Anni fa scrissi una serie di articoli a proposito di un viaggio in Europa: volevo che fossero articoli personali, ma tentavo anche di dare una spiegazione agli eventi recenti, superando considerazioni geopolitiche astratte.
Questa settimana partirò per un altro viaggio che mi porterà dal Portogallo a Singapore: è una buona occasione per provare di nuovo a riflettere sul significato dei miei viaggi.
Mentre preparo il viaggio, rifletto sulle relazioni USA-Europa, o su quel che ne rimane. Ricordo i viaggi in Europa quando queste relazioni significavano molto per entrambe le parti e per il mondo intero. Questo nuovo viaggio mi obbliga a pensare alla NATO: dovrò tenere molte conferenze sulle relazioni USA-Europa, ma non so da che parte cominciare. In passato queste relazioni gravitavano intorno alla NATO, quindi pensare alla storia della NATO mi aiuta a riordinare le idee.
Per quanto mi riguarda, il mio rapporto con l’Europa è sempre passato attraverso il prisma della NATO. Sono nato in Ungheria. Ricordo i miei genitori seduti al tavolo di cucina nel 1956, quando i sovietici vennero a soffocare la rivoluzione. Quella sera stessa mia sorella si sposava a New York, mentre noi ascoltavamo la radio che annunciava l’avanzata dei carri armati sovietici a un isolato di distanza dal nostro, a Budapest. Avevo sette anni. La telecronaca iniziò poi a parlare degli Americani, della NATO, di quali sarebbero state le loro mosse. La NATO era il redentore che delude, perché pur potendo agire non lo fa. La fiducia che la mia famiglia poneva nelle alleanze americane era stata forgiata durante la Seconda Guerra Mondiale ed era incrollabile. La NATO era una sorta di vendicatrice, una spada di Gedeone, benché le sue strategie non fossero sempre mirate e trasparenti.
Ho anche avuto un rapporto più personale con la NATO. Negli anni Settanta ricoprivo il ruolo, decisamente marginale, di programmatore dei primi videogiochi di guerra. Quelle simulazioni servivano per valutare le strategie sul fronte principale della NATO: la Germania. Allora la linea che divideva la Germania era la faglia del pianeta. Un eventuale olocausto nucleare mondiale sarebbe partito da lì, precisamente dal Corridoio di Fulda, un’area pianeggiante nel sud della Germania, da dove un attacco avrebbe potuto raggiungere Francoforte e colpire al cuore le forze americane. I Tedeschi cantano La Guardia al Reno. La mia generazione, o perlomeno i milioni di uomini che hanno servito nella NATO, faceva la guardia a Fulda.
In quanto programmatore di videogiochi ho lavorato per un po’ di tempo al Centro Tecnico di SHAPE, all’Aia. SHAPE è l’acronimo che sta per Quartier Generale Supremo delle potenze Alleate in Europa. Il nome stesso ricorda le origini della NATO, in piena Seconda Guerra Mondiale, e l’alleanza che sconfisse la Germania. SHAPE è comandata da un SACEUR – comandante supremo alleato in Europa − incarico che è sempre stato affidato a un Americano. Nel tempo questo titolo è diventato sempre più anacronistico, perché il SACEUR ha smesso di assomigliare al Generale americano Dwight Eisenhower per assomigliare sempre più al dirigente di una commissione svogliata, dove i commissari arrivano più per fare presenza che per prendere decisioni.
Per me, negli anni Settanta, SHAPE e SACEUR erano acronimi che ricordavano il D-Day e nei quali spiccava la parola “supremo”. Ero giovane ed entusiasta, ed ero orgoglioso di farne parte. Ne percepivo l’importanza storica. Col senno di poi, non so perché fossi orgoglioso di partecipare a qualche cosa che avrebbe potuto scatenare una catastrofe planetaria, ma sono poche le cose che hanno completamente senso, col senno di poi. In ogni caso, ero fiero di poter entrare in un edificio sopra il quale campeggiava la scritta “Centro Tecnico SHAPE”. Mi sentivo al centro della storia. La storia, ovviamente, è sempre altrove.
Giochi e realtà.
