Di Assumpta Mugiraneza, responsabile del progetto del Memoriale del Genocidio a Kigali
Capire il percorso che conduce una parte dell'umanità
a proibire all'altra di abitare il pianeta implica affrontare
l’angoscia del pensare l'impensabile, oggi considerato indicibile.
Pensarlo significa esporsi al rischio di esserne destabilizzati, perché non si tratta
soltanto di “liberarsi del noto”, ma di sé stessi... (1)
Davanti all’angoscia che tutti sentiamo, ma che non tutti accettano di affrontare, il ricercatore dispone di una metodologia che l’aiuta nell’avvvicinarsi all'abisso. I mezzi metodologici messi a punto nel campo delle scienze umane, particolarmente quelli per “pensare” i crimini nazisti, hanno raggiunto un livello particolarmente elevato di “prestazione”. Noi oggi crediamo che il mondo sia necessariamente accessibile alla nostra conoscenza, pur con difficoltà maggiori o minori. Dalla filosofia alla fisica nucleare, dalla storia alla nanotecnologia, dalla psicanalisi all'astronomia, l'uomo moderno vive nella fiducia per la scienza, ed è convinto che ogni avvenimento avrà prima o poi una spiegazione, che le catastrofi che il mondo non ha potuto prevenire avranno, ciò nonostante, una spiegazione “a posteriori”, che ragionevolmente permetterà la prevenzione futura.
Nel campo dei genocidi o delle violenze estreme noi dapprima cerchiamo di convincerci di aver capito, di essere in salvo. Ed è spesso a partire da questo atteggiamento scientifico, non “coinvolto” e necessariamente “oggettivo” che tentiamo la lettura dei fatti e la loro spiegazione. Se per forza di cose ci troviamo “coinvolti” dall’una o dall’altra parte, anche allora cerchiamo subito e in modo prioritario di rassicurare noi stessi. Se siamo vittime cerchiamo di convincere noi stessi e gli altri che non siamo quel “male assoluto” che il sistema di sterminio faceva di noi. Il percorso è ancora più tortuoso e contraddittorio per il boia, che vive con due consapevolezze che non possono coabitare in una vita normale: quella di aver provocato vittime innocenti, e quella di dover tuttavia mostrare una faccia più accettabile tanto individualmente che socialmente.
In Ruanda il carnefice e la vittima sono entrambi “coinvolti”, ma i ricercatori o i giornalisti restano fuori dall'universo carnefice/vittima: vi arrivano da stranieri. In questo dilemma dobbiamo trovare un punto di partenza per tentare di capire i meccanismi in gioco e la loro portata, per tentare di dar un senso a ciò che è insensato per natura. Dobbiamo fare in fretta e avviare la decostruzione paziente dell'architettura dello sterminio. Ma come procedere se il crimine ha avuto luogo in una cultura straniera? Come rapportarci con degli stranieri a doppio titolo – perchè non hanno parte negli avvenimenti e perché sono culturalmente estranei – e contare su di loro per ricostruire la trama che ha condotto al crimine?
Pensare il genocidio dei Tutsi pone più difficoltà di tutto ciò che abbiamo conosciuto finora. Il mondo della conoscenza ha ben poca dimestichezza col substrato culturale del genocidio dei Tutsi. Gli altri genocidi sono stati concepiti e realizzati in un contesto culturale vicino a quello di coloro che ne scrivono la storia. E' difficile immaginare uno specialista della Shoah che non conosca né il tedesco, né il francese, né l'inglese nè lo yiddish. Nel caso del Ruanda il mondo della parola resta direttamente inaccessibile al non ruandofono. Senza parlare delle tradizioni, del codice culturale ruandese che è unico anche in Africa. Oltre a questa barriera culturale c'è un'altra specificità in questo “genocidio di vicinanza”, secondo l'espressione di Jean Hatzfeld (2). Nel genocidio dei Tutsi tutti i Ruandesi hanno un livello di convolgimento unico nella storia. Questo complica in modo singolare il compito del Ruandese che studia un crimine di cui è sia vittima che carnefice, direttamente o indirettamente. Inoltre la storia delle violenze di cui la popolazione tutsi è stata vittima a partire dal 1959 è rimasta a lungo sotto silenzio, occultata dai responsabili politici ruandesi, ignorata dagli storici e dai media. Queste violenze senza giustizia, questi morti senza sepoltura e per i quali non si porta il lutto, tutto questo ha finito per rovinare i tentativi di raccontare e testimoniare, e complica la ricostruzione delle identità individuali e sociali (3) .
I Ruandesi hanno ancora più difficoltà a trovare le parole per dare un nome al genocidio di cui sono sia esecutori, sia vittime. I fatti superano l'intendimento e i concetti mancano, tanto nelle conoscenze condivise che nella lingua dei Ruandesi. Ogni parola finisce col rivestire un altro significato.
Davanti a queste difficoltà una delle vie seguite è stata la comparazione tra la Shoah e il genocidio dei Tutsi. Le conoscenze acquisite nel campo della Shoah, le analisi che col tempo sono diventate possibili ed accessibili, servono oggi a tentare di analizzare ciò che è avvenuto in Ruanda prima, durante e dopo il genocidio. Questo succede sia per il crimine e la sua costruzione, sia per l'indomani del genocidio, il trauma, la solitudine, l'incomprensione e l'impossibilità di continuare a tacere. I Ruandesi, che ormai debbono convivere con l’eredità di un genocidio, debbono prendere a prestito o fabbricare gli strumenti di comprensione e di gestione del contenzioso del genocidio. I ricercatori non ruandesi invece debbono forgiare nuovi utensili e pazientemente osservare, raccogliere i dati, tentare di trovare una via di lettura e di comprensione. Entrambi debbono collaborare per superare i rispettivi limiti. Cercare di comprendere, mettersi d’accordo sul significato delle parole e dei concetti, coprire il campo più fecondo della vita ruandese, cioè l'universo discorsivo.
