Hassan Rouhani, il nuovo presidente eletto dell’Iran, è uomo dell’establishment. Paradossalmente Rouhani combina tendenze conservatrici e riformiste. È un religioso che, al contrario di Ahmadinejad, non vuole cambiamenti radicali alla struttura di potere; propone però collaborazione e avvicinamento tra le varie componenti della struttura di potere.
Rouhani ricorda l’ex presidente riformista Mohammed Khatami: durante la sua amministrazione Rouhani servì anche come negoziatore capo per il programma nucleare iraniano. Si prevede che in politica estera Rouhani userà toni meno infuocati rispetto a quelli di Ahmadinejad e che in politica interna sarà più propenso a collaborare con gli altri centri di potere, come l’Ayatollah, l’esercito e le forze dell’ordine.
Questo potrebbe bastare per allentare, in modo rapido e poco costoso, la pressione esercitata sul regime da alcune forze interne. Subito dopo l’annuncio della vittoria di Rouhani molti sono scesi in piazza per festeggiare il presidente eletto, a Teheran e nei principali centri urbani del Paese, e le forze dell’ordine non sono intervenute. Questa reazione sembra suggerire che l’elettorato iraniano, scontento e sempre più frustrato, sia almeno per il momento soddisfatto.
Se Rouhani riuscirà a farsi appoggiare dai religiosi, e riuscirà anche ad agire nell’interesse dell’esercito, delle forze dell’ordine e dell’elettorato, avrà più possibilità di gettare le basi per trattative con l’Occidente, tanto più che il rifiuto di considerare gli interessi occidentali – caratteristica dell’amministrazione precedente – è ora incompatibile con gli obiettivi iraniani di lungo termine nella regione, dato l’indebolimento degli alleati iraniani in Siria e in Iraq.
Ma, prima di poter modificare lo stile della politica estera iraniana, Rouhani deve riuscire a consolidare la propria autorità all’interno dell’Iran e guadagnarsi la fiducia dei diversi strati di popolazione – e non sarà cosa né breve né semplice.
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