Non ho mai capito che cosa facessero i nostri superiori (quelli che ci sembravano quasi degli extraterrestri) con le simulazioni che programmavamo o con i loro risultati, ma penso di aver imparato molto sulla guerra che si sarebbe combattuta. La mia carriera di programmatore di videogiochi di guerra si interruppe prematuramente, perché mi rendevo sempre più conto della futilità di quello che stavamo facendo e del fatto che le informazioni sulle quali ci basavamo erano di per sé insufficienti. Inoltre i comandanti non erano affatto interessati a quello che facevamo. Io, comunque, mi divertivo davvero e non vedevo l’ora che scoppiasse la guerra che avrebbe testato le nostre teorie. Quando vedere puntini su una mappa – puntini che corrispondono a perdite di vite umane – non ti fa né caldo né freddo, è ora di andarsene.
Il problema non erano i simulatori di guerra: se fatti bene, e spero che oggi lo siano, possono aiutare a vincere e a risparmiare vite umane. Ma allora, conoscendo gli uomini (poi arrivarono anche le donne) che avrebbero effettivamente dovuto combattere a Fulda, sentivo che il lavoro che mi era stato assegnato era davvero inutile. In ogni caso, quel lavoro mi ha dato qualcosa: mi ha fatto conoscere soldati provenienti da tutti gli eserciti che potevano essere mobilitati. Sentivo che non erano solo miei colleghi, erano i miei compagni. Ad alcuni non piacevano gli Americani, ad altri non piacevo io, ma ciò può capitare in qualsiasi organizzazione. Stavamo guardando al futuro e i nostri destini erano uniti.
Come gli Americani e i Sovietici vedevano la NATO.
Gli USA temevano che se i Sovietici avessero conquistato l’Europa Occidentale avrebbero unito le risorse sovietiche alla tecnologia europea. Questa stessa paura portò Americani ed Europei a combattere contro la Germania due guerre, da due prospettive molto diverse. Per i miei colleghi europei la guerra aveva significato la devastazione dei loro Paesi, anche se la NATO aveva vinto la guerra. Gli Olandesi, ad esempio, avevano vissuto l’occupazione e avevano comunque preferito la devastazione alla capitolazione. Per me invece si trattava di un esercizio astratto, in primo luogo per la strana matematica dei giochi di guerra, poi perché pensavo che la sconfitta americana fosse una possibilità abbastanza remota. Nel contempo percepivamo un senso di emergenza condiviso, che stava alla base delle nostre relazioni: la guerra poteva scoppiare da un momento all’altro, dovevamo prevedere tutte le mosse dei Sovietici, dovevamo proporre soluzioni.
Il ricordo di Pearl Harbour perseguitava gli Americani. Per questo l’11 settembre è stato un colpo così duro: la memoria dell’attacco improvviso è sempre stata viva. Ci dicevano che, in teoria, saremmo stati avvertiti 30 giorni prima di un attacco sovietico. Non so da dove venisse questa teoria, ma sospettavo che quei 30 giorni erano quelli che effettivamente ci servivano per prepararci. Gli Europei non temevano l’attacco a sorpresa; avevano però paura di subire l’attacco previsto e di non essere abbastanza preparati. Il ricordo della Seconda Guerra Mondiale li perseguitava in modo diverso. Erano tormentati dal ricordo che sapevano che cosa stava per succedere, ma si erano fatti trovare impreparati. Americani ed Europei erano entrambi paranoici, ma in modo diverso. Gli Americani ritenevano che la guerra fosse stata causata dal non aver stretto alleanze e dal non aver agito abbastanza in fretta. Gli USA giurarono di non commettere più lo stesso errore: la NATO è una delle tante alleanze frutto di questo impegno. Gli Americani adorano le alleanze.
È interessante capire ora quali fossero le paure dei Sovietici. Neanche loro avevano alleati quando la Seconda Guerra Mondiale li colse. Il loro unico alleato, la Germania, li aveva traditi. I Sovietici, colti di sorpresa, combatterono da soli finché Americani e Britannici decisero di aiutarli. I Sovietici avevano stretto alleanze tradizionali ma, una volta fallite, giurarono di non dipendere mai più da altri. Stipularono il Patto di Varsavia perché gli occidentali avevano la NATO, ma non dipendevano dai loro alleati. Gli Americani iniziarono a stringere alleanze a destra e a manca, come se le alleanze risolvessero tutti i problemi. I Sovietici invece pensavano che le alleanze fossero molto pericolose.
