Di fronte agli orrori del secolo scorso, storici sociologi antropologi e psicologi si sono domandati: com’è possibile che grandi gruppi di persone comuni partecipino attivamente a orrende stragi di civili indifesi? Com’è possibile che non rifiutino di assassinare con le proprie mani persone evidentemente inermi? Perché d’un tratto i vicini si mettono ad uccidere i vicini?
Riusciamo a capire la guerra fra soldati di paesi nemici. Possiamo anche capire − senza giustificarlo − l’abbandonarsi alla vendetta contro persone ormai inermi, dopo un lungo periodo di guerra. Ma non riusciamo a capire come sia possibile la partecipazione in massa alla strage dei propri vicini inermi, come è avvenuto in Cambogia, o in Ruanda. Né riusciamo a capire come il governo di un paese possa mandare soldati o poliziotti a sterminare ogni giorno una popolazione inerme, prelevando migliaia di donne, vecchi e bambini dalle proprie case per ucciderli, come se si trattasse di un ordine di servizio normale. Non capiamo l’orrore del democidio, cioè la strage di una popolazione inerme, organizzata dal governo cui è sottoposta e che perciò dovrebbe proteggerla, per mano di un’altra parte di popolazione, sottoposta allo stesso governo, che opera la strage senza remore.
Daniel Goldhagen e Robert Browning pubblicarono due diversi saggi sulla psicologia degli sterminatori di innocenti durante la Shoah, a partire dall’analisi degli stessi episodi, delle stesse persone e degli stessi documenti, cioè i verbali degli interrogatori e delle indagini svolte in Germania per il processo agli uomini del battaglione 101 delle Einsatzgruppen, che si tenne nel 1962. Le Einsatzgruppen erano speciali reparti tedeschi di polizia, che vennero mandati a rastrellare ed eliminare gli ‘indesiderabili’ dai territori che l’esercito tedesco conquistava nell’avanzata verso est durante la seconda guerra mondiale. Erano costituiti da poche SS e da molti poliziotti e riservisti. Gli Einsatzgruppen erano 4, ognuno aveva 3000 uomini.
Perché studiare il battaglione 101? Formato nel 1939, comprendeva 500 uomini, per lo più agenti di polizia in servizio. Fra il 13 luglio 1942 e il 5 novembre 1943 rastrellarono e assassinarono una per una − a mano − circa 38 000 persone in Europa orientale, e parteciparono al rastrellamento e alla deportazione a Treblinka di altri 45000 ebrei. Eppure gli uomini del battaglione 101 non erano nazisti convinti, non erano giovanissimi, tutti avevano lavoro e famiglia: erano uomini comuni. «I riservisti del battaglione 101 provenivano dagli strati più umili della società tedesca. […] Per età tutti avevano vissuto gli anni formativi nell’era prenazista. […] Non sembravano un gruppo promettente per il reclutamento di esecutori al servizio dell’utopia razziale nazista». Eppure parteciparono allo sterminio con particolare brutalità e assiduità. I documenti provano che, se qualcuno riteneva di non poter obbedire a un ordine, aveva modo di sottrarsi senza venir punito - ma pochissimi uomini chiesero di essere esentati!
