un importante precursore intellettuale della Fratellanza Mussulmana, Sayyd Qutb, e di altri moderni revivalismi islamici. Come nota al-Mawdudi, “la jihad islamica è offensiva come difensiva”, è orientata a liberare l’uomo dalla tirannia umanistica.
L’affermazione più controversa e, forse, più importante dell’autore è la distinzione di “terrore” come un fine piuttosto che come un mezzo per un fine. L’animo può essere toccato solo dal terrore. Il principale bene divino della guerra di Malik può essere riassunto nel detto “infondi il terrore, non sentirlo mai”. Tuttavia, non descrive un metodo specifico per trasmettere il terrore nel cuore dei nemici dell’Islam. La sua visione del terrore sembra confliggere con la sua iniziale e limitata discussione del concetto di limitazione nelle operazioni belliche e di quelli che rappresentano effettivamente gli “eccessi” da parte di un nemico. Questo confligge anche col carattere e con la natura della risposta che l’autore dice che sia richiesta. Malik lascia molti dei questi problemi sul vago sotto la maschera della teoria legittima.
Malgrado certune ambiguità e debolezze teoriche, questo lavoro dovrebbe essere studiato e valutato per i suoi spunti e le analisi riguardanti le concezioni dei jihadisti e l’approccio asimmetrico alla guerra che possono adattare e realizzare i mussulmani radicali. Rispetto al terrorismo globale della jihad, come gli eventi dell’11 settembre stanno chiaramente a dimostrare, ci sono coloro che credono ed eserciteranno i principi de Il concetto coranico della guerra.
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