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Il 25 settembre nei pressi delle isole Diaoyu/Senkaku diverse decine di navi taiwanesi, forti dell’appoggio di otto vascelli militari taiwanesi, si sono scontrati a colpi di cannone ad acqua contro le navi vedetta giapponesi che le hanno costrette al ritiro.
Le rivendicazioni territoriali di Taiwan – nota anche come Repubblica di Cina, creata sull’isola di Formosa nel 1945 per rendersi indipendente dai comunisti che avrebbero preso il potere nella Cina continentale – coincidono con quelle della Cina. Cina e Taiwan hanno molti rapporti commerciali e culturali, ma politicamente i due governi non riconoscono la legittimità l’uno dell’altro, e ognuno dei due rivendica la sovranità anche sul territorio dell’altro. Fino alla metà degli anni ’90 Cina e Taiwan erano troppo concentrate sulla politica interna e sullo sviluppo economico per pensare a rivendicazioni sulle isole del Mar Cinese Meridionale e Orientale. Ma di fronte al risorgere del nazionalismo cinese, Taiwan si è ora visto obbligato ad agire e compiere un gesto simbolico per non sfigurare di fronte alla Cina comunista. Però è probabile che si tratti di un atto singolo, privo di conseguenze.
Le isole Diaoyu/Senkaku sono scogli quasi del tutto disabitati, dallo scarso valore economico, da cui però è possibile disturbare rotte marittime commerciali di grande importanza per la Cina. La questione della sovranità sulle Diaoyu/Senakaku viene abilmente sfruttata dai nazionalisti di Cina, Giappone e Taiwan per infiammare gli animi – tant’è che in Cina il governo ha contribuito ad organizzare proteste contro il Giappone, perché ha deciso di acquistare dal vecchio proprietario (Giapponese anche lui) le isole e nazionalizzarle.
La Cina sta investendo molto sull’ampliamento della flotta militare per aumentare la propria presenza nel Mar Cinese Meridionale e Orientale, dove avviene buona parte degli scambi commerciali del mondo. L’esercito cinese è diventato importante come strumento di politica estera, ma è ancora lontano dal poter assumere un ruolo egemone nell’emisfero.
Il Giappone, che dipende dalle materie prime provenienti dall’estero lungo le rotte marittime usate anche dalla Cina, è preoccupato dall’ascesa della potenza militare cinese e negli ultimi anni ha avviato la revisione della linea pacifista che aveva adottato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per anni Cina e Giappone hanno mantenuto un basso profilo sulla questione della nazionalità delle isole contese: per tacito accordo Tokyo non permetteva ai suoi cittadini di trasferirsi nelle isole della discordia, Pechino evitava di parlarne per non mettere a repentaglio le relazioni commerciali. Ora invece la Cina ha deciso di contrastare apertamente le rivendicazioni giapponesi, soprattutto per sviare l’attenzione dalle difficoltà politiche ed economiche interne e dirigerle contro un nemico esterno – il Giappone appunto.
Negli ultimi vent’anni il Giappone ha vissuto un periodo di stagnazione economica mentre la Cina ha continuato a crescere a ritmo da miracolo economico. Dopo la fine della Guerra Fredda il Giappone, preoccupato per l’ascesa della Cina, per il programma nucleare nordcoreano e per il potenziamento dell’esercito sudcoreano, ha abbandonato il tradizionale anti-militarismo postbellico, con forte incoraggiamento dagli USA, desiderosi di avere un alleato in Estremo Oriente con cui condividere anche gli oneri militari. Tokyo e Washington hanno aumentato la loro collaborazione in attività di difesa militari e civili, nello sviluppo di nuove armi e tecnologie. Tokyo sta importando armamenti dagli USA e ha aumentato i suoi portaelicotteri nella regione. La strategia di Washington nella regione è sempre la stessa: mantenere l’equilibrio fra le due potenze per evitare che l’una o l’altra possa raggiungere lo status di potenza egemone in Estremo Oriente. Durante la Seconda Guerra Mondiale gli USA aiutarono la Cina contro l’imperialismo giapponese, ma nell’attuale situazione appoggiano il Giappone ad armarsi contro l’ascesa cinese
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