Che cosa intendiamo con la parola genocidio ? (4)
Parola sprecata, spesso usata a vanvera dai nostri media a caccia di sensazionale, ripresa senza pensarci nei discorsi quotidiani, il termine genocidio ha una storia, ma soprattutto un quadro giuridico proprio che gli è stato dato nel 1948, dopo la proposta di Raphael Lemkin (1944) di definire il singolare massacro specifico di cui erano vittime gli Ebrei d'Europa. Non è perciò necessario impegnarsi in un dibattito sulla definizione di questo termine, ma rilevare alcuni tratti comuni al genocidio degli Armeni, alla Shoah e al genocidio dei Tutsi. Accettando di affacciarsi su questi tre genocidi si scoprono tratti comuni che non si ritrovano necessariamente in altri crimini di massa:
- Il genocidio è un progetto politico dall’ideazione alla realizzazione. Progetto di ampio respiro, richiede la completa partecipazione del potere politico, militare, amministrativo, economico e delle masse popolari (5)
- Il genocidio non è tale per il numero delle vittime, anche se di entità spaventosa. Si tratta di un crimine concepito e realizzato contro vittime la cui colpa principale è quello di essere nate tali: armeno, ebreo, tutsi.
- L'ideologia del genocidio si sceglie un bersaglio, lo sistematizza, lo costringe nella sua funzione di futura vittima. Il bersaglio è designato dalla sua nascita, reale o presunta, che gli vale tutti i mali che gli vengono attribuiti e che lo condurrà alla morte per sterminio. (Armeni, Ebrei, Tutsi diventuti parassiti, topi, serpenti, pulci o scarafaggi, se non addirittura microbi o virus, sono da eliminare).
- Nelle ideologie genoicide il nemico designato rappresenta il male assoluto, lo porta nel sangue per natura, dunque costituisce una minaccia mortale e immediata per il popolo in seno a cui vive.
- Diversamente dai campi di rieducazione, dalle conversioni di massa e dalla deportazione di popolazioni, nel genocidio è tassativa l’eliminazione fisica totale. Diversamente dalla “pulizia etnica” in cui è importante cacciare gli “indesiderabili”, nel genocidio si impedisce invece alle vittime di fuggire. Si bloccano le frontiere e ci si mette all’opera, badando che il “male” non si diffonda.
- Il genocidio si svolge in un contesto di guerra, ma le vittime non possono essere considerate vittime di guerra, perchè sono uccise in ragione della loro nascita. In un genocidio è più importante sradicare il male che vincere la guerra armata. Nel corso della Shoah, nonostante i rovesci dell'armata tedesca ad Est, i treni per la deportazione non vennero quasi mai meno al sistema dello sterminio. In Ruanda stupisce constatare che ci si mobilitò di più per sterminare gli Inyenzi (Tutsi) che per combattere militarmente le truppe del FPR. La logistica del genocidio non è ostacolata da difficoltà militari. La logica dello sterminio funziona fino alla fine, persino durante la fuga e dentro ai campi (6).
- La logica dello sterminio totale del “nemico” fa sì che si uccida il male sul nascere: uomini, donne, vecchi, bambini, malati...persino i neonati non sfuggono al delirio sterminatore. Si mette tanta cura ad accertarsi che muoia un giovanotto in età di combattimento quanto un feto partorito prematuramente. Himmler era stato chiaro a proposito di ciò che si doveva fare alle donne e ai bambini ebrei; in Ruanda, i media e i discorsi dell'odio raccomandavano di non “commettere l'errore del 59” (7).
- Quelli che si dedicano a questa indicibile carneficina lo fanno in un’atmosfera che sorprende per l’apparente entusiasmo ed ilarità, come per un sentimento di dovere assolto e senza la minima apparenza di colpa. Si va in gruppi ben organizzati, con nomi in codice che nobilitano il compito infame: si parla di “missione” o di “lavoro” eseguito, ecc… (8)
- L'ideologia del genocidio resiste alle tesi semplicistiche della “follia collettiva” o della “partecipazione passiva” o del “sussulto di autodifesa”. Si constata nei fatti una sorprendente coscienza del compito eseguito, prendendo talora anche l’inizitiva (9) nell'orrore, nonché delle sofferenze inflitte alle vittime. In una logica di autodifesa, se logica c’è, si ricercherà l'efficacia, la resa nel fare più morti possibile nel tempo più breve possibile. Perchè messe in scena macabre curate nei dettagli prima del massacro? Perchè tanto tempo e tanti sforzi (senza scopo) per torturare prima di dare il colpo di grazia, o per maltrattare i cadaveri?
Questo non è un quadro esaustivo, ma una prima constatazione che emerge dalle ricerche di tipo comparatista.
Narrare “ Il genocidio dei Tutsi”...
Decostruire l'ideologia del genocidio, più che dargli un nome.
