Liberamente tratto da un’analisi di Robert D. Kaplan.
La fase più facile della Primavera Araba è quella ormai conclusa, cioè il rovesciamento o indebolimento di regimi tirannici in alcuni paesi arabi. Aveva dunque un intento liberale, era una lotta contro l’accentramento dei poteri nelle mani di un despota.
Ora, invece, entrano in gioco i valori politici: si tratta infatti di determinare chi debba mantenere l’ordine per le strade ed esercitare il potere a palazzo, ovvero di ridefinire la società dalle sue fondamenta. Questa lotta interna per il potere continuerà per anni. Poiché riguarda società che versano in difficili condizioni economiche e hanno un’esperienza limitata di governo libero, i nuovi regimi saranno impegnati più che altro a tentar di mantenere il potere in un contesto politico tumultuoso e perciò avranno una capacità molto ridotta di fare guerre. La loro situazione è opposta a quella che si verifica ora in Asia, dove − anche grazie a decenni di crescita economica − i governi hanno istituzioni militari e governative solide e possono dedicarsi a proiettare il proprio potere oltre i confini nazionali.
Il fatto che ai regimi arabi sia impossibile avventurarsi in guerre fra stati è compensato però dalle loro difficoltà a controllare i propri confini e le componenti militarizzate delle loro società. Così, dopo decenni di relativa calma, la penisola del Sinai è divenuta più insicura e gruppi armati sui quali il governo eletto non esercita alcun controllo si aggirano per la Libia, dove le distanze geografiche e le identità tribali ostacolano il controllo centrale. La Libia rappresenta dunque un caso emblematico per l’intera regione: ha un governo eletto, ma ben poca governance.
La situazione in Medio Oriente è gradualmente cambiata: dalle frequenti guerre interstatali, che hanno caratterizzato il periodo della Guerra Fredda (1956, 1967 e 1973), siamo giunti alla relativa anarchia del post bipolarismo. Il pericolo di guerre interstatali sussiste ancora a causa di uno stato non arabo, l’Iran, mentre i principali stati arabi come Iraq, Siria e Libia si sono indeboliti o addirittura disgregati, con i militanti islamici ormai fuori controllo e sempre più frequenti tensioni tra le diverse comunità.
Anche il jihadismo terrorista più prosperare in questo vuoto di potere venutosi a creare per la sostituzione di forti autorità centrali con istituzioni democratiche deboli. Ma più che un jihadismo transnazionale dedito alla programmazione di attacchi contro gli Stati Uniti è probabile che scaturisca un jihadismo locale, impegnato nelle lotte per il potere politico all’interno delle varie società. Dopo tutto, alcuni dei governi arabi filo occidentali che al Qaeda voleva rovesciare sono già caduti e l’organizzazione ha perso una delle sue raison d’être.
Questo stato di anarchia scaturisce naturalmente dalla mancanza di istituzioni, celata per decenni dall’esistenza di regimi autoritari. Con l’indebolimento o la scomparsa di questi regimi, burocrazie deboli o quasi inesistenti devono cercare di tenere testa al caos nelle strade e nei deserti. La caduta di regimi autoritari è forse stata inevitabile ma ha scatenato il caos, e possono occorrere decenni perché una democrazia stabile riesca a svilupparsi.
In questo nuovo, anarchico, Medio Oriente, l’Egitto non è più l’ancora politica dell’Occidente come è stato fino a tempi recenti. Fin dagli anni’70, a cominciare dal dittatore Anwar Sadat e continuando con Hosni Mubarak, la centralità geografica e il peso demografico dell’Egitto erano un elemento forte di stabilità regionale, mentre il nuovo regime islamico del Cairo deve in qualche modo rassicurare la sua componente radicale. Intanto l’Arabia Saudita è in condizione di infermità politica, con governanti al potere da decenni che si aggrappano allo status quo, sempre più circondati dalla disaffezione dei giovani, alimentata dalla combinazione letale di social media e disoccupazione.
In un Medio Oriente simile il margine di manovra degli Stati Uniti è decisamente ristretto. Possono stringere accordi circoscritti con i servizi di sicurezza stranieri per tentare di proteggere le ambasciate americane, incoraggiare e aiutare le forze moderate e usare il loro peso per influenzare il governo egiziano su alcune questioni, quello saudita su altre. Ma gli Stati Uniti non possono, per esempio, rendere la Libia uno stato forte e ben governato. La Primavera Araba mostra dunque la limitatezza del potere americano di fronte al tracollo delle autorità sulle quali si basava un tempo Washington per esercitare la sua influenza. Il fatto che il Medio Oriente sia più democratico di quanto non fosse un tempo non è necessariamente positivo per gli Stati Uniti e l’Occidente. Questo perché le democrazie sono neutrali dal punto di vista dei valori: non sono sempre sistemi liberali, specialmente quando sono ancora deboli e instabili.
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