Alla fine, guardandoci indietro, la guerra era molto meno probabile di quanto pensassimo. L’Ovest non avrebbe invaso l’Est. Pur stando sulla difensiva, i Sovietici avrebbero sbaragliato le nostre forze, molto più contenute delle loro. E, diciamo la verità, nessuno aveva il benché minimo interesse a conquistare l’Europa orientale e l’Unione Sovietica.
Quanto ai Sovietici, erano fortissimi sulla carta, ma la teoria in guerra conta poco. I Sovietici non volevano una guerra nucleare, mentre secondo loro gli Americani morivano dalla voglia di farla. Sapevano che se si fossero mossi verso ovest, la guerra sarebbe iniziata. Venne poi fuori che per i Sovietici sarebbe stato molto difficile rifornire i carri armati durante un ipotetico avanzamento verso ovest. Avevano anche pianificato di collegare tubi di plastica ai depositi di carburante e di srotolarli man mano che i carri armati avanzavano: quel sistema però non ha mai funzionato molto bene, e in ogni caso quei depositi di carburante figuravano nella lista dei primi obiettivi da bombardare.
Tutto questo è ormai passato e lo ricordo con un misto di orgoglio – non per quello che ho fatto, molto poco, ma per il solo fatto di esserci stato – e dispiacere per quanto poco abbiamo capito il nemico. Entrambe le parti erano pronte, entrambe le parti aspettavano mosse che nessuno aveva intenzione di fare. Alla fine, tutte le nostre pianificazioni sono state inutili. L’unico modo per vincere – come dice il film War Games – è non combattere. Non deve sorprendere che i leader − Eisenhower e Khrushchev, Nixon e Brezhnev, Reagan e Gorbachev – l’avessero capito meglio di tutti. Ho sempre pensato che il mondo sia stato molto fortunato: le due superpotenze, USA e URSS, hanno gestito la Guerra Fredda con estrema cautela. Se immaginiamo i diplomatici europei del 1914 o del 1938 armati di bombe atomiche, è facile credere che non sarebbero stati altrettanto cauti.
Eredità della NATO e caos.
Ciò che la NATO produsse era inestimabile e imprevisto: cameratismo e unità d’intenti da una parte all’altra dell’Atlantico. Anche i Francesi, che si ritirarono dal comando militare della NATO all’epoca di Charles de Gaulle, continuarono a farne parte in maniera non ufficiale. Non se ne parlava, ma se “la festa fosse cominciata” – se il nemico avesse agito – i Francesi sarebbero stati presenti e si sarebbero accapigliati per decidere chi fosse a capo di che cosa, ma avrebbero combattuto tanto strenuamente quanto durante la Resistenza, prima del D-Day. Grazie alla NATO conobbi dei Tedeschi, il che all’epoca non era facile per me, considerato quello che aveva dovuto affrontare la mia famiglia durante la guerra. Fui costretto a distinguere la Germania da chi l’aveva governata (N.d.T. La famiglia di George Friedman è ebrea).
Mi nacque un figlio nel 1976. Durante un viaggio in Europa, conobbi un Italiano e diventammo amici. Parlavamo di che cosa avremmo fatto fare alle nostre famiglie se “la festa fosse cominciata”. Quelle chiacchierate – strane e forse un po’ malate – ci avvicinarono. Non si trattava di guerra, né di pace, ma dei pensieri che nascono in un angolo della mente quando ci si prepara alla guerra e si vive nell’ansia, e si riflette su dove portare i propri figli per scampare al disastro nucleare.
La NATO, molto più delle simulazioni dell’ONU o delle borse di studio Fulbright, fece conoscere Americani ed Europei e fece loro capire che i loro destini erano uniti, che erano compagni. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, quella era una lezione importante. Milioni di soldati la impararono e la portarono a casa.