Discutere di come definire il crimine che fra aprile e luglio 1994 fu commesso in nome dell'ideologia hutu contro chiunque fosse tutsi o supposto tale, senza prima analizzarne la portata, ha portato molti contemporanei su una via controversa. Anche se la parola ‘genocidio’ non era assente nella narrazione dei diversi massacri di cui furono vittime i Tutsi in nome dell'ideologia Hutu, non si può dire che chi la usava ne avesse sempre un'idea precisa.
Nella primavera del 1994 il mondo si sveglia con le immagini dei cadaveri che cospargono le vie di Kigali e dei cadaveri trasportati dal fiume Akagera. I resoconti parlano di massacri sistematici, organizzati... L'occhio esperto teme un genocidio. Ci si preparava allora a commemorare i 50 anni dalla liberazione dei campi nazisti e ci si vergognava a ripetere “mai più” di fronte allo spettacolo del Ruanda (di cui si sarebbe tenuta la commemorazione un anno più tardi). Che succede allora nel discorso? Perché proprio quando il mondo è d’accordo a considerare l’avvenimento un genocidio, nessuno sembra definirlo correttamente? Come si spiega l'uso diffuso dell'espressione “genocidio ruandese” o “genocidio del Ruanda”?
I Ruandesi nel loro insieme non hanno l'abitudine a questo tipo di dibattito semantico. Per loro è chiaro: i Tutsi si fanno massacrare ed è sempre stato così fin dalla fine degli anni 1950. Nei loro diversi interventi sulla scena internazionale (ONU, media, ecc.) parlano di genocidio ruandese e più raramente di genocidio tutsi o dei Tutsi.
D'altro canto l'opinione internazionale scopre un paese pressochè sconosciuto fino ad allora, il Ruanda. Senza uno sforzo cognitivo particolare non si riesce ad usare precisione di linguaggio nel parlare di questo genocidio. Dunque per economia cognitiva ci si accontenta di “genocidio ruandese” o “genocidio del Ruanda”.
Nei primi mesi che seguono il genocidio ciò non sembra disturbare che le rare persone informate della “cosa”. Ma la definizione riveste in fretta un altro aspetto. All'interno del Ruanda l'espressione”genocidio ruandese” è subito preferita in quanto utile per evitare di stigmatizzare gli Hutu. Si pensa allora che questo aiuterà a preservare un minimo di pace civile e servirà come base alla politica di riconciliazione in un paese isolato e obbligato a far coabitare su un territorio esiguo sia i carnefici che le vittime. La discussione su come nominare le cose in lingua kinyarwanda taglia corto, non si discutono né i fatti né il significato delle cose. Ad insistere sull'elemento tutsi si rischia di essere subito classificati come estremisti tutsi, poco preoccupati della fragile pace in vigore. Fuori dal Ruanda resta in uso il termine “genocidio ruandese”, ma non per le stesse ragioni. Per molti si tratta di un termine poco esatto, ma che non disturba. Quelli che se ne fanno oggetto di ricerca non sempre badano a rettificare questo errore. Ma in altri ambiti l'espressione “genocidio ruandese” è diventato un cavallo di Troia. I carnefici, i loro alleati o complici vedono in questa definizione l’agognata occasione per una battaglia negazionista. Parlare di “genocidio ruandese”, a volte al plurale (10), permette di occultare il crimine di genocidio perpetrato contro i Tutsi e di aprire la strada alla teoria del doppio genocidio (11). Ruandesi o stranieri, chi è preso in questo errore è vittima del non pensare prima di parlare. Un genocidio si immagina e si costruisce con una propaganda nutrita di gesti mirati alla “soluzione finale”. Qui più che altrove capire il modo del genocidio dei Tutsi passa necessariamente attraverso l'analisi del discorso.
Da Itsemba-tsemba, Itsembabwoko, Itsembabatutsi a Jenoside y'Abatutsi (12)
Tutte queste parole sembrano rinviare allo stesso universo cognitivo e discorsivo, ma il loro uso indifferenziato dopo il genocidio è seriamente contaminato dalla campagna negazionista del genocidio dei Tutsi! Un esempio su cui soffermarsi: itsembatsemba o sterminio/sradicamento. Semanticamente la parola è chiara. Anche nei fatti. Infatti appena ci chiniamo sulla propaganda genocida (media, discorsi politici, caricature o canzoni) troviamo il verbo gutsemba (sterminare) coniugato in tutti i tempi e in tutti i modi. Nessuno allora aveva bisogno di precisare chi era l’oggetto designato di questo sterminio programmato perché era ovvio, era il nemico, il Tutsi! All'inizio ci si accontentava del termine gutsemba (sterminare); poi la ripetizione della radice - tsemba - esprime la radicalità dell'azione e anche la sua ripetizione. In base a tutte le testimonianze, spontanee o ottenute nel Gacaca (13), chi partiva per andare a “lavorare” andava cantando: “ Yeee, tubatsembatsembe, Yeee, tubagandagure (Andiamo, sterminiamoli, sradichiamoli. Andiamo, schiacciamoli con furore, brutalità e sofferenza! (14) ). Quando il Fronte Patriottico Ruandese (FPR) ferma il genocidio e procede all’arresto in massa degli accusati di genocidio la parola gutsembatsemba ancora risuona sulle colline ruandesi. Per definire provvisoriamente il genocidio dei Tutsi, questa denominazione sarebbe potuta bastare, in attesa di potergli dare la specifica ‘tutsi’. Ma i Ruandesi contestano e alcuni rifiutano la definizione itsembatsemba, precisando che è a causa dell'ubwoko (la razza o l'etnia) che le persone sono state uccise. Preferiscono dunque l'uso del termine itsembabwoko e soltanto una minoranza osa dire itsembabatutsi. Per mettere tutti d’accordo si è deciso di unire i due termini e dire Itsembatsemba-Itsembabwoko. All'inizio questa doppia denominazione sembrava presentare due vantaggi: accontentava i più e dava l'illusione di gestire le diverse sensibilità all'interno del Ruanda. La parola d'ordine è facilitare la coabitazione e la riconciliazione dei Ruandesi…
Ma il negazionismo ha approfittato subito di questa possibilità. ‘Genocidio ruandese’, alla pari di itsembatsemba e itsembabwoko, spiega il discorso negazionista, designa sia i massacri degli Hutu (da parte del FPR) che i massacri dei Tutsi. La teoria del doppio genocidio trova dunque espressione nei termini scelti e promossi all'interno stesso del Ruanda. Oggi è diventato quasi impossibile usare itsembatsemba per designare il genocidio dei Tutsi perché la teoria del doppio genocidio ha investito questo termine di un altro significato.
