Perchè degli Hutu hanno perpetrato il genocidio dei Tutsi in Ruanda nel 1994? In base a che cosa si differenziano queste due categorie identitarie? Perché e come si è arrivati all’estremo? Domande cui non si può rispondere senza analizzare l’evoluzione decennale di un processo discontinuo che ha condotto un popolo a partecipare in massa alla sistematica e radicale uccisione di un gruppo umano. Nelle società del XX secolo il genocidio non avviene soltanto perchè i capi ne danno l’ordine ai subordinati: gli assassini non obbediscono soltanto all'autorità.
Sono convinti di dover uccidere perchè la propaganda ha distillato paura e odio, ma anche perchè da lungo tempo la loro società è stata immersa in un bagno di violenza ed essi ora si pongono aldilà di ogni vincolo morale. Questa follia omicida, che nello spazio di una primavera ha fatto esplodere la società ruandese, ha origini remote e cause multiple. Il confronto con il genocidio degli Armeni al tempo dell'Impero Ottomano e con la Shoah, genocidi per molti aspetti esemplari, dimostra che, lungi dall' essere uno di quei conflitti inter-etnici che il razzismo europeo attribuisce sprezzantemente al continente africano, questo crimine ben pianificato da uno stato totalitario - che esercitava un controllo totale sui cittadini - porta il marchio della modernità. Presenta inoltre la particolarità di coinvolgere degli Europei tanto nella sua genesi che nella sua esecuzione, e di essere indirettamente un’ultima manifestazione dell'imperialismo.
Paura, odio, vendetta, cupidigia, ignoranza, stupidità, menzogna, alterigia, disprezzo: un miscuglio di tutti questi sentimenti ha provocato la morte di 800.000-1.000.000 di Tutsi e di molte migliaia di Hutu moderati – la rapidità e l'estrema violenza del crimine impediscono il conteggio esatto e ancora oggi dobbiamo limitarci ad una stima.
A leggere e ad ascoltare i media e i politici manipolati da un negazionismo sottile, la verità sarebbe ambigua, una per le vittime, l'altra per i carnefici. Ognuno avrebbe una parte di colpa. Non resterebbe che dimenticare l’avvenimento, lasciandolo avvolto nella nebbia storiografica. Ma questo vorrebbe dire dimenticare un dato essenziale: le vittime del Potere Hutu erano tutte innocenti. Uomini o donne, adulti o bambini, queste persone braccate come selvaggina non avevano né il potere, né l'intenzione di nuocere. Il rispetto più elementare dovuto alla loro memoria impone di restituire la storia di questa catastrofe senza nascondere nulla. Non c'è bisogno di essere uno specialista dell'Africa dei Grandi Laghi, neppure di essere un Ruandese e di parlare kinyarwanda – la lingua degli scomparsi come quella degli assassini – per essere in grado di rintracciare gli episodi successivi che, come anelli di una lunga catena, hanno reso ineluttabile il genocidio.
Se c’è un modo per prevenire genocidi futuri, questo presuppone la consapevolezza dell’ accrescersi del pericolo nel lungo corso della storia di un paese e, in questo caso specifico, il riconoscimento delle responsabilità, dirette o indirette, delle altre nazioni nella costruzione di un etnismo che si è rivelato un veleno mortale, e nel sostegno dato a uno stato apertamente razzista e genocida.
Il genocidio dei Tutsi è la conseguenza diretta di una visione etnica della storia del Ruanda.
Il mito che tre razze – i Twa, gli Hutu e i Tutsi – si siano installate in successione su questo territorio, e che ci sia stata una lotta fra gli invasori camiti (Tutsi) ed i bantu (Hutu), è un'assurdità inventata nel XIX secolo dagli Europei e veicolata dall'amministrazione belga negli anni 1930. I ricercatori sanno che, a partire da un popolamento antico, si è costituito progressivamente un regno centralizzato, intessuto di lignaggi e clan, che in due secoli ha raggiunto la dimensione odierna. La divisione tra Tutsi e Hutu precede certamente l’arrivo degli Europei alla fine del XIX secolo. Ma il conflitto razziale con cui si vorrebbe spiegare la società ruandese è in effetti un processo di ineguaglianza sociale costruito dal XVIII al XIX secolo. Per lo storico l'importante non è “registrare l'antichità delle parole ‘hutu’ o ‘tutsi’, ma spiegare i processi che hanno portato le genti del (...) Ruanda ad uccidersi nel XX secolo nel nome di queste appartenenze”(2).
Dobbiamo quindi affrontare questa storia scartando due asserzioni opposte: che non ci furono mai immigrazioni successive di Twa cacciatori e raccoglitori, di Hutu agricoltori e di Tutsi pastori; che prima dell'arrivo degli Europei i Ruandesi vivevano in pace sotto la guida del loro re. Per interrompere il legame diretto tra una storia immaginaria e le successive catastrofi dei massacri e del genocidio, gli storici hanno il dovere di “redigere una storia quanto più imparziale possibile, a partire da dati non contestati e accettati da tutti” (3), pur sapendo che le fonti non sono realmente affidabili che a partire dalla metà del XVIII secolo. Per comprendere la genesi di questa catastrofe bisogna iniziare dal conoscere la società precoloniale in questa parte dell'Africa dei Grandi Laghi, che fu l'ultima ad essere scoperta dai bianchi.
Il Ruanda precoloniale.
La storia del Ruanda prima dell'arrivo degli amministratori tedeschi può essere ricostruita soltanto da fonti orali. Malgrado l'abbondanza e la eccezionale varietà delle fonti orali, dobbiamo sottoporle ad una critica tanto più attenta in quanto i primi lavori storici – soprattutto quello dell'abate Alexis Kagame (4) – hanno tramandato la versione, prevalente nel XIX secolo, della storia del regno ruandese come regno nyiginya fondato nel XVII secolo. Versione in parte costruita su di un elenco dinastico immaginario. La ricerca condotta nel 2001 da Jan Vansina, basata sulla raccolta di tradizioni narrative ma anche sull'analisi dei ricercatori, ci sembra che si avvicini di più alla verità, soprattutto per quanto riguarda il Ruanda Centrale, su cui si estende il Ruanda attuale (5). Questo studio ci permette di capire in quale contesto sorgono le categorie twa, hutu e tutsi prima dell'arrivo degli Europei, e come questi ultimi le strumentalizzeranno per costruirne etnie. “Le tradizioni ufficiali oggi vive in Ruanda si standardizzano dopo il 1917 (...) e diventano versione stereotipata e definitiva verso il 1936”, ed è dunque questa versione che dobbiamo decostruire per restituire al passato la sua complessità (6).
Il Ruanda Centrale è un territorio di colline contornate da fiumi e da paludi, su di un altopiano a poco meno di 2.000 metri. Gli scavi archeologici mostrano un popolamento sorprendentemente stabile a partire dal neolitico. Vi coabitano comunità di lingua bantu, gruppi di agricoltori, di allevatori e di cacciatori-raccoglitori. In questa lunga storia le scissioni socio-culturali compaiono molto presto e si accentuano a partire dal secondo millennio. Gli spostamenti da una regione all'altra avvengono sulla spinta di fattori climatici ed economici. Riguardano piccoli gruppi, soprattutto di allevatori, il che è in contraddizione con la tesi di migrazioni massicce, sostenuta dalla storiografia ufficiale degli anni 1930.
Nel XVII secolo la popolazione del Ruanda Centrale è piuttosto densa. E' costituita da coltivatori, accanto ai quali vive una minoranza di allevatori, mentre piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori nomadi vivono alla periferia, in montagna o nelle paludi. Il mescolarsi di due economie , quella agricola e quella pastorale, è naturalmente fonte di conflitti, il che esige concertazione per regolare le liti. La cellula sociale è la discendenza patrilineare, la “casa” (inzul). Ricchi e poveri si distinguono per la quantità di terre e di bestiame di cui dispongono e per la quantità delle riserve accumulate. Più ‘case’ raggruppate costituiscono un “portale” (umuryango), cioè una discendenza più ampia che vive su di una stessa collina. Più ‘portali’ si riuniscono in una struttura più vasta, il clan (ubwooko), sistema sociale basato su alleanze e non sulla discendenza, dunque entità politica variabile.
Prima del XVII secolo veniva dato il nome di Twa ai cacciatori-raccoglitori e ad alcune comunità di vasai. Anche se la lingua e l'etimologia del termine sono sconosciute, allora il termine Tutsi indicava una classe sociale di allevatori che costituiva una élite, ed essi stessi si consideravano tali. Queste categorie sociali mantennero a lungo un’endogamia quasi totale. Così la popolazione del Ruanda centrale si distinse in tre entità biologicamente diverse, dunque identificabili, in un territorio frammentato in colline, domini di lignaggi diversi raggruppati spesso in piccoli regni. L'autorità del re (mwami) aveva base soprannaturale: era il rappresentante del dio (Imana). Il suo potere veniva acquisito con il rito di successione e la consegna delle insegne, la più importante delle quali era il tamburo. Il mwani assicurava la prosperità del paese con riti di fecondità – quella delle terre, del bestiame, dei sudditi. Alla periferia di questi piccoli regni il potere era esercitato da signori locali, gruppi di allevatori che disponevano di forza militare e potevano esercitare autorità sugli agricoltori sottomettendoli a corvées e a tributi.
Alla fine del XVII secolo Ruganga Ndori fondò il regno nyiginya. Ndori è veramente esistito o è il nome che designa sia il fondatore sia i suoi primi successori? Comunque sia, uno stato sorse allora nel Ruanda Centrale, a nord e a sud del fiume Nyabarango, dall’alleanza tra un nuovo venuto e le signorie locali. Ndori unificò le due sfere del potere, quello rituale e quello temporale, che prima di lui erano appannaggio di gruppi con diversa specializzazione, e creò un nuovo sistema politico. Nello stesso periodo alla periferia del regno nyiginya – che rappresentava appena il 10% della superficie del Ruanda attuale – si costituirono altri regni contro i quali egli entrò in conflitto. Il centro del regno di Ndori si trovava a Ndaga. Il regno aveva confini sfocati, estendeva il proprio dominio con campagne militari che erano razzie per impossessarsi di bestiame o di donne da ridurre in schiavitù, piuttosto che vere e proprie conquiste. Il re si insediava con la consegna del tamburo e del toro dinastico. La regina madre, che era tale per discendenza “matridinastica”, aveva altri poteri. Facendosi riconoscere nel Ruanda Centrale come re legittimo, Ndori creò un governo fondato su istituzioni – la corte, il distretto, il contratto di clientela pastorale con i sudditi, l'ubuhak – e un esercito. Depositario dell'essenza divina, regnava su una élite di lignaggi, i più influenti dei quali erano quelli dei ritualisti. Questa élite si impegnò nella costruzione di un sistema politico unico nella regione dei Grandi Laghi, un regno centralizzato che, non più diviso da crisi interne, si estese progressivamente. Il re e le istituzioni controllarono a poco a poco le greggi e i pascoli a scapito degli altri capi e dei piccoli allevatori.