La fine della Guerra Fredda non è stata una gran perdita, anche se si è portata via la mia giovinezza. Anche quell’unità di intenti che accumunava gli USA e l’Europa Occidentale è però svanita, generando importanti conseguenze. Dopo il 1991, per un po’ le due parti continuarono a comportarsi come se l’alleanza potesse esistere anche se non esisteva più il nemico, ma la NATO stessa iniziò a sgretolarsi. La NATO aveva un senso perché investita di una missione portata avanti con passione, ma quella passione si era esaurita. L’alleanza si sgretolò ulteriormente quando gli USA decisero di invadere l’Iraq per la seconda volta. Gran parte dei Paesi membri della NATO sostennero quell’invasione – cosa spesso dimenticata – ma non la Francia e la Germania. Ciò danneggiò le relazioni USA-Europa in generale e USA-Francia in particolare (i Francesi sono bravi a irritare gli USA facendo finta di niente). Ma fu l’Europa a subire il danno maggiore: al suo interno si schierarono coloro che volevano mantenere rapporti stretti con gli USA, pur pensando che la guerra in Iraq fosse una cattiva idea, e coloro che volevano che l’Europa facesse sentire la propria voce, svincolata da quella americana.
La crisi finanziaria del 2008 non divise soltanto USA e Europa, ma soprattutto l’Europa al suo interno. Le relazioni tra i Paesi europei – a livello di opinione pubblica più che di incontri ufficiali – si sono deteriorate. L’Europa ha subito un danno terribile e ciascun paese dà la colpa a qualcun altro. Tutti accusano la Germania, e la Germania accusa tutti gli altri.
Non può esistere un’alleanza trans-Atlantica quando una delle due parti è in profondo disaccordo con sé stessa su vari temi e l’altra parte non ha voglia di essere coinvolta nella disputa. Non può nemmeno esistere un’alleanza militare quando non si capisce quale sia la missione, il nemico o gli obblighi di ciascuno. La NATO aveva senso durante la Guerra Fredda perché era chiaro chi fosse il nemico, si era d’accordo su che cosa fare in determinate circostanze e tutti erano pronti a intervenire in caso di bisogno. Un’alleanza senza missione, senza un piano sensato per affrontare i problemi e i cui membri non sono disposti a intervenire – si pensi alla Libia e al Mali, quando gli inviti mandati sono stati cortesemente declinati – non può essere considerata un’alleanza. Rimangono gli imbellettamenti collaterali, le commissioni continuano a incontrarsi e i gruppi di lavoro preparano conferenze; il SACEUR è ancora un Americano, la Commissione Scienza e Tecnologia produce scartoffie. Ma l’unione di intenti è andata perduta.
I miei colleghi europei ed io eravamo giovani, seri e impegnati, il che era pericoloso perché ci mancava la prospettiva storica (in realtà questa mancava anche ai nostri vecchi). Ci univa però qualche cosa di inestimabile: forse per l’ultima volta nella storia l’Occidente ha combattuto spalla a spalla in difesa della democrazia liberale e contro la tirannia. Ora che abbiamo al Quaeda, ripenso ai Sovietici con nostalgia. I Sovietici potevo capirli, ma non riuscirò mai a capire al Quaeda.
Ecco, quando mi chiederanno di parlare di relazioni USA-Europa, dirò due cose. Primo: le relazioni USA-Europa non esistono più, perché l’Europa non è più un’idea, bensì un continente fatto di stati con interessi diversi. Si deve quindi parlare di relazioni USA-Francia, USA-Russia, e così via. Secondo: non può esistere una confederazione senza una politica estera e di difesa comune. La tassazione può variare da uno stato all’altro, ma se uno stato va in guerra e gli altri non lo seguono, allora si tratta soltanto di nazioni che collaborano quando fa comodo.
Ricordo lo spirito cameratesco e la solidarietà che univa le giovani reclute americane ed europee. Quello era il collante dell’Europa. La solidarietà della NATO si basava non tanto su comandanti o politici, ma su uomini che erano pronti a proteggersi l’un l’altro. Forse i miei ricordi sono fin troppo edulcorati, ma non penso di far torto a quello spirito. La NATO ha unito l’Europa perché ha preso le nazioni e le ha rese compagne. Sono state in grado di affrontare l’Armageddon insieme. L’Europa senza la solidarietà della NATO non riesce neanche a elaborare una politica fiscale. Alla fine, il fatto che la NATO sia caduta in disuso ha danneggiato l’Europa più di quanto si potesse immaginare.
Non so se la NATO può esistere senza la Guerra Fredda. Forse no. I tempi sono cambiati, ma so che la nostalgia che provo per l’Europa non è soltanto nostalgia della mia giovinezza: mi manca l’epoca in cui la civiltà occidentale era unita. Temo che questo non tornerà mai più.
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