Nell’arco di qualche mese, tutti i membri del battaglione parteciparono agli eccidi, eccetto il tenente Bickermann, ma molti cercarono di trovare un momento di “generosità” verso qualcuno, per sentirsi meglio. I comandanti presero a dividere i gruppi: chi rastrellava, spogliava, caricava sui trasporti… ‘ non uccideva. ‘Chi uccideva faceva soltanto l’ultimo atto’, senza sentire la responsabilità della decisione di morte e cercando di salvare la propria coscienza con acrobazie mentali. Al processo un imputato racconterà: «Tentai di uccidere solo bambini e ci riuscii. Siccome le madri tenevano i bambini per mano, il mio vicino uccideva la madre e io il figlio, perché ragionavo tra me che dopotutto, senza la madre, il figlio non avrebbe più potuto vivere. Il fatto di liberare i bambini che non potevano più vivere senza le madri mi pareva, per così dire, consolante per la mia coscienza»
Goldhagen, nel suo libro “I volenterosi carnefici di Hilter” arrivò alla conclusione che i carnefici non solo eseguirono gli ordini senza chiedersi se fossero giusti, ma ampliarono la portata dello sterminio con iniziative personali! «Perché torturare e umiliare gli Ebrei, e i vecchi in particolare? Non bastava l’estinzione di una moltitudine di Ebrei a soddisfare i Tedeschi? Degli uomini contrari all’eccidio non avrebbero prima torturato quei vecchi già sofferenti […] Questi tedeschi non erano di certo dei funzionari freddi o riluttanti». Ed ecco un’altra testimonianza che per Goldhagen rivela crudeltà compiaciuta: «Per ordine del sergente Steinmetz, gli ebrei furono portati nei boschi. Noi andammo con loro. Dopo circa 200 metri Steinmetz ordinò agli ebrei di distendersi a terra, in fila. Vorrei dire a questo punto che erano solo donne e bambini; soprattutto donne, e bambini sui dodici anni... Io dovevo sparare a una vecchia, aveva più di 60 anni. Ricordo ancora che la vecchia mi chiese se avrei fatto presto... Accanto a me c'era Koch...Lui doveva sparare a un ragazzino, circa dodici anni. Ci avevano detto chiaramente che si doveva tenere la canna del fucile ad almeno 15 centimetri dalla testa; ma evidentemente Koch non lo fece, e mentre ce ne andavamo dal luogo dell'esecuzione,i camerati mi presero in giro perché avevo la manica imbrattata di materia cerebrale del ragazzino. Io chiesi perché ridessero, e Koch, indicando la mia manica: 'Quella è del mio; ha già smesso di agitarsi'. Lo disse con un evidente tono di vanteria».
Secondo Goldhagen la Shoah è un progetto nazionale tedesco, che ha la sua radice nell’antisemitismo del tardo ‘800. Per questo dopo mesi di orribili stragi di innocenti il comandante Trapp poteva esprimersi con queste parole: «Mi sento sinceramente obbligato a ringraziarvi tutti, ufficiali, sottoufficiali e soldati, per il vostro impegno indefesso, per la lealtà di cui avete dato prova e per lo spirito di sacrificio. Tutti avete dato del vostro meglio per il Führer, per il popolo e per la patria».
Analizzando gli stessi documenti Browning dà un’interpretazione diversa: gli assassini del battaglione 101 erano uomini comuni che non avrebbero mai ucciso in circostanze normali, e che per compiere le stragi furono costretti a trovare scuse a sé stessi, nonché a ricorrere a massicce dosi di alcool. E osserva che «Durante la prima strage quasi tutti i poliziotti si sentirono male. Eppure l’80-90% degli uomini si risolse a uccidere. Per loro era più facile uccidere che uscire dai ranghi e fare un passo avanti, cioè adottare apertamente un comportamento non conformista». Per rendere il compito meno duro, «occorreva alleviare il fardello psicologico […]; si stabilì così una divisione dei compiti. […] La parte peggiore del lavoro sporco venne affidata agli Hiwi (volontari reclutati fra la popolazione locale)».
Al battaglione venivano distribuite grandi quantità di alcool ogni giorno, per poter sopportare l’orrore . Pur senza mostrarlo in pubblico, presto gli uomini diedero segni di squilibrio psichico, vennero tormentati da incubi e insonnia. Ma si vergognavano di questa ‘debolezza’, anziché sentire l’impulso a ribellarsi agli ordini. Nelle testimonianze − dice Browning − «anche i renitenti considerano la “forza” di massacrare uomini, donne e bambini inermi come una qualità positiva e non cercano di recidere i legami di cameratismo che costituiscono il loro mondo sociale».
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