La corte si spostava regolarmente e esercitava direttamente il potere attorno al luogo dove si stabiliva – nel raggio di una giornata di marcia circa – così che il dominio reale si estese appropriandosi anche dei pascoli sulle colline. Questa centralizzazione del regno fu resa possibile dalla costituzione di armate permanenti, il cui reclutamento era ereditario, per lignaggio. Il paese era in uno stato di guerra permanente. Si attaccava il nemico con la lancia o tiri d'arco. Non si risparmiava nessuno: gli uomini venivano uccisi, le abitazioni e i campi incendiati, il saccheggio era sistematico. Queste guerre permisero conquiste territoriali, soprattutto ad Ovest, ma provocarono carestie e migrazioni di allevatori e agricoltori.
Nel 1796 ci fu un colpo di Stato (l'usurpazione del potere da parte di Ruhujira), seguito da quindici anni di guerra civile, alla fine della quale la società ruandese fu trasformata: il potere del re si ridusse, quello delle grandi famiglie di corte aumentò. In quel periodo il numero dei lignaggi che costituivano la corte aumentò così tanto che nel XIX secolo la lotta tra lignaggi divenne sempre più dura. Tuttavia la popolazione del regno si accrebbe, nonostante le carestie dovute alla siccità e alle guerre. Questa densità demografica si spiega con l'adozione di nuovi metodi agricoli e con l'immigrazione venuta soprattutto dal Nord-Ovest. Si ebbe un rafforzamento del potere dei signori locali che si impadronirono del bestiame e moltiplicarono tasse e corvées. La scissione sociale fu istituzionalizzata da due provvedimenti che inasprirono il conflitto di interessi tra pastori e agricoltori:
- concessioni fondiarie elargite agli allevatori più potenti con l’ istituzione della funzione di “capo delle erbe alte” che concedeva il controllo sui pascoli pubblici che non facevano parte dei possedimenti diretti del re - che peraltro continuavano ad estendersi. Questi privilegi provocarono l’impoverimento degli agricoltori e anche dei piccoli allevatori che persero le loro greggi;
- l’imposizione di corvées, a partire dal 1870, agli agricoltori “capi delle terre”, o uburetwa.
Così nel XIX secolo la società ruandese si trovò divisa in due gruppi gerarchizzati e opposti, chiamati ormai Hutu e Tutsi. Nel regno nyiginya si chiamavano Tutsi i membri della nuova aristocrazia. “ Hutu“ era un termine di disprezzo, che significava “zoticone” o “villano”, ma anche straniero. Secondo Vansina, la prima differenziazione fra Tutsi e Hutu sarebbe avvenuta in seno alle armate, dove si chiamarono Tutsi i guerrieri e i bovari, Hutu i servitori non combattenti(7). Poichè la maggior parte di questi non combattenti appartenevano a lignaggi di agricoltori, poco alla volta si finì col chiamare Hutu gli agricoltori opponendoli agli allevatori, che fossero di lignaggio Tutsi oppure no. A metà del secolo la distinzione tra ‘capi delle erbe alte’ e ‘capi delle terre’ era la base della diversità, poi anche i piccoli allevatori rovinati dai grandi lignaggi divennero ‘Hutu’. “D'ora in poi i termini “Hutu” e “Tutsi” designeranno non più una situazione di classe o di dipendenza o di lavoro, ma uno status assoluto” (8). All'arrivo dei primi Europei la popolazione del Ruanda Centrale era conscia di questa divisione. Gli agricoltori ruandesi rifiutavano il nome spregiativo di Hutu; rivolte spontanee di agricoltori contro le autorità Tutsi scoppiavano al centro e nel sud del paese.
Alla fine del XIX secolo, alla vigilia della colonizzazione, le relazioni socio-culturali della popolazione erano già modificate. L'appartenenza al clan comportava un doppio legame: il legame reciproco fra i membri di uno stesso clan e il patto di reciproca solidarietà con i membri di un altro clan attraverso legami di paternità rituale. La paternità rituale legava per lo più un clan di “genti trovate sulla terra” - a maggioranza Hutu - a un altro clan di “coloro che vengono dall'alto” a maggioranza Tutsi (9).
Questa tradizione sociale assicurava la coesione della popolazione, coesione rinforzata dal cemento della monarchia, nonostante la debolezza dei re, e da una fraternità di culto.
Il trionfo delle grandi famiglie ebbe come principale conseguenza l'estensione del regno con l'incorporazione di terre a Ovest fino al lago Kivu, a Est con l’incorporazione del Bugesera e del Gisaka, a Nord con l’aggiunta del paese dei vulcani. Questo avvenne a causa di spostamenti spontanei di allevatori e di militari, che si muovevano insieme.
Nel 1860 il regno nyiginya era più che raddoppiato ed aveva raggiunto i limiti che avrà nel 1900. Il suo nemico più pericoloso era il Burundi, ma nessuno dei due regni era abbastanza potente per distruggere l'altro. Secondo Vansina il regno dell'ultimo re pre-coloniale del Ruanda, Rwabugiri (1867-1897), è segnato da “un’onda di terrore che parte dalla corte e si riversa su tutto il paese” (10). I cortigiani si fanno guerra per ottenere ricchezze e favori dal re. Il re usa le loro denunce per ordinare il massacro di interi lignaggi, il che alimenta il desiderio di vendetta dei sopravvissuti. Questo disintegra i lignaggi e lacera la società ruandese, mentre le armate devastano il paese con saccheggi e requisizioni.
Ntezimana non accetta questa interpretazione. Egli ritiene che la repressione dell'aristocrazia andasse a favore del popolo minuto, composto di Tutsi, Hutu o Twa, e dei residenti delle regioni appena conquistate (11). La fiammata di violenza che incomincia con il regno di Rwabugiri prosegue fino all'inizio dell'epoca coloniale belga. Ma, come sottolinea Jean-Pierre Chrétien, la frattura sociale è sulla base del lignaggio e non dell’etnia (12). La guerra funziona da “coagulante sociale” (Gerard Prunier): Hutu e Tutsi seguono il mwani (re) e si uniscono nel combattere (13). La composizione dei due gruppi rivali varia in ogni regione. Alla periferia del regno, soprattutto al Nord, lignaggi di potenti coltivatori ed allevatori che si sottraggono al potere reale si considerano in maggioranza Hutu. La grande maggioranza di coloro che si considerano Tutsi sono piccoli allevatori o agricoltori. Altri fattori oltre al lignaggio determinano il rango e l'identità sociale: la regione, i legami di clientela, le qualità individuali. Ciò non toglie che nel XIX secolo, man mano che l'autorità diventa più centralizzata, la proprietà della terra vada più ai Tutsi che agli Hutu. Ma va anche più agli abitanti del centro che a quelli della periferia, potenzialmente ribelli, che la monarchia esclude dalla élite dirigente (14).
I primi commercianti arabi appaiono in Ruanda nel 1840; dopo una grande siccità, di cui gli indovini attribuiscono la colpa alle carovane, l'accesso al paese è chiuso agli stranieri. Ma continua il commercio ambulante, veicolo di epidemie: vaiolo, peste bovina, afta epizootica. Gli esploratori - Stanley, poi Emin Pacha nel luglio del 1889 – precedono i coloni tedeschi. Il paese all’arrivo dei Tedeschi è estraneo alle divisioni etniche dell'Africa. Due gruppi, Hutu e Tutsi, si dividono lo stesso territorio, parlano la stessa lingua, il kinyarwanda, hanno le stesse credenze religiose e gli stessi usi cultuali. L'appartenenza a questi gruppi non è vissuta come identitaria. Prima della colonizzazione la suddivisione della società è per categorie sociali. Questa realtà non è tuttavia percepita dai primi colonizzatori, che osservando le apparenze applicano ad esse la propria visione razzista.
Nel 1863 John Hanning Speke, l'esploratore che aveva scoperto il lago Vittoria e lo considerava la sorgente del Nilo, sviluppa la teoria della dominazione delle razze superiori su quelle inferiori in Africa. Senza la minima prova, fondandosi unicamente sulla constatazione che nella regione dei Grandi Laghi gli individui sono più alti, più slanciati, hanno la pelle più chiara, egli decide che gli Africani che somigliano maggiormente agli Europei vengono dall'Etiopia del sud, sono una razza camitica di conquistatori, latori di una civiltà superiore, e collega l'arrivo di questa razza alle istituzioni monarchiche esistenti nella regione(15). Questa opinione è largamente condivisa dagli antropologi e dai missionari. E' dunque con questi pregiudizi che i primi Europei penetrano in Ruanda e identificano nei Tutsi la “razza di signori”, distinta da quella dei neri.
Il protettorato tedesco (1897/1916).
Nel 1885 la Conferenza di Berlino spartisce l'Africa tra le potenze europee. La frontiera orientale dello stato del Congo, proprietà del Re dei Belgi Leopoldo II, viene delimitata con una linea obliqua che attraversa il lago Kivu. Nel 1890 Germania e Gran Bretagna si spartiscono i territori a est di questa linea: l'Uganda alla Gran Bretagna, il Ruanda e il Burundi alla Germania.
Una prima spedizione è guidata dal tenente von Goetzen nel 1894. Quando i Tedeschi tornano in Ruanda nel 1897, il paese è in crisi: Rwabugiri è morto e la sua successione apre un periodo di irrequitezza. Il re Musinga viene insediato nel 1897 con l'aiuto dei Tedeschi. L'istituzione di un protettorato tedesco permette alla regina madre di imporre il potere del figlio, giudicato usurpatore dalla corte.