Successivamente si è parlato di “genocidio” (Jenoside in kinyarwanda) senza osare riconoscere a questo termine il significato che ha. Il lavoro degli storici, l'affermazione del potere ruandese e gli attacchi al potere da parte dell'apparato negazionista hanno successivamente portato a precisazioni memorabili. Nel discorso di inaugurazione della Conferenza Internazionale sull'Unità e la Riconciliazione del Ruanda, nel maggio del 2004, il presidente ruandese Paul Kagame ha messo i puntini sulle i. Ha ricordato i fatti all'Assemblea, aggiungendo che molti fra i presenti in sala ne sapevano molto di più di quanto volessero ammettere. Kagame ha distinto nettamente le tre situazioni. “Nel 1994 in Ruanda, dei Ruandesi sono morti con le armi in pugno; noi abbiamo fermato il genocidio, ma non pensate che l’abbiamo fatto cantando o recitando poesie a coloro che trovavamo nell'atto di massacrare; li abbiamo combattuti con le armi e li abbiamo vinti – chiaramente molti sono morti. Poi alcuni nostri militari sono stati condannati a morte e giustiziati per essersi vendicati, violando il divieto formale di vendicarsi. Siamo chiari, i soli massacri sistematici programmati furono quelli commessi nei confronti dei Tutsi, per la sola ragione che erano nati Tutsi. E quando parliamo di genocidio, ha precisato allora il Presidente Kagame, noi parliamo di genocidio dei Tutsi (15). Questo discorso segna una nuova tappa nel modo di parlare del genocidio in Ruanda.
Un altro passo importante è stato ancora compiuto quando il TPIR (Tribunal pénal internationale pour le Rwanda) ha deciso di interrompere la deprecabile abitudine per cui i difensori degli accusati negavano puramente e semplicemente l'esistenza stessa del crimine di cui erano accusati i loro clienti. Nel caso Karemera la Corte d'Appello decise che “il genocidio non aveva bisogno di essere dimostrato davanti ai giudici”. Tuttavia bisognò attendere più di due anni per vedere il Parlamento Ruandese appropriarsi della questione e decidere che, nelle tre lingue del Ruanda, si deve parlare di genocidio dei Tutsi. Il dibattito non è ancora chiuso. Ma il partire da una base chiara porta la discussione a precisare alcuni aspetti e permette di discutere infine come si è giunti al genocidio. .
Prender coscienza della distanza che ci separa dal Ruanda, superare l’immediato... indagare la prassi.
Lo sguardo dell’analista del genocidio dei Tutsi trova almeno due ostacoli, contraddittori in apparenza. Si tratta del paradosso della distanza e della vicinanza (16) nei confronti all'avvenimento.
La distanza geografica e culturale reale rischia a volte di tramutarsi in distanza psicologica. Geograficamente il Ruanda è nel cuore dell'Africa, su cui circolano varie supposizioni. Antica colonia tedesca (fino al 1916) passata poi sotto tutela belga fino al 1962, molti ne ignoravano persino l’esistenza. Inoltre la scarsa bibliografia disponibile al momento del genocidio è principalmente composta di opere di ispirazione coloniale. Queste cioè danno una visione razziale della società ruandese. In Ruanda si è sviluppato l'ultimo genocidio del XX secolo. Con questa “barbarie al machete” il Ruanda ripiomba l'osservatore “nel cuore di tenebre” e la distanza che questo crea fa ipotizzare un antagonismo fra barbarie e civiltà. Sarebbe abietto fermarsi lì.
Concretamente il Ruanda è lontano soprattutto perchè l'universo ruandese è difficilmente accessibile al ricercatore venuto dall'Occidente, che non può accedere direttamente né alla lingua, né alle tradizioni. L’osservatore occidentale non ha nessuna indicazione precisa in merito al codice culturale di un popolo che non è mai stato realmente guardato per ciò che è, ma per ciò che si credeva o si voleva fosse. Il ricercatore deve dunque sbarazzarsi dei suoi presupposti sull'Africa e sul Ruanda ed accettare di guardare con occhi nuovi.
La vicinanza col genocidio dei Tutsi è l'altra realtà con la quale il ricercatore, ruandese o straniero, deve confrontarsi. In effetti nell’epoca della tecnologia dell'informazione si può avere l'impressione d'aver vissuto in diretta i massacri della primavera del 1994 e di vivere di continuo l'attualità ruandese, soprattutto grazie a internet. Questo porta a dimenticare la distanza concreta e la distanza metodologica da mantenere. C’è vicinanza anche per il tempo trascorso...poco più di 14 anni! E' troppo poco, il rapporto tra storia e attualità ne risulta indebolito.
Si sa che per provare a rendere intelliggibili i meccanismi che hanno portato al genocidio dei Tutsi bisogna accettare di abbandonare le proprie abitudini nei confronti dell'Africa, andar oltre l’immediato in favore della durata. Indagare sia la pratica che la propaganda anti-tutsi, ma soprattutto l'architettura burocratica e amministrativa che ha reso possibile questo crimine - di massa a doppio titolo, sia per il numero delle vittime che per il numero delle persone implicate negli omicidi. Genocidio di vicinanza in più di un senso, perchè non si è soltanto ucciso il proprio vicino (a volte un congiunto, un vicino, un amico di cui si conoscevano bene le abitudini o che era venuto a cercar rifugio), ma anche perchè i metodi di uccisione – machete, randello, mazza o piccola zappa – esigevano una vicinanza fisica innegabile (17). Si tratta di mettersi il più vicino possibile al terreno e raccogliere, interrogare per costituire un archivio completo, degno di un argomento così complesso. Si tratta di passare per una sorta di antropologia storica (18) senza che ciò comporti una frattura tra il nostro mondo, che ipotizziamo civilizzato, e il loro, che rischia di essere ipotizzato come primitivo, barbaro.
Azzardare il confronto tra la Shoah e il Genocidio dei Tutsi...
Se il Ruanda è in Africa, se la società ruandese degli anni 1980-1990, per lo più agricola e povera, ha pochi punti in comune con la società tedesca degli anni trenta, è però vero che queste due società hanno prodotto a cinquant'anni di distanza genocidi la cui architettura offre numerosi punti comuni. Dobbiamo studiare (19) il discorso hitleriano e quello degli estremisti hutu dal punto di vista delle strategie discorsive inpiegate e dell'ideologia veicolata.
Strategie discorsive.
Con l’analisi separata del discorso di 4 ore tenuto da Hitler del 13 agosto 1920 e di un insieme di discorsi di Kangura, la voce del potere Hutu, e applicando un metodo di analisi cognitivo-discorsiva con il programma Tropes, è stato possibile identificare alcuni tratti identici della strategia discorsiva.
- La presentazione di due mondi opposti ed esclusivi: quello dell’oratore, condiviso dagli ascoltatori, e quello degli “altri”; “noi” contro “loro”. Il mondo di Hitler e dei Tedeschi contrapposto a quello degli Ebrei; quello dello Hutu Power e dei Ruandesi contrapposto a quello dei Tutsi. Sono mondi antagonisti ed esclusivi, che non possono coesistere: uno dei due è votato ad una sparizione ineluttabile, deve essere sterminato.
- Gli “altri” sono evocati soltanto per attestare la loro cattiva natura; sono malvagi, anti-nazionali, pericolosi, invasori... tutto l’opposto dei destinatari del discorso, cioè “noi”. Gli “altri” servono a creare l’occasione di raduno, lo spazio di parola, e i provvedimenti da prendere rapidamente. Il discorso non è rivolto né agli Ebrei, né ai Tutsi, parla di loro senza preoccuparsi della loro opinione. Non gli si chiede nulla, si constata il loro crimine e si pronuncia la sentenza.
- La storia, la genetica, la religione, la biologia ecc. sono deviate e citate a sostegno delle tesi razziste; servono a giustificare i provvedimenti di sterminio annunciati. Contraddizioni e falsità non sembrano disturbare né gli autori né gli ascoltatori.
- Le future vittime sono designate con termini presi a prestito dalla zoologia e dalla parassitologia, come per scaricarli il più lontano possibile dal mondo degli umani: parassiti, pulci, scarafaggi, microbi, serpenti, topi, bacilli o virus designano per esempio gli Ebrei o i Tutsi.
- Il discorso accusa le vittime future di rimuginare un progetto di sterminio dei futuri carnefici. Il che non deve essere visto soltanto come un cinismo fuori dal comune, ma anche come la giustificazione anticipata dei massacri che si preparano, in quanto legittima difesa.
Questo elenco non mira ad essere né esaustivo né esclusivo. Nulla ci permette ad esempio di affermare che altri discorsi d'odio non ricalchino parzialmente lo stesso schema strategico. Possiamo però dire che tutti questi tratti sono presenti nei discorsi dei genoicidi.
L'ideologia veicolata.
L'ideologia genocida mira ad espellere progressivamente le future vittime dal mondo degli umani: da stranieri a nemici, da sottuomini a specie animale nociva, ecc...Per i futuri carnefici il lavoro di mobilitazione al massacro va di pari passo con il lavoro di disumanizzazione delle future vittime. Le caratteristiche identitarie sono rimaneggiate e strumentalizzate, la teoria del complotto e l'imminenza di un pericolo assoluto sono manipolati sapientemente da spiriti infiammati che non cercano più contro-prove. La struttura del discorso porta alla frattura assoluta tra “noi” e “loro”. Nessun aspetto è trascurato: economia, politica, relazioni umane, cultura e tradizioni...il “male” è localizzato ovunque ed è una minaccia.
Per una visione comparativa dell'universo discorsivo dei nazisti e del Potere Hutu, sottolineaiamo alcuni punti:
*L'aboriginalità: con questo termine viene indicato tutto ciò che oppone fondamentalmente il popolo, la maggioranza, il cittadino per nascita, il Tedesco, il Ruandese, lo Hutu, allo straniero, all’invasore, al senza patria, all’Ebreo, al Tutsi. Il discorso attribuisce al suo obbiettivo un'origine straniera. Nel discorso del 13 agosto 1920 Hitler dice dell'Ebreo: “L'ebreo viveva allora come un parassita sul corpo degli altri popoli...( ) un tale popolo non fonderà mai il proprio stato e preferirà vivere attaccato a un altro stato”. Alla domanda che Hitler si pone, se anche l'Ebreo può creare uno stato, Hitler risponde che i tre tratti fondamentali per creare uno stato - il lavoro, la purezza razziale e la vita intima spirituale - fanno naturalmente difetto all'Ebreo: “se queste tre qualità fanno difetto ad un popolo, questo non può costruire uno stato, ecco la verità. Attraverso i secoli l'Ebreo è sempre stato nomade, anche se in grande stile. Mai ha avuto ciò che noi definiamo uno Stato”.
Quanto a Kangura, ecco ciò che dice dei Tutsi: “ Ricordiamo ancora la storia del loro arrivo in Ruanda dietro ai loro armenti, alla ricerca di pascoli.” Tutsi o Ebrei sono stranieri in patria, il discorso non esita a metterli in netta opposizione ai veri nativi.
*La razza/etnia: sotto questa voce si ritrovano il tema della purezza della razza o dell'autentica identità ruandese, e la nobiltà che il lavoro conferisce all'Hutu o al Tedesco, contrapponendoli agli Ebrei o ai Tutsi che non amano il lavoro e vivono alle spalle degli altri. Di cattiva razza o etnia, gli Ebrei come i Tutsi si abbandonano all'incesto per restare tra loro, ma paradossalmente sono anche accusati di praticare matrimoni misti per dominare!
Hitler sull'Ebreo: “Vi ho appena spiegato che questo lungo periodo a Nord ha purificato le razze..(... ). Anche in questo l'Ebreo si distingue, non è di razza pura e ha praticato l'incesto riproducendosi in modo ineguagliabile (...) Vediamo qui crescere una specie che, attraverso questo incesto, porta in sé tutti i difetti inerenti una volta per tutte all'incesto. (...) La seconda cosa contro la quale l'Ebreo che vive da parassita deve volgersi è la purezza della razza, sorgente della forza di ogni popolo. L'Ebreo, nazionalista come nessun altro popolo, non si è mai mischiato con le altre razze attraverso i millenni e non ha usato il meticciato se non per degenerare gli altri”.
Ecco che cosa dice dei Tutsi Kangura, rivista portavoce del Potere Hutu, sotto un titolo che non potrebbe essere più esplicito, “Da una blatta non può nascere una farfalla”; “Gli specialisti della genetica ci dicono che la debolezza demografica dei Tutsi è dovuta al fatto che non si sposano che tra loro. Persone generate in una stessa famiglia che si sposano e riproducono tra loro! (...) Abbiamo incominciato col dirvi che dalla blatta non può nascere una farfalla ed è vero. Una blatta genera un'altra blatta (...). La storia del Ruanda ci mostra che il Tutsi è rimasto identico a se stesso e non è mai cambiato. (...) In Ruanda trovarono dei reucci hutu che si chiamavano Abahinza e utilizzando la loro abituale malizia, che consiste nell'offrire le loro vacche e le loro figlie, rovesciarono gli Hutu e si impadronirono del potere.”
*Il “male” è nel sangue: tanto l'Ebreo quanto il Tutsi sono cattivi per natura e non possono cambiare, è nei loro geni... Questo è un passaggio del discorso di Hitler: “E per questa particolarità, che lui stesso ammette, del non poter sfuggire a quel che viene dal proprio sangue, c'è già nell'Ebreo la necessità di porsi come distruttore dello stato. Non può farne a meno, che lo voglia o no. (...) Manca all'Ebreo la vita intima dell'anima:”
Il Tutsi descritto da Kangura è cattivo per natura e non può cambiare: “La malizia, la cattiveria sono quelle che noi conosciamo nella storia del paese. Se, parlando la nostra lingua, lo definiamo serpente, è sufficiente. Un Tutsi seduce con la parola, ma la sua malvagità è incommensurabile. In un Tutsi il desiderio di vendetta non si spegne mai, non si puo’ mai sapere che cosa pensa, ride quando soffre atrocemente(...). I seguenti proverbi attestano la malvagità naturale dei Tutsi:
- cura il sesso di un Tutsi, ti prenderà la donna.
- ricevi un Tutsi come ospite e quando arriverà la notte ti scaccerà dal tuo letto.
- In swahili si dice: il piccolo di un serpente è un serpente.
Questi proverbi dimostrano che la malvagità e l’arroganza dei Tusti non sono una novità, che ci sono sempre state.’
*Le armi dell'Ebreo e del Tutsi: le donne e il capitale. Le donne tutsi o ebree sono accusate di partecipare attivamente al combattimento dei loro fratelli. Si attribuisce loro un fascino ammaliatore ed una dedizione senza limiti alla causa della loro razza. L’“Ebreo internazionale” benchè responsabile del comunismo, è accusato di avere inventato e manipolato il capitale, del quale si avvale per infiltrarsi e dominare il mondo. In quanto ai Tutsi, si avvalsero un tempo della vacca, la ricchezza per eccellenza. Il Tutsi attuale ha intrallazzi grazie al denaro. È accusato di essersi infiltrato nella vita economica per controllarla e usarla per la lotta contro gli Hutu e tutti i Bantu! Il nemico ebreo, come il nemico Tutsi, è internazionale; il complotto è mondiale per gli Ebrei e regionale per i Tutsi.
Dei Tutsi Kangura dice : “E' per malvagità o per interesse che i Tutsi mantengono i rapporti con il popolo di maggioranza (hutu). Se un Tutsi vuole ottenere qualcosa da un Hutu è pronto a qualsiasi sacrificio e usa tutti i mezzi, compreso il denaro, le sue sorelle o sua moglie (...)I Tutsi si sono sempre serviti di due armi che considerano efficaci contro gli Hutu: il denaro e le donne Tutsi.” Nei famosi dieci comandamenti degli Hutu, i primi tre si propongono per prima cosa di gestire i rapporti con le donne Tutsi! Il primo comandamento è il seguente: “Ogni Hutu deve sapere che una donna Tutsi, ovunque sia, lavora al soldo della sua etnia tutsi. Perciò è traditore ogni Hutu che sposa una Tutsi, che fa di una Tutsi la sua concubina, che fa di una donna Tutsi la sua segretaria o la sua protetta.”
*Le persecuzioni e i massacri: massacri, persecuzioni... Crimini di cui Ebrei e Tutsi sono stati vittime a più riprese. Quando se ne parla è per giustificarli, per rivoltarglieli contro: li si accusa d'aver perseguitato i loro accusatori e di prepararne lo sterminio.
Così Hitler afferma “Nei millenni l'Ebreo si è così introdotto ed intrecciato nelle razze, e noi sappiamo perfettamente che ogni volta che arrivava in una zona, il cedimento iniziava a delinearsi, non lasciando ai popoli altra soluzione che sbarazzarsi dell'ospite indesiderato per non affondare”. Un po' più in là afferma: “Ma quando una razza distrugge sistematicamente le condizioni di vita della mia razza, mi importa sapere chi è…(Questo ) l'ha portato quasi subito alla necessità di dominare i popoli in seno ai quali voleva vivere, e distruggere prima la struttura interna di questi Stati. Vediamo la distruzione avvenire in tre direzioni, proprio quelle che sono essenziali per lo Stato e che hanno effetto costruttivo”. Per Kangura il Tutsi si prepara a dominare l'impero hima (20) e procede a stermini di massa:” Sappiamo che hanno attaccato con l'intenzione di massacrare 4,5 milioni (21) di Hutu, soprattutto quelli che sono andati a scuola, come fanno in Burundi, ma Dio glielo ha impedito (... )Il pericolo però non èancora fugato. Il nemico è sempre qui in mezzo a noi e attende soltanto il momento propizio per liquidarci. (...) Quindi, ovunque siate, siate fermi e vigili, prendete le misure necessarie per dissuaderli da una nuova aggressione”. Precorrendo le scene macabre che si vedranno durante il genocidio, Kangura le proietta sui Tutsi e li accusa di aver già commesso questi crimini: “Prendevano un Hutu, gli tagliavano i genitali e li mandavano a sua moglie, quando non glieli facevano mangiare.”
Per concludere ...
Dal confronto non emergono cause, e anche se la pratica comparatista è normale nella ricerca storica, è bene anche attenersi alla cautela di Hannah Arendt nel 1951: ”Comprendere non significa dedurre a partire dai precedenti qualche cosa che è senza precedenti; nè spiegare i fenomeni per analogie e generalizzazioni onde annullare lo choc”(22).
Sottolineare che tra i discorsi di odio contro gli Ebrei e quelli contro i Tutsi ci sono più che semplici analogie non è un fine in sé. È invece importante come invito alla ricerca approfondita, alla luce di ciò che è stato realizzato finora nella conoscenza della Shoah. Non per distribuire i ruoli, dividere le caselle tra gli architetti della Shoah e coloro che hanno organizzato lo sterminio dei Tutsi, che sarebbe assurdo. Ma per addentrarsi in un terreno epistemologico, liberato dagli storici della Shoah insieme ad altri, al fine di “interessarsi a ‘come’ si è realizzato l'avvenimento (genocidio dei Tutsi), il che porta a conoscere più da vicino coloro che lo perpetrarono, le vittime e gli spettatori” come scrisse Raul Hilberg (23).
Il genocidio dei Tutsi della primavera 1994 si sviluppa lontano dal mondo occidentale, ma le tecnologie dell'informazione ci mostrano quello che si capisce avvenire in Ruanda. Eccoci nel paradosso assoluto di “distanza e vicinanza”. E' importante andar sul campo, accettando il dubbio, dando per scontata l'ignoranza di certi fatti, e impegnarsi in un lavoro di vera archeologia dei siti del crimine contro i Tutsi in Ruanda.
Sono già apparse opere d'inchiesta serie, saggi, testimonianze e alcuni programmi di ricerca, ma resta ancora molto da fare per mettere in luce quelli che Goetz Ali e Suzanne Heim chiamarono per la Germania, il loro paese, “gli architetti dello sterminio” e quella che chiamarono “la logica dell'annientamento”.
(1) Georges Bensoussan, Europe, Une passion génocidaire. Essai d'histoire culturelle, Paris Mille et une nuits, 2006
(2) Jean Hatzfeld è autore di tre opere sul genocidio dei Tutsi: Dans le nu de la vie (Paris, Seuil 2000) “Une Saison de machette” (Paris, Seuil 2003) e “La Stratégie des antilopes” (Paris, Seuil, 2007)
(3) Argomento trattato dall’Autore alla conferenza dell’UNESCO il 4 aprile 2004: ‘A10 anni dal genocidio dei Tutsi, la ricostruzione dell’identità individuale e sociale delle vittime’.
(4)Tratto principalmente dal memoriale di Assumpta Mugiraneza, Le discours de la Haine ou des dires génocidaire, Hitler et le génocide des Juifs/ Kangura et le génocide des Tutsi, Mémoire de psychologie sociale, Université de Paris VIII, 1999. Degli estratti di questo memoriale sono stati pubblicati nel libro “En hommage à Simon Wiesenthal” di Assumpta Mugiraneza, “La Lutte contre l'antisémitisme, un paradygme pour contenir la négrophobie? “ di Michel Finenberg, Shimon Samuel, Mark Wieszman (dir.) in inglese nel 2007 e in francese nel 2008. Estratti di questo memoriale sono stati altresì pubblicati ne “Le génocide des Tutsi, dix ans après” La Revue Humanitaire 2004.
(5) In Ruanda, l'implicazione popolare nello sterminio ha raggiunto proporzioni inedite. Vedere Jean Paul Kimonyo, Rwanda, un génocide populaire, Paris, Karthala, 2008
(6) Nelle operazioni di infiltrazione e di destabilizzazione a partire dai campi di “rifugiati” nell'ex Zaire, la priorità era portata a sterminare i i superstiti del genocidio.
(7) Per il Potere Hutu, i precedenti massacri di Tutsi non avevano risolto il “problema Tutsi”, si erano lasciati fuggire i bambini e le donne. Avevano avuto buon gioco a citare i due capi della ribellione FPR, il defunto Fred Rwigema e Paul Kagame, che erano fuggiti in Uganda, quando erano piccoli. Questa volta, non bisognava soprattutto fare lo stesso errore. Così, la rivista Kangura insegnava che il piccolo di un serpente è un serpente e che bisognava uccidere il serpente e i suoi piccoli e rompere le uova.
(8) Per saperne di più, vedere Jean Hatzfeld, Une saison de machettes, op.cit.
(9) Vedere Jean-Pierre Chrétien (dir.) Rwanda, les médias du génocide, Paris, Karthala 1995
(10) Vedere Patrick de Saint-Exupery, l'Inavouable, La France au Rwanda, Paris,Les Arènes, 2004. Questo resta memorabile uscendo dalla bocca del presidente François Mitterand, nel 1994, poi, nove anni più tardi, dal primo Ministro francese Dominique de Villepin.
(11) Per ulteriori informazioni, vedere in questo stesso numero gli articoli dedicati al negazionismo sul genocidio dei Tutsi: A. Muginareze “Negationnisme au Rwanda post-génocide” pp 285-298. H. Dumas “L'Histoire des vaincus. Negationnisme du génocide des Tutsi au Rwanda” pp. 299-348.
12) Dallo sterminio /sradicamento, sterminio razziale o etnico, sterminio dei Tutsi - al genocidio dei Tutsi.
(13) Gacaca /si pronuncia gatchatcha): giurisdizioni tradizionali che mettono l'accento sulla presa di parola da parte dei protagonisti, la ricerca della verità e la riconciliazione delle parti. Sono state riadattate e ricostituite per giudicare gli esecutori del genocidio dei Tutsi.
(14) Traduzione nostra.
(15) L'autrice di questo articolo, venuta dalla Francia, era presente a questa conferenza. Ella cita queste annotazioni nel rapporto inviato all'Associazione “Comunità ruandese in Francia” e traduce dal kinyarwanda in francese.
(16) La nozione di distanza e di vicinanza è ripresa con più precisione da A. Migiraneza “ Négationnisme au Rwanda post génocide” pp. 285-298 in questo numero.
(17)Vedere i registri delle giurisdizioni Gacaca. I metodi di assassinio sono ben identificati. La procedura prevedeva l'identificazione delle armi. Dal livello amministrativo più basso nella raccolta di informazioni fino ai processi in cui gli accusati e i testimoni dovevano, ogni volta, precisare l'arma del crimine.
(18) Per ulteriori informazioni, vedere Stéphane Audoin-Rouzeau, Combattre. Une anthropologie historique de la guerre moderne (XIXè – XXIè siècles ) Paris, Seuil, 2008.
19) A. Mugiraneza Le discours de la haine. op. cit.
(20) Il complotto tutsi, secondo i discorsi di odio anti-tutsi, mira a stabilire la dominazione Tutsi nella regione dei Grandi Laghi (Ouganda, Rwanda, Burundi, Tanzania e gran parte dell'ex Zaire). Ipotesi delirante che non è scomparsa nei discorsi a fondo negazionista.
(21) Siamo alla fine del 1990 e i 4,5 milioni di Hutu rappresentano la quasi totalità degli Hutu, secondo le statistiche etniche dell'epoca.
(22) The Origins of Totalitarianism, New York, Harcourt, Brace & Co. 1951 (in inglese) apparso in francese col titolo “ Les Origines du totalitarisme, Paris, Fayard, 1984.
(23) Nella sua introduzione all'edizione del 2006 di La destruction des Juifs d'Europe (Paris, Gallimard, coll. Folio Histoire, 3 vol.)
(24) Si tratta del titolo dell'opera di Goetz Aly e di Suzanne Heim, apparso nel 2006 Les Architectes de l'extermination, Auschwitz et la logique de l'anéantissement, Paris, Calmann-Levy/ Mémorial de la Shoah, 2006.
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