I Tedeschi aprono la via ai Padri Bianchi, ordine creato dal cardinale Lavigerie. Questi missionari sono inviati in Ruanda a partire dal 1900. Si installano nel paese cinque missioni fra il 1900 e il 1903. La presa del cattolicesimo però è lenta: ci sono 10.000 cattolici nel 1910, su una popolazione di 1.500.000 abitanti. I Tedeschi adottano una politica coloniale di gestione indiretta del potere. Aiutano perciò il mwani (re) a domare le ribellioni: nel Gisaka nel 1900 e nel Nord nel 1912. Questa repressione accentua l'odio tra i capi della regione (hutu, twa, ma anche tutsi) e i capi tutsi della corte. I coloni tedeschi e l'aristocrazia tutsi collaborano strettamente con i religiosi nella ricerca di terre e di mano d'opera. Nel 1907 il Ruanda viene separato dal Burundi. Per creare una capitale a questa colonia, il generale Richard Kandt fonda Kigali e vi si installa.
Durante la Grande Guerra le truppe belghe invadono il Ruanda e attaccano il piccolo contingente tedesco. Kigali è presa e il paese è occupato militarmente. I Belgi la fanno da padroni nel paese, e provocano una carestia nel Nord nel 1917. La corte e i capi si sottomettono ai nuovi occupanti.
Mandato e tutela belgi (1916-1962).
Nel 1919 il Ruanda è amministrato dall'esercito belga. Nel 1922 la Società delle Nazioni attribuisce al Belgio un mandato di tipo B sul Ruanda-Urundi, un'entità di 52.000 km2 con 5 milioni di abitanti. E’ un mandato per amministrare il paese senza crearvi basi militari e rispettando la libertà di religione. I Belgi fanno causa comune con i Padri Bianchi, per lo più francesi. I Missionari si attribuiscono il monopolio del commercio del legname e delle stoffe, e soprattutto quello dell'insegnamento, e diventano gli attori principali della vita politica del paese.
Il vescovo Léon Classe, arrivato nel paese nel 907, è nominato nel 1922 vicario apostolico del Ruanda. La scuola per i figli dei capi, creata su richiesta del re nel 1919, non dispensava insegnamenti religiosi. Ma nel 1932 viene rimpiazzata dal groupe scolaire d'Astrida, gestito dai Fratelli della Carità di Gand. Astrida formerà le future élites del paese. Gli allievi di questa scuola, in particolare quelli destinati all'amministrazione, sono in maggioranze Tutsi. Il privilegio di accedere alla scuola e agli studi superiori è così aperto su base razzista: i Tutsi sono ‘’capi per nascita” e hanno “il senso del comando”. Si costituisce una piccola élite tutsi, ben lontana dal rappresentare l'insieme dei Tutsi, che in maggioranza restano, come gli Hutu, sottomessi all’elite dirigente controllata dai colonizzatori.
A partire dagli anni '20 i pochi notabili ruandesi aiutano l'amministrazione belga e i Padri Bianchi a ridurre il potere del re. Questi è costretto ad accettare la libertà di religione, ma continua ad opporsi al Cristianesimo. Deve accettare la soppressione di parecchi attributi della monarchia, fondati sul ritualismo. Nel 1928 l'amministrazione coloniale semplifica la struttura politica del paese. Sopprime le gerarchie di lignaggio, che da secoli assicuravano la coesione del sistema monarchico. Il potere dei tre capi – capi delle terre, capi delle erbe, capi dell'armata - di cui il primo hutu, gli ultimi due spesso tutsi – è sostituito dal potere di un unico capo, rigorosamente tutsi, che guida unità amministrative, dette signorie, suddivise in sotto signorie. Questa riforma amministrativa causa la burocratizzazione del paese con esclusione quasi totale degli Hutu.
Il quiproquo etnico parte da questa premessa: la selezione abituale dei capi in base a caratteristiche che in parte derivano dal lignaggio. Inoltre i vecchi tributi sono soppressi e sostituiti dalla tassa di una giornata di lavoro settimanale (uburetwa) e dalla requisizione di uomini adulti per lavori d'interesse pubblico non remunerati (akazi). Questa riforma causa una migrazione massiccia verso il Congo, l'Uganda e il Tanganika (16). Nel 1931, a richiesta di Monsignor Classe, il mwani Musinga è destituito dal vice governatore Voisin. Suo figlio Rudahigwa, che si è convertito al Cattolicesimo, è proclamato Mwani e riceve da monsignor Classe il nome regale di Mutara. Il rituale dinastico è soppresso. I dignitari di corte, e dopo di loro un gran numero di Ruandesi, si convertono al Cattolicesimo: si tratta della “ Tornade du Saint Esprit “ (Il tornado dello Spirito Santo) . “La sconsacrazione della monarchia ruandese la svuotava del contenuto culturale e politico che in passato era riuscito a mantenere una certa unità nazionale” (17).
L'amministrazione coloniale usa la centralizzazione del vecchio regno ruandese per mantenere il controllo a proprio vantaggio. Ha una visione semplicistica della monarchia, vista – in ottica europea - come una società feudale costituita per sedimentazioni successive di tre strati di popolazione, ognuna identificata come razza: i Twa, i pigmei che vivono nella foresta; i coltivatori Hutu che dissodano il terreno; i pastori Tutsi venuti dal Nord con le loro greggi a opprimere gli Hutu. Per sostenere questo mito razziale, prodotto della cultura coloniale e missionaria che riduce una società complessa alla lotta tra due “razze” identificate con criteri somatici (18) (il termine“etnia”non appariva ancora nel discorso), i Belgi e i missionari contribuiscono alla redazione di una storia immaginaria del Ruanda che si basa sul fantasma di un impero feudale Hima. Questa storia è creata a partire dalla teoria camitica, in voga dopo Speke. Con la benedizione di Monsignor Classe, l'abate Alexis Kagame redige la prima storiografia del Ruanda. I Tutsi, che gli antropologi pretendono di identificare dalla statura, dal colore della pelle, dalla capigliatura e dalla forma del cranio, sarebbero venuti dall'Etiopia e dall'Egitto con i loro armenti. Questi Camiti diventano degli Africani “non negri”.
E' così che la società del Ruanda è investita da miti che spacciano ideologie razziste per fatti storici. A forza di ripetere ai Tutsi che appartengono ad una élite e agli Hutu che sono inferiori, ciascun membro della società ruandese finisce per forgiarsi una identità etnica e i due gruppi, abituati a convivere con differenze accettate, prendono a diffidare l’uno dell’altro. Questa visione etnica non è però condivisa dall'insieme della società ruandese. Per ratificarla l'Amministrazione belga decide il censimento dei contribuenti negli anni ‘30, registrando su un libretto d'identità l'appartenenza di ogni maschio adulto del Ruanda. Ciascuno deve indicare il gruppo al quale crede di appartenere. Circa il 15% si dichiara Tutsi, 84% Hutu e 1% Twa. L'élite Tutsi, che ha il sostegno dell'Amministrazione belga, non conta in realtà che 50.000 persone, mentre altri 250.000 Tutsi sono contadini poveri, come la maggioranza degli Hutu. Da allora la maggioranza dei Ruandesi adulti sono consapevoli di essere Hutu o Tutsi e si percepiscono come tali. Questo stampo identitario è creato in una generazione e viene trasmesso dagli adulti ai bambini. La mutazione di una identità di lignaggio in una identità etnica, che crea brutalmente una lacerazione del tessuto sociale ruandese, è creazione del colonialismo. Essa origina, secondo l'espressione di Gérard Prunier, “una razzializzazione di coscienza”: “ In ultima analisi, possiamo dire che i Tutsi e gli Hutu si sono massacrati a vicenda più per corrispondere ad una certa visione che essi avevano di se stessi, degli altri e della loro posizione nel mondo, che per degli interessi materiali” (19). Questa frattura sociale è la causa alla base del genocidio.
Durante la Seconda Guerra Mondiale una carestia colpisce la quasi totalità del paese (le stime del numero dei morti vanno da 50.000 a 300.000). Nel 1946 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite trasforma in tutela il vecchio mandato. Il Belgio è costretto ad investire per colmare il ritardo economico del paese. I rapporti del Consiglio di tutela dell'ONU sono sempre più critici della politica coloniale belga. La società si modernizza poco per volta, ma la discriminazione contro gli Hutu rimane, in particolare nell'educazione. I più brillanti studenti Hutu non possono proseguire gli studi se non nei seminari. E' là che si forma una contro-élite Hutu. Seminaristi contro Astridiani. Questo avvia il consolidamento della frattura della società ruandese. Nell’emanciparsi dall'oppressione coloniale, l'élite hutu se la prende soltanto con l'identità tutsi, che giudica responsabile del proprio infeudamento. Nel frattempo i missionari non sono più gli stessi: i preti conservatori francesi sono stati sostituiti poco per volta da giovani preti fiamminghi della sinistra cattolica, i quali si sentono più vicini ai coltivatori hutu che agli allevatori tutsi e trasferiscono volentieri in Ruanda la lotta regionalista: così difendono la causa del “popolo maggioritario hutu”.
La rottura avviene nella seconda metà degli anni '50, quando si prevede l'indipendenza del Ruanda a breve termine. Il Belgio incomincia a dubitare della fedeltà dell'élite tutsi, troppo prona alle teorie socialiste, come molti Africani impazienti di liberarsi dell'influenza coloniale. Ha intenzione di proteggere i propri privilegi economici e politici nel Ruanda indipendente e teme di non riuscirci se l'élite tutsi, sedotta dai richiami dell'anticapitalismo, prende il potere. La Chiesa cattolica, che ha trasformato il Ruanda in un regno cristiano, si preoccupa anche del monopolio tutsi sul clero ruandese. Monsignor Classe è morto nel 1945. Il suo successore a capo della Chiesa ruandese, Monsignor André Perraudin, di origine svizzera, sostiene attivamente la causa “del popolo maggioritario hutu”.
Nel 1953 e nel 1956, nella fase di preparazione del paese alla democrazia, le autorità belghe impongono elezioni per scegliere i consigli delle varie amministrazioni. Queste elezioni producono un capovolgimento amministrativo: la maggioranza delle signorie e sotto-signorie sono attribuite agli Hutu. Si delineano le rivendicazioni dei leader hutu . Nel 1957 sette intellettuali hutu pubblicano il “Manifesto dei Bahutu “ (20). Questo testo denuncia il monopolio tutsi, reclama la democrazia e si basa sul mito camita per rivendicare il predominio della maggioranza hutu. In una lettera del febbraio 1959, prima della quaresima, Monsignor Perraudin condanna l'ineguaglianza delle razze in Ruanda.
Sotto pressione dalle Nazioni Unite, il Belgio deve organizzare il passaggio di potere nelle migliori condizioni di sicurezza, si pronuncia in favore degli Hutu e inverte il discorso etnico: fino a ieri razza superiore, i Tutsi diventano una minoranza di invasori. Una scissione divide il movimento rivoluzionario hutu in due correnti: l’una analizza il conflitto in termini di razze, l'altra in termini di classi – il primo partito creato nel 1957, l'Aprosama, vuole la promozione sociale delle masse. La morte – accidentale o criminale – del mwani Rudahigwa a Bujumbura nel settembre del 1959, seguita dall'insediamento sul trono di suo fratello Kigeri V Ndahindorwa, apre il processo rivoluzionario. Si formano altri tre partiti: l'Unione Nazionale Ruandese (UNAR), monarchica e ostile al Belgio, che vuole l’indipendenza subito e la monarchia costituzionale; il Raggruppamento Democratico Ruandese (RADER), partito di intellettuali favorevoli al Belgio che raccoglie sia Astridiani che Hutu; il Partito del Movimento di Emancipazione Hutu (Parmehutu), già Movimento Sociale Muhutu di Grégoire Kayibanda, apertamente razzista, che lotta per l'egemonia della razza hutu, esige l'abolizione della monarchia e l'esclusione dei Tutsi dal potere di cui avevano avuto sino ad allora il monopolio.
Il ciclo dei massacri inizia nel novembre del 1959 a Gitarama. La violenza si propaga rapidamente nella maggior parte del paese. Migliaia di Tutsi sono massacrati, le loro case incendiate, i loro beni saccheggiati. 120.000 persone sono deportate nel sud-ovest del Ruanda, nella regione del Bugesera – il primo campo di rifugiati è sistemato a Nyamata. 250.000 Tutsi e numerosi Hutu fuggono verso i paesi vicini, Burundi, Congo, Uganda. L'amministrazione belga teme un colpo di stato tutsi e fa venire truppe dal Congo. Il Ruanda passa sotto il comando del tenente colonnello Guy Logiest. Nominato “residente speciale” in Ruanda, costui ha l’obbiettivo di abolire la monarchia, liquidare l'élite tutsi e trasferire il potere al Parmehutu. Le sue prime misure provocano una nuova ondata di emigrazione: 20.000 in aprile 1960. Vengono indette elezioni comunali nel giugno dello stesso anno. Logiest fa apertamente campagna elettorale per il Parmehutu. Questo partito vince le elezioni; ma nelle province dell'est ed in una parte del nord e del sud del paese l'astensione supera il 50%. Con la complicità del residente speciale, il Parmehutu proclama l'abolizione della monarchia e l'instaurazione della repubblica. Si forma un governo diretto da Kayibanda. Le elezioni legislative di settembre e un referendum legalizzano questo colpo di stato, mettendo davanti al fatto compiuto il Consiglio di tutela dell'ONU, che aveva chiesto una politica di riconciliazione nazionale. Il 1° luglio 1962 il Ruanda diventa una repubblica indipendente e Kayibanda è nominato presidente. E' la fine della tutela belga sul territorio del Ruanda-Urundi e anche la fine dell'aristocrazia Tutsi. Questo cambiamento politico non è una “rivoluzione sociale” come proclama il Parmehutu, ma un trasferimento etnico di potere sotto la guida del Belgio, che mantiene eccellenti relazioni con la repubblica hutu.
La Prima Repubblica (1962-1973).
Dopo l'indipendenza il Parmehutu esprime apertamente una ideologia razzista anti-tutsi. La propaganda ufficiale presenta il Tutsi come uno straniero che per secoli ha oppresso il popolo hutu. A partire dal 1961 i rifugiati Tutsi sferrano attacchi alla frontiera del Ruanda, partendo dal Burundi. Il governo esagera questi incidenti e li trasforma in una minaccia mortale per il paese. Ha così il pretesto per arrestare e uccidere i dirigenti dell'UNAR e del RADER e rinforzare le misure di discriminazione contro i Tutsi. Poco per volta il cerchio di esclusione di estende a tutti i Tutsi. Le carte d'identità, che prima garantivano i loro privilegi, diventano strumento della loro discriminazione. Il giorno di Natale del 1964 alcuni rifugiati tutsi compiono un raid partendo dal Burundi nella regione di Bugesera, un attacco senza speranza che provoca massicce rappresaglie: molte migliaia di civili sono massacrati a Gikongoro (21). Bertrand Russel considera queste uccisioni come “il più orribile e più sistematico massacro del quale noi abbiamo avuto occasione di essere testimoni dopo lo sterminio degli Ebrei da parte dei nazisti” (22). Per la prima volta si trattano i Tutsi da inyenzi ( scarafaggi, blatte, insetti che si muovono di notte). Fino al 1967 i Tutsi del Ruanda sono aggrediti per la sola ragione che sono Tutsi. In 7 anni 20.000 Tutsi sono massacrati e più di 300.000 fuggono dal Ruanda. Alcuni lasciano l'Africa e formano nel mondo una tela di esiliati. Altri abitano nei paesi vicini. Il ciclo di violenza periodica, avviato nel 1959, ha un doppio effetto sulla popolazione: sviluppa la coscienza dell'appartenenza etnica e innesta un ciclo di vendette.
Dopo aver liquidato i due partiti in prevalenza tutsi e aver soppresso l'Aprosoma, il Parmehutu deve affrontare lo sviluppo del regionalismo al proprio interno. Dirigenti originari del centro (Gitarama) e del sud si scontrano con i dirigenti del nord (Ruhengeri), le cui terre erano state prese dal XIX secolo in poi da capi tutsi. Il gruppo di Gitarama riesce a contenere i rivali del nord praticando il nepotismo regionalista.
La giovane repubblica si trova in una situazione economica precaria. Priva dell'aiuto finanziario della tutela belga e priva di amministratori competenti dopo la liquidazione dell'aristocrazia tutsi, senza una vera capitale - fino a quel momento la capitale del Burundi, Bujumbura, era anche la capitale del Ruanda-Urundi - riesce tuttavia a migliorare la situazione espropriando le terre dei Tutsi uccisi o esiliati, intensificando l'agricoltura ed estendendo la superficie delle terre coltivabili. Il paese rimane però uno dei più poveri del pianeta. Kayibanda sente che il potere gli sfugge. Tenta di sfruttare la situazione in Burundi per raccogliere la nazione attorno alla “rivoluzione sociale”.
In Burundi nel 1972, in risposta ad un massacro di Tutsi nel sud del paese, l'esercito e milizie di giovani rivoluzionari tutsi sterminano i ribelli. Nel resto del Burundi si assiste a massacri selettivi di Hutu: la repressione della ribellione hutu “si trasforma in atti di quasi genocidio, miranti a liquidare puramente e semplicemente quasi tutti gli Hutu istruiti o semi istruiti (23).” Il governo ruandese denuncia questi crimini e lancia una campagna di odio anti-tutsi.
Le violenze razziste in Ruanda si trasformano in conflitto regionale: genti del Nord contro genti del Centro e del Sud. Il 5 luglio 1973 il comandante in capo dell'armata, Juvénal Habyarimana, con un colpo di stato non violento rovescia Kayibanda. E' una vendetta dei nordisti contro i centristi e i sudisti del Parmehutu. Due giorni più tardi viene proclamata la Seconda Repubblica.
La Seconda Repubblica. Primo periodo (1973-1990).
Il Ruanda diventa uno stato centralizzato a partito unico, diretto dal Movimento Rivoluzionario Nazionale per lo Sviluppo (MRND) di Habyarimana. Il paese è diviso in dieci prefetture – l'undicesima, Kigali, sarà aggiunta nel 1992 – ciascuna divisa in sotto-prefetture e in comuni. Il Ruanda conta 145 comuni, ciascuno diretto da un sindaco e frazionato in settori di 5.000 abitanti. Ciascun settore raggruppa cinque cellule di mille persone e un comitato di cinque persone controlla ciascuna cellula. Questo stretto reticolato amministrativo pone la popolazione sotto stretto controllo. Gli adulti sono costretti il sabato mattina ad eseguire lavori d'interesse comunale, l'umuganda – un'eredità delle corvées imposte dall'amministrazione coloniale, uburetwa e akazi – e a partecipare a sedute di propaganda (24). Il potere è in mano ai militari e alla chiesa. Le Forze Armate Ruandesi (FAR) contano 7.000 soldati di cui 1.500 formano la guardia presidenziale, in maggioranza originaria del Nord. La Chiesa Cattolica ha convertito più del 60% dei Ruandesi. Preti, religiosi e religiose educate durante il periodo coloniale sono ancora in maggioranza tutsi, mentre i vescovi sono soprattutto Hutu – sette su nove nel 1994. I fedeli delle chiese protestanti rappresentano il 18% della popolazione. L'alto clero sostiene il presidente Habyarimana, in modo talmente visibile che alcuni preti e vescovi sono membri del MRND. Il potere è nelle mani dei notabili, riuniti attorno al presidente. Sono in maggioranza originari del Nord e più precisamente della regione di origine di Habyarimana e di sua moglie Agathe. Vengono chiamati l'akazu – la “piccola casa”. Costruiscono reti politiche ed economiche che assicurano loro anche risorse illecite: traffico d'armi, di droga, di gorilla del parco di Virunga (25). Questa dittatura mafiosa ottiene tuttavia buoni risultati. Il reclutamento dell'umuganda permette fra il 1974 e il 1986 una crescita che giustifica l'aiuto internazionale. Il regime politico è percepito all'estero come onesto e dinamico e ottiene un notevole aiuto finanziario internazionale che gli permette di sviluppare l'economia, di modernizzare il paese e di fare di Kigali una vera città. Per dodici anni il Ruanda è la “ vetrina della cooperazione internazionale” (26).
Il colpo di Stato del 1973 sembra avviare un processo di riconciliazione nazionale. I discorsi ufficiali condannano gli antagonismi etnici e regionali, ma in pratica il cambiamento non è totale e l'ostracismo verso i Tutsi è mantenuto. Il governo appena formato deve affrontare la questione del ritorno dei rifugiati fuggiti a febbraio e marzo 1973. Su richiesta del presidente Idi Amin Dada una delegazione ruandese si reca a Kampala per regolare il ritorno dei 70.000 Ruandesi rifugiati in Uganda. Il Ruanda tergiversa, argomentando che il paese è sovrappopolato, e accetta di riprendere soltanto alcuni rifugiati. La questione dei rifugiati, il divieto quasi totale del loro ritorno e la spoliazione dei loro beni da parte di prefetti e sindaci contrastano con il discorso di riconciliazione etnica avviato a partire dall'esordio della Seconda Repubblica. Sempre in contraddizione con le tesi ufficiali, il governo riprende anche la questione dell'identità etnica.
Se una maggioranza di cittadini sono evidentemente hutu o tutsi, altri avevano scelto l' identità etnica che pensavano convenisse. Era difficile attribuire loro d'ufficio una identità, soprattutto in caso di matrimoni misti, per lo più di uomini hutu con donne tutsi. Il regime di Habyarimana rimette in discussione l’attribuzione etnica: un buon numero di Tutsi è accusato di farsi passare per Hutu. L’immagine ufficiale di uno stato contadino in pieno sviluppo maschera una realtà più oscura. L’incremento demografico è galoppante, il più alto in Africa: 3,8% all'anno. Il numero degli abitanti raddoppia quasi ogni venti anni: 2.400.000 abitanti nel 1962, 7.148.000 nel 1991. Il divieto di ogni contraccezione da parte della Chiesa favorisce anche lo sviluppo dell'AIDS negli anni 1980. La maggioranza della popolazione rimane povera e continua ad impoverirsi, dato che la superficie coltivabile rimane la stessa e l'ineguaglianza sociale è sempre più netta. Più del 90% dei Ruandesi vive di agricoltura. Il 16% dei proprietari più ricchi possiede il 43% delle terre e i più indigenti tentano di sopravvivere coltivando superfici sempre più ridotte – in media inferiori a 7.500 m2. Questo impoverimento costituisce un ostacolo ai matrimoni, poiché l'usanza vuole che un uomo non si sposi se non possiede della terra (27). I rapporti sociali diventano tesi, persino in seno alle famiglie. Lo Stato deve confrontarsi con una criminalità crescente e con lo sviluppo di sette. Gruppi sempre più numerosi sono esclusi dal regime. Nel 1991 più della metà della popolazione ruandese ha meno di 20 anni, ed e una gioventù senza prospettive per il futuro.
Alla fine degli anni '80 le difficoltà economiche aumentano. Il prezzo del caffè – che rappresenta l’80% degli introiti in valuta del Ruanda – si riduce sul mercato mondiale. La situazione è aggravata da una carestia dovuta alla siccità nel sud – prefettura di Gikongoro. Il Ruanda, indebitato, è costretto ad accettare le misure fiscali restrittive che vengono imposte dalla Banca Mondiale e dai finanziatori, e un programma di adeguamento strutturale che non riesce ad attuare. La svalutazione continua. Il potere di acquisto delle élites urbane si riduce, la Banca mondiale e il FMI cancellano il loro aiuto. L'argomento etnico, fino a quel momento contenuto, riemerge per fornire alla popolazione la spiegazione del deficit economico. Gruppi sempre più numerosi sono esclusi dal regime che riprende la sua politica di discriminazione nei confronti dei Tutsi e degli Hutu che non sono originari del Nord. La corruzione dei funzionari aggrava il risentimento di una opposizione interna che reagisce a queste pressioni strutturandosi e reclamando l'istituzione del pluripartitismo. Nel giugno del 1990, al summit africano di La Baule, il presidente Mittérand dichiara che il sostegno della Francia all'Africa è condizionato all'accettazione del pluralismo democratico. Habyarimana nomina una commissione incaricata di studiare la riforma della costituzione. Ed è a questo punto, quando il regime del presidente Habyarimana vacilla, che truppe del FPR penetrano in Ruanda.
Accelerazione del processo genocida (ottobre 1990 – aprile 1994).
Numerosi fattori si coniugano e si mescolano alla crisi socio-economica e politica per trasformare, in tre anni e mezzo, una pratica di discriminazione etnica in una minaccia imminente di genocidio, e uno stato totalitario in uno stato criminale:
- l'attacco del FPR il 1° ottobre del 1990, che porta all'accelerazione del processo;
- il sostegno incondizionato della Francia al presidente Habyarimana;
- il pluripartitismo;
- la diffusione da parte dei media del veleno della paura e dell'odio, la creazione di milizie, lo sviluppo dell'esercito e l'armamento della popolazione;
- l'ingerenza della comunità internazionale negli affari interni del Ruanda;
- infine, nell'ottobre del 1993, la creazione dello strumento che pensa, confeziona e pianifica il genocidio: il Potere Hutu.
L'attacco del FPR.
Nel 1990 la diaspora ruandese conta 600.000 persone. La maggioranza vive nei paesi limitrofi: in Burundi, Uganda, Zaire e Tanzania. In Tanzania il governo favorisce l'integrazione dei rifugiati ruandesi, negli altri paesi la loro situazione resta precaria. Ma è in Uganda che risiede la maggioranza dei rifugiati. Legami storici e di lignaggio uniscono Ruandesi e Ugandesi. Dal 1920 al 1950 vi erano emigrate 200.000 persone, per lo più Hutu. Dal 1952 al 1959 invece gli emigrati sono soprattutto Tutsi. L’ondata maggiore di rifugiati arriva dopo i primi massacri di Tutsi del novembre 1959. La maggior parte viene confinata in campi presso la frontiera del Ruanda. Qui vengono reclutati gli uomini che lanceranno le prime incursioni in Ruanda nel 1961 e nel 1962. Il governo ugandese, diretto all'epoca da Milton Obote, condanna questi attacchi partiti dal proprio territorio, ma gli attacchi continuano e ognuno provoca di rimando dei massacri, per cui il flusso di rifugiati tutsi non si prosciuga: sono 7.600 tra maggio e settembre 1962. Il governo ugandese apre allora nuovi centri di accoglienza, il che provoca tensioni sia con la popolazione ugandese sia con i primi immigrati hutu, ben integrati ormai da decenni.
Dopo il colpo di stato di Idi Amin Dada nel gennaio del 1971 le relazioni tra il nuovo regime e i rifugiati sono all'inizio cordiali. Il dittatore recluta nei campi soldati regolari e irregolari, il che provoca l'ostilità di buona parte della popolazione ugandese contro i rifugiati. Nel 1982 Obote, tornato al potere, espelle decine di migliaia di Tutsi nel Ruanda. Habyarimana li fa rinchiudere in una “no man's land” (terra di nessuno) dove sono decimati dalla malattia e dalla fame. L'esercito ruandese, racconta Vénuste Kayimane, “prelevava ogni giorno e ogni notte il suo quantitativo di vittime, che torturava e gettava in pasto ai coccodrilli del lago Nasho” (28). La maggior parte dei giovani che vogliono fuggire da questo mattatoio raggiunge l'Esercito Nazionale di Resistenza (ANR) di Yosewi Museveni, nemico di Obote, in Uganda. Il loro numero crescerà fino a costituire nel 1986 un terzo degli effettivi di questo gruppo guerrigliero con cui Museveni rovescia il regime di Obote.
Nel dicembre del 1987 i militanti ruandesi in esilio in Uganda creano il Fronte Patriottico Ruandese (FPR), che ha come obiettivo il ritorno dei rifugiati in Ruanda, se necessario con la forza. Il FPR si organizza rapidamente. Grazie alla formazione militare che gli ha offerto la partecipazione all'ANR, costituisce il suo esercito. A Washington nell'agosto del 1988 un congresso mondiale di rifugiati ruandesi adotta una risoluzione sul diritto al ritorno. Gli esiliati domandano a Kigali di autorizzarli a tornare in Ruanda, ma il governo ruandese giustifica il rifiuto con l'implosione demografica e la mancanza di spazio. Il FPR decide allora di preparare il ritorno con un intervento armato. Questo esercito è comandato dal generale Fred Rwigyema (comandante Fred), personaggio carismatico, e dal suo amico Paul Kagame, figlio di esuli tutsi, discendente di un clan reale. Entrambi avevano lasciato Gitarama nel 1959. Come vice-responsabile del servizio di informazioni dell'ANR Kagame è inviato per uno stage negli Stati Uniti nel 1989. Il comandante Fred guida un esercito di 7.000 uomini, metà dei quali si è formata nell'ANR fino al 1986. Nel 1990 il momento sembra opportuno per operare un ritorno in forze in Ruanda: dopo lo scacco in Somalia la comunità internazionale – e particolarmente gli Stati Uniti – esita ad intervenire in un conflitto armato in Africa. Fra luglio a settembre il FPR mobilita i suoi uomini. Museveni, che non può ignorare il progetto del FPR, conta sul silenzio degli Stati Uniti che utilizzano l'Uganda per contrastare il regime islamico fondamentalista del Sudan. L’attacco del FPR non sorprende Habyarimana che - più che temerlo - l'aspetta. A metà settembre 1990 l'esercito ruandese (FAR) di stanza alla frontiera con l'Uganda è avvisato dell'imminenza di un attacco. Richiede rinforzi ma non li ottiene poiché Habyarimana conta sull'invasione per unire la popolazione contro il nemico e superare così la crisi del regime. Difatti il FPR cade nel tranello.
Il 1° ottobre 1990 2.500 soldati del FPR raggiungono la frontiera e marciano su Kigali senza incontrare resistenza. Si fanno chiamare inkontanyi (invicibili) dal nome di un'antica milizia reale. Ma ai primi scontri i 5.200 uomini dell’esercito regolare schiacciano le truppe del FPR, armate insufficientemente. Il Comandante Fred viene ucciso il secondo giorno e i suoi soldati ripiegano in disordine. Contattato negli USA, Kagame ritorna in fretta ad organizzare la ritirata. Raggruppa i resti del suo esercito in una regione inaccessibile del nord ovest del Ruanda e chiede al presidente Museveni, che all’inizio dell’offensiva - accusato di sostenere finanziariamente e militarmente il FPR - aveva chiuso la frontiera tra il Ruanda e l'Uganda, di autorizzarlo a ripiegare una parte dei suoi effettivi in Uganda. (29)
L’ attacco fornisce il pretesto a Habyarimana per chiamare la popolazione alla lotta contro il pericolo dei “tutsi feudali”. Nella notte dal 4 al 5 ottobre il FPR è ancora a 70 km da Kigali, ma nella capitale echeggiano colpi. L'indomani il governo annuncia di aver respinto una infiltrazione nemica. Questa messa in scena ha lo scopo di ingannare la stampa internazionale, drammatizzando la situazione. L'argomento etnico è di nuovo brandito in pieno. Nonostante le dichiarazioni ipocrite del presidente, che rifiuta di considerare responsabili dell'attacco del FPR “i nostri fratelli e sorelle, qualunque sia il loro gruppo etnico”, il ministro della giustizia afferma che i Tutsi, come pure alcuni Hutu, sono complici degli invasori, il che permette di braccare un nemico immaginario in tutto il paese e di arrestare migliaia di persone che vengono incarcerate per mesi, alcune torturate e/o uccise (30). Habyarimana ottiene aiuto militare immediato da Zaire, Belgio e Francia. Indisciplinati, i soldati dello Zaire sono presto rimandati a casa. Il contingente belga è richiamato dopo un mese, e i cittadini belgi vengono evacuati. Invece i soldati francesi rimangono in Ruanda e diventano il principale sostegno del regime.
Ritornate in Uganda, le truppe del FPR si ricostituiscono. Sono composte in maggioranza, ma non esclusivamente, di Tutsi. Il FPR è sostenuto finanziariamente dalla diaspora tutsi che manda anche reclute. La sua propaganda non è però fatta su base etnica: privilegia la solidarietà di tutti i Ruandesi. Kagame non lancia offensive frontali, ma soltanto brevi incursioni in Ruanda, secondo una tattica di logoramento che prosegue nei mesi successivi.
Il sostegno della Francia.
L'intervento della Francia in un paese che non era mai stato una sua colonia è docuto non a motivi umanitari, ma alla politica generale francese per l’Africa. Il Ruanda fa parte dell'ambito francofono, che l'Eliseo ritiene minacciato da quello anglo-sassone incarnato dal presidente ugandese Museveni. E' la “sindrome di Fachoda”, eredità delle conquiste coloniali del XIX secolo, che ispira la politica francese nella regione dei Grandi Laghi. Il Ruanda rappresenta inoltre per la Francia una base sicura per gestire le crisi dello Zaire, in piena disgregazione politica.
La Francia era stata il primo paese a riconoscere il governo nato dal colpo di stato del 1973. L'ambasciatore di Francia a Kigali, Georges Piquet, aveva allora sostenuto il generale Habyarimana (31). Nel 1975 i due paesi avevano firmato un accordo di cooperazione militare che nel 1990 viene trasformato in un accordo di difesa. Gli ambasciatori francesi succedutisi dal 1975 in poi furono tutti amici personali del presidente Habyarimana: Henry Manière (1976-1982), Georges Martres (1982-1992) e Jean-Michel Marlaud (1992-1994). Martres condanna vigorosamente l'attacco del FPR del 1990. Il suo impegno a fianco del regime influenza il corso degli eventi che portano al genocidio: incita i Francesi presenti in Ruanda (soprattutto quelli riuniti nella sezione francese dell'Unione dei Francesi all'estero) a sostenere la dittatura. Egli afferma, come testimonia Vénuste Kayimane, che la Francia non permetterà la vittoria degli inienzy (32).
Già nel 1979 il nono summit franco-africano si era tenuto a Kigali, sotto la copresidenza di Francia e Ruanda. A partire dal 1981, con l'elezione di François Mitterand, le relazioni franco-ruandesi erano diventate ancora più strette, rinforzate dall'amicizia tra i figli dei due presidenti: Jean-Cristophe Mitterand e Jean-Pierre Habyarimana.
La Francia è al corrente della persecuzione etnica contro i Tutsi, dell'espulsione dei rifugiati ruandesi dall'Uganda e dei preparativi d'attacco del FPR. L'Eliseo e i responsabili dell'esercito francese percepiscono l'attacco del 1°ottobre 1990 come un caso da manuale di complotto anglosassone per destabilizzare il dominio francofono. La Francia interviene in Ruanda per aiutare un paese alleato, vittima di una invasione straniera. La missione militare francese, inviata sotto il nome in codice “Noroit” è ufficialmente là per proteggere i cittadini stranieri. In realtà ha il mandato di aiutare l’esercito ruandese a vincere la guerra. Dopo aver assicurato la protezione e l'evacuazione dei suoi cittadini e degli stranieri, il contingente francese - costituito all'inizio da paracadutisti della Legione Straniera arrivati dal Bangui - è rinforzato da distaccamenti delle “forze speciali”. L’addestramento delle truppe ruandesi è affidato a un distaccamento di assistenza e di formazione, il DAMI – una trentina di uomini con base a Ruhengeri a partire dal 20 marzo 1991 (33). Il DAMI ha l'incarico di allenare l'esercito ruandese e di formarne gli istruttori. I militari francesi insegnano ai soldati ruandesi non solo l'arte della guerra, ma anche tecniche di interrogatorio dei prigionieri e di controllo della popolazione civile.
Il pluripartitismo.
L'attacco del FPR avviene nel momento in cui il presidente Habyarimana è pronto ad accettare il pluripartitismo. Per istituirlo è previsto un referendum a giugno 1991. Il processo referendario si avvia a luglio 1990 e rivela il formarsi di una opposizione hutu. La priorità data alla divisione regionale nord-sud ha portato ad alleanze d'affari e a relazioni d'amicizia tra Hutu e Tutsi al sud, e i matrimoni misti tra i due gruppi sono più numerosi che sotto la precedente repubblica. Si formano partiti politici: il Movimento Democratico Repubblicano (MDR) che si ispira al vecchio Parmehutu; il Partito Social Democratico (PSD) radicato nel Sud a maggioranza Hutu, ma con molti Tutsi all’interno; il Partito Liberale (PL) a base urbana, costituito da uomini d'affari tutsi e figli di matrimoni misti; il Partito Democratico Cristiano, che la chiesa cattolica non sostiene.
Le appartenenze regionali dividono quanto le appartenenze etniche. Il paese si divide in due zone politiche: al Nord, le prefetture di Gisenyi, Ruhengeri e Byumba restano fedeli al MRND, al Centro e al Sud ed in una parte dell'Ovest le prefetture di Gitarama, Butare, Gikongoro e Kibuye sono controllate dai partiti di opposizione; nelle prefetture di Cyangugu, Kigali rurale e Kibungo la colorazione politica è varia. Il 10 giugno 1991 una nuova costituzione autorizza il pluripartitismo. Questa apertura democratica causa la reazione dell'akazu che, con il sostegno occulto di Habyarimara, forma nel marzo del 1992 la Coalizione per la Difesa della Repubblica (CDR). Questo partito razzista e radicale chiede agli Hutu di prendere in mano il proprio destino. Si prefigge tre obiettivi: raggruppare coloro che hanno una visione razzista del Ruanda; giocare la carta etnica per alleggerire i problemi regionali ed economici, accusando i Tutsi di tutti i mali; focalizzare le passioni popolari sulla guerra agli “invasori” (34).
Nonostante l’opposizione di Habyarimana, un governo di colazione viene formato nell'aprile del 1992. Il MRND conserva nove dei diciannove posti ministeriali e il controllo delle prefetture e dei comuni. Il nuovo governo cerca, pur fra mille ostacoli, di porre riparo alle ingiustizie più eclatanti del sistema.
I media dell'odio e la formazione di milizie.
La guerra civile scoppiata nell'ottobre del 1990 è contemporaneamente la causa e il pretesto della diffusione massiccia di una propaganda il cui scopo è la presa di coscienza della propria identità da parte della popolazione hutu. I giornali e la radio sviluppano gli stessi temi fino alla nausea. L'organo più virulento è il giornale Kangura (svegliatevi) animato da Hassan Ngeze e finanziato dal CDR. Su 42 giornali fondati nel 1991 – che beneficiano tutti della libertà di stampa accordata in tale data – undici sono controllati dall'akazu (35). I messaggi di odio, veicolati in kinyarwanda, sono ricevuti da tutta la popolazione. Il 60% dei Ruandesi sa leggere e legge ai vicini analfabeti. Per essere più espliciti, gli articoli sono accompagnati da caricature che tutti possono capire. La radio è tuttavia il mezzo di propaganda più efficace. Fino al 1993 non esiste che una sola rete, Radio Rwanda, voce del presidente e del governo. Nel 1991, il FPR ha una sua propria stazione, Radio Muhabara, che si sforza di ridurre le differenze e le tensioni tra Hutu e Tutsi, ma la sua emittente non copre che il Nord Est del paese. Dopo l’aprile 1992 il governo di coalizione ottiene un cambiamento di orientamento di Radio Rwanda, il che costringe i radicali a creare una loro propria radio, che inizierà a trasmettere da aprile 1993.
Il tema centrale di questa propaganda è la priorità accordata all'identità etnica, presentata come un dato razziale. Non si può sfuggire alla propria razza. Esiste – si dice - una differenza di base radicata nella razza tra Hutu – del gruppo etnico bantu – e Tutsi – del gruppo hamitico-nilotico o etiopico. L'opposizione tra gli Hutu e i Tutsi è fondata sull’ archetipo dei bravi Bantu minacciati dai perfidi Hamiti. La propaganda ritorna continuamente sul mito di una solidarietà tutsi che, in passato, ha permesso a questi signori feudali di sfruttare gli Hutu. Gli Hutu sono il popolo di maggioranza e la rivoluzione hutu del 1959 è l'avvenimento fondante che mette fine alla monarchia e al feudalesimo. I Tutsi hanno rubato il Ruanda ai loro proprietari legittimi: non hanno il diritto di vivere nell'Africa dei Grandi Laghi. A partire dall'indipendenza, una guerra etnica oppone gli Hutu, che vogliono soltanto vivere nel loro paese, ai Tutsi che tentano di riprendere il potere. Da ottobre 1990 il FPR è passato all'azione: vuole restaurare la monarchia e ristabilire il controllo dei Tutsi sugli Hutu. La vittoria del FPR provocherebbe il ritorno al feudalesimo. Gli Hutu sarebbero di nuovo schiavi dei Tutsi. In questa teoria del complotto si trova una versione locale dei Protocolli dei Saggi di Sion. L'insieme FPR-Tutsi è demonizzato come un nemico onnipresente, sia esterno che interno. A dicembre del 1990 Kangura pubblica un testo apertamente genocida, una carta razzista intitolata Comandamenti che è già un programma d'azione. (36)
La guerra civile alimenta questa propaganda di odio e di paura: essa presenta i Tutsi come una minaccia per la sopravvivenza del popolo di maggioranza. Le formulazioni diventano paranoiche e le dicerie sempre più fantasiose: il FPR progetta di instaurare una dittatura con lo sterminio della maggioranza hutu; esso prevede di uccidere da quattro a cinque milioni di Hutu, dapprima i più istruiti; il bagno di sangue è annunciato come “la lotta finale fra le razze” (37) La storia, la religione, la guerra formano la trama di un tessuto di menzogne e di fantasmi. Questa strategia della disinformazione è rivolta alla popolazione. Il discorso utilizza l'abbruttimento, la pornografia e la scatologia. Progressivamente i contadini hutu sono convinti che il FPR perpetrerà un genocidio degli Hutu. Questa accusa a specchio prepara gli animi al genocidio dei Tutsi, che sarà percepito come una misura di legittima difesa. Per battere sempre sullo stesso chiodo, i propagandisti sospettano l'esistenza di un piano messo a punto dai Tutsi e dai loro amici per sterminare le popolazioni bantu ed estendere verso l'Est ed il Sud l'impero nilotico di Etiopia.
I Tutsi sono presentati come una variante cannibale dei nazisti, un'altra accusa allo specchio, tanto più cinica in quanto i radicali si comportano come i nazisti e si scoprirà che Habyarimana e la sua cricca sono ammiratori di Hitler, e tanto più paradossale in quanto i Tutsi sono chiamati dai loro accusatori gli “Ebrei d'Africa”. Il discorso pronunciato il 22 novembre 1992 da Léon Mugesera, presidente del MRND nella prefettura di Gisenyi, feudo di Habyarimana, e dell'akazu, riassume i temi di questa propaganda criminale: il nemico ha come obiettivo lo sterminio degli Hutu; non bisogna lasciarli invadere il Ruanda; non bisogna neppure lasciarli fuggire come è stato fatto nel 1959, ma sterminarli. Il discorso si conclude con questa messa in guardia: “sappiate che colui al quale non taglierete il collo, è colui che ve lo taglierà”(38).Questa propaganda facilita il reclutamento delle milizie che dovranno avere la funzione delle SS nella Germania nazista o dell'Organizzazione Speciale sotto il neo governo turco: essere il braccio armato del genocidio.
Fa parte di milizie è una vecchia tradizione ruandese: i capi delle colline costituivano piccole truppe per difendere i loro beni, che erano allora al servizio del re. Ora le milizie dipendono dai partiti estremisti. Il MRND trasforma i suoi movimenti giovanili nell’organizzazione degli interahamwe (i “solidali”, “coloro che combattono insieme”), i quali ricevono un addestramento militare dalla guardia presidenziale – ma anche, se occorre, da militari francesi che forse non capiscono che si tratta di milizie irregolari (39) – oltre a una formazione ideologica. La CDR ha la sua propria milizia, gli impuzamugambi (“coloro che hanno lo stesso scopo”), il MDR gli inkuba (la “folgore”). Come i partiti, le milizie hanno un territorio. I bersagli sono accuratamente identificati e i mezzi necessari sono messi a disposizione dei volontari. Gli atti di violenza si moltiplicano: i miliziani saccheggiano, estorcono e uccidono. L'opposizione al presidente denuncia i crimini di un autentico squadrone della morte, battezzato “Réseau Zéro “ (rete zero). Poiché gli aggressori sono spesso difficili da identificare, l'esercito accusa gli “ infiltrati” del FPR e i loro“complici all'interno”. La popolazione è controllata da una burocrazia che dipende completamente dal potere centrale di Kigali. Nel dicembre del 1991 viene creata una “commissione per l'identificazione degli ambienti nemici”. A settembre e ottobre del 1992, i sindaci ricevono l'ordine dai prefetti di stilare liste di persone che hanno lasciato il paese clandestinamente – sottinteso per raggiungere il FPR. Tutti i sospetti sono schedati, dai Tutsi agli “Hutu scontenti” alle “tribù nilotiche della regione” (40).
Dopo i primi massacri di Tutsi perpetrati a Mutara nell'ottobre del 1990, una seconda ondata avviene dodici giorni dopo un attacco del FPR, il 22 gennaio 1991: un assalto su Ruhengeri che permette di liberare alcuni detenuti e di impadronirsi di attrezzature militari prima di ritirarsi in Uganda. Per reazione i Bagogwe, gruppo di allevatori Tutsi che vivono nelle prefetture di Ruhengeri e Gisenyi, sono massacrati. Le uccisioni continuano fino all'inizio del 1993. Nel marzo del 1992, a seguito di dicerie amplificate da Ferdinand Nayimana, che controlla i media estremisti, alcuni Tutsi sono massacrati anche a Bugesera. E' in questa occasione che gli interahamwe agiscono per la prima volta, il che permette all'amministrazione locale di tenersi in disparte.
Nell'agosto del 1992 vengono perpetrati nuovi massacri nella regione di Kibuye. Questi omicidi di massa offrono agli estremisti l'opportunità di eliminare i loro avversari politici e di rinforzare la solidarietà tra Hutu. Quando il governo o qualche organizzazione umanitaria fanno indagini su queste uccisioni, le autorità civili si limitano a negarle. Quando l'evidenza è tale che il diniego non è più possibile, si trincerano dietro l'argomento della guerra civile o invocano gli “odi tribali ancestrali” - una spiegazione adatta a soddisfare una comunità internazionale convinta dai suoi media che si tratta di un fenomeno di costume in Africa – o l'esplosione spontanea di una collera popolare divenuta incontrollabile.
Questi massacri sono pianificati: le autorità locali organizzano riunioni di sensibilizzazione; poi un ordine viene emesso dall'autorità centrale (dal prefetto o persino dal ministero dell'interno); i contadini hutu sono quindi preparati dai sindaci ad una spedizione punitiva (41). Il vocabolario usato per definire l'assassinio fa riferimento alla vita quotidiana del contadino: un lavoro collettivo di dissodamento, di decespugliamento - i cespugli sono i Tutsi sospettati di nascondere membri del FPR o di aiutarli – di estirpazione delle erbe cattive: frasi che operano una disumanizzazione della futura vittima. Ma questi omicidi hanno un movente più sordido: le vittime hanno terre e bestiame e gli uccisori se ne impossessano come bottino.
Dall'inizio della guerra civile gli effettivi dell'esercito ruandese decuplicano: 5.200 soldati a ottobre 1990, 15.000 a metà del 1991, 50.000 a metà 1992. Le spese militari, che rappresentavano il 15% del bilancio dello stato nel 1990, ne divorano il 70% nel 1993, il che esaurisce il tesoro pubblico.
Il ministero della difesa ha acquistato per parecchi milioni di dollari delle armi leggere e delle granate, in particolare dall'Egitto – quando Boutros Boutros Ghali era ancora il ministro egiziano degli Affari Esteri. Anche la Francia fornisce una parte di armi. La Francia ha ufficiosamente equipaggiato ed addestrato i FAR. Militari francesi hanno addestrato soldati ruandesi a maneggiare armi sofisticate, il cui uso richiede formazione. Da gennaio 1993 le forze di polizia comunale sono addestrate e armate con i vecchi fucili dell'esercito ruandese. Il reclutamento e l'addestramento delle milizie sono intensificate nel quadro di un programma di autodifesa civile controllato da un misterioso gruppo di soldati, l'AMASASU – la parola significa “palle” in kinyarwanda. Il suo capo, designato con lo pseudonimo di Mike Tango, è probabilmente il colonnello Théoneste Bagosora. La formazione ideologica e militare delle forze di autodifesa civile si sviluppa soprattutto nel nord-ovest del paese, feudo dell'akazu.
Pressione della Comunità Internazionale.
Dal 1990 la situazione economica del Ruanda si fa sempre più catastrofica. La forte densità demografica (quasi otto milioni di abitanti per una superficie di 26.338 km2) porta a carenza di terre. Gli anni di siccità e la fuga di centinaia di migliaia di rifugiati hanno ridotto la produzione di manioca e di patate dolci: il paese dipende dagli aiuti alimentari. Il calo del prezzo del caffè aggrava il deficit della bilancia dei pagamenti. La moneta è svalutata, l'inflazione galoppante. Malgrado massicci aiuti dall'estero, le condizioni di vita della popolazione peggiorano. Le requisizioni operate dalle milizie, la corruzione dei funzionari – e in primo luogo della mafia presidenziale – danneggiano il tessuto sociale. Il governo di coalizione formato ad aprile del 1992 si pone come priorità il ritorno alla pace interna. Negozia il cessate il fuoco con il FPR, firmandolo il 14 luglio 1992 ad Arusha, città della Tanzania situata alla frontiera col Ruanda. Un mese più tardi, il 18 agosto, viene ratificato un primo protocollo dell'accordo, poi un secondo il 30 ottobre, che definisce la suddivisione del potere. Il rimpatrio dei rifugiati è stabilito da un protocollo firmato il 9 giugno 1993, l'integrazione del FPR nelle forze armate da un accordo del 3 agosto 1993. Ma a questi primi accordi i radicali hutu oppongono la logica della guerra civile contro la logica della pace. Le manifestazioni contro i negoziati si moltiplicano. Il CDR e la corrente dura del MRND diffidano sempre più del presidente Habyarimana e sostengono i duri dell'esercito guidato dal colonnello Bagosora e i tre fratelli di Agathe Habyarimana. Sono però favorevoli ai Francesi, in particolare al presidente Mitterand, considerato amico fedele del popolo ruandese.
A gennaio del 1993 il governo di coalizione stabilisce un periodo di transizione prima delle elezioni: avvengono nuovi massacri a Gisenyi, cui il FPR reagisce. L'8 febbraio il FPR viola il cessate il fuoco e lancia un massiccio attacco sul fronte nord. L'esercito ruandese è travolto. La popolazione civile fugge verso sud e raggiunge le centinaia di migliaia di profughi della guerra civile dell’ottobre 1990. Il FPR giustifica l’azione con la necessità di porre termine ai massacri. In realtà il suo scopo è anche quello di far progredire i negoziati di Arusha, cui Habyarimana frappone ostacoli. Durante questi combattimenti i soldati del FPR uccidono alcune centinaia di civili, alcuni in esecuzioni sommarie, e questi crimini di guerra scalfiscono la sua credibilità. I diplomatici ruandesi esagerano il numero delle vittime e accusano il FPR di genocidio. I media ruandesi affermano che le vittime sono Hutu; se anche i Tutsi sono stati uccisi in questa guerra, aggiungono, la colpa è loro, che meritano la loro sorte per aver iniziato le ostilità (42). L'ingranaggio non si arresta e le violenze si succedono ad un ritmo sempre più sostenuto.
Dalla ripresa delle ostilità la politica della Francia è scevra di ambiguità: fa di tutto per evitare la vittoria militare del FPR. Dal 1° gennaio 1992, secondo una nota del Quai d'Orsay, il tenente colonnello Chollet, capo del DAMI, esercita le funzioni di consigliere del presidente ruandese, di capo supremo del FAR e di consigliere del capo di stato maggiore dell'esercito ruandese. Siccome diventa troppo visibile, è sostituito dal suo vice, il tenente colonnello Maurin (43). L'offensiva FPR di febbraio 1993 è fermata dal FAR, sostenuto da 700 militari francesi (operazione “Volcan”). L’operazione “Chimère” guidata dal colonnello Didier Tauzin, con una ventina di ufficiali e specialisti del 1° RPIMa, dura dal 22 febbraio al 28 marzo. Ha l’obiettivo di inquadrare e comandare indirettamente i 20.000 uomini del FAR (44).
La Francia vive la guerra civile in Ruanda come una guerra totale, analoga alle guerre rivoluzionarie condotte in Indocina e in Algeria. Non si arresta davanti ai ‘danni collaterali’ civili e definisce i massacri perpetrati dai radicali hutu come “semplici dicerie”. Per altro ne attribuisce la maggior parte al FPR. La DGSE accusa l'Uganda di aiutare il FPR e i ribelli di bruciare i villaggi (45).
La CDR sfrutta l'offensiva di febbraio per annunciare che i Tutsi preparano il genocidio degli Hutu e chiede al governo di permettere alla popolazione di assicurare la propria autodifesa.
L'offensiva di febbraio 1993 ha messo in difficoltà l'opposizione hutu. Habyarimana chiama a raccolta i membri di numerosi partiti per costituire un fronte comune contro il FPR. La CDR indurisce la sua posizione. Non ha più fiducia nel presidente, anche se questi dichiara che gli accordi di Arusha non sono che un pezzo di carta, la CDR comincia a stilare liste di Hutu che accusa di alto tradimento. I crimini politici e i delitti comuni si moltiplicano: ogni giorno 4 o 5 persone sono uccise a Kigali. L'insicurezza è tale che Habyarimana è costretto ad accettare negoziati complementari richiesti dalle Nazioni Unite. Viene formato un nuovo governo il 18 luglio 1993. E' presieduto da una donna, la prima ad occupare quel posto in Ruanda, ex ministro dell'educazione nel governo di coalizione, Agathe Uwilinggiyimana.
Habyarimana e i suoi partigiani avevano usato la violenza etnica per mantenere il loro potere, e nel contempo osservare attentamente le reazioni della comunità internazionale da cui il paese dipendeva. Dal 1991 si accumulano prove di gravi violazioni dei diritti dell'uomo. I principali finanziatori, la Banca mondiale e l'Unione Europea, chiedono al regime di correggere le proprie “insufficienze”. Quando le organizzazioni ruandesi dei diritti dell'uomo, autorizzate nel 1992, conducono i diplomatici sui luoghi dei massacri, questi intervengono presso il Presidente. Ma la comunità internazionale attribuisce queste violazioni dei diritti umani alla guerra e preferisce tentare di mettere fine alla guerra civile piuttosto che intervenire in Ruanda. In questo modo vanno interpretati i negoziati supplementari di Arusha tra le parti in conflitto. Habyarimana ha così saggiato le reazioni della comunità internazionale ai massacri che ha in programma. Ora sa che le Nazioni Unite si limiteranno a rimostranze cui potrà rispondere con smentite, rammarico e promesse, senza rischiare di interrompere l'assistenza che il paese riceve. Le organizzazioni umanitarie ottengono però la costituzione di una commissione di inchiesta internazionale, che va in Ruanda a gennaio 1993. Il rapporto stilato è presentato alla Commissione dei Diritti dell'Uomo dell'ONU, che rifiuta di discuterlo in seduta pubblica. Questo primo rapporto incita tuttavia la Francia a rivedere la propria posizione e a insistere per una ripresa dei negoziati ad Arusha. Un relatore speciale dell'ONU si reca in Ruanda ad aprile. Il suo rapporto, presentato in agosto, conferma quello della commissione internazionale: i massacri costituiscono un genocidio secondo i termini della Convenzione del 1948 (46). Fin dal rapporto della prima commissione Habyarimana riconosce che ci sono state violazioni dei diritti dell'uomo in Ruanda, ma professa le sue buone intenzioni e i finanziatori gli mantengono la fiducia. Nei mesi seguenti comunque non ci sono massacri di Tutsti.
A fine di luglio 1993 i paesi donatori, tra i quali la Francia, impongono al presidente ruandese di negoziare un trattato di pace con la controparte. Questo è firmato ad Arusha il 4 agosto, sotto l'egida dell'Organizzazione dell'Unità Africana (OUA). Prevede l'instaurazione in Ruanda di uno stato di diritto. Il calendario fissa come prima tappa la formazione di un governo di transizione che sarà incaricato di organizzare elezioni libere, rimpatriare i rifugiati, reinstallare i rifugiati e integrare in un unico insieme i due eserciti in conflitto. Questo nuovo esercito sarà costituito da 19.000 uomini e 6.000 gendarmi, il che comporterà la smobilitazione della metà dei soldati dei due eserciti. Tre forze politiche si divideranno i posti ministeriali: il MRND avrà 5 ministeri e il vice premier, il FPR 5 ministeri, il blocco dei principali partiti d'opposizione 9 ministeri e il Primo Ministro. Habyarimana resterà presidente, ma cederà una parte del suo potere al Consiglio dei Ministri.
Il Potere Hutu.
Gli accordi di Arusha riducono il potere del presidente e dunque della sua cerchia. I radicali della CDR si oppongono a questi accordi che non attribuiscono loro alcuna carica nel governo. I soldati che dovranno essere smobilitati, i sindaci e i prefetti che temono di perdere il posto, tutti questi scontenti aderiscono alla CDR. Questa dispone da poco di un potente mezzo di propaganda, la Radio Televisione libera delle Mille Colline (RTLM). Creata ad aprile del 1993, raggiunge progressivamente tutte le aree del paese a partire dall'8 luglio. Si presenta come l'unica radio libera non controllata dal FPR e ottiene rapidamente grande ascolto grazie al suo stile popolare: commenti a ruota libera tra Ruandesi, la sera, attorno ad una birra; intermezzi musicali; partecipazione di ascoltatori. La RTLM accusa i Tutsi di voler eliminare il capo di stato e i dirigenti hutu per restare soli al potere. Denuncia anche i loro complici hutu, i traditori, invitando ad ucciderli. Accusa il Presidente di essere debole e troppo compiacente nei confronti dei Tutsi. Così si sviluppa nella popolazione una autentica paranoia del complotto: il Ruanda è stato tradito dalla comunità internazionale; non si può avere fiducia nei bianchi; i nemici del Ruanda orchestrano una campagna internazionale che mira a distruggere l'immagine del paese (47).
Dopo l'instaurazione del multipartitismo ad aprile 1992 i radicali hutu preparano la costituzione di un regime totalitario senza Habyarimana. La formazione di milizie, l'attività criminale del Réseau Zéro, l'organizzazione di una autodifesa civile sono la prova che i protagonisti del futuro genocidio si pongono i parallelo alle istituzioni ufficiali. Per poter eliminare i Tutsi devono ottenere il sostegno incondizionato della popolazione hutu e disporre di armamenti sufficienti. Il colonnello Bagosora, che dirige questa cospirazione, prevede di far consegnare alle milizie armi da fuoco – granate e fucili d'assalto – e armi bianche alle forze di autodifesa civile, fra cui il machete è la più efficace. Tra gennaio 1993 e marzo 1994 581 tonnellate di machete da un chilo l'uno sono acquistate in Cina e consegnati in Ruanda da un uomo di affari vicino a Habyarimana, Félicien Kabuga – il quale finanzia pure la RTLM e gli interahamwe.(48) Il reclutamento, la formazione politica e l'addestramento delle milizie si intensificano a partire dalla fine del 1993. Da parte sua il FPR, nel timore che gli avversari non rispettino gli accordi di Arusha, recluta giovani cui dare una formazione politica nel nord-est del paese che è sotto il suo controllo. E’ una formazione sommaria prima di rimandarli nella loro regione a reclutare a loro volta altri simpatizzanti. Questi uomini non sono armati e non rappresentano una minaccia militare, ma i radicali hutu hanno finalmente la prova che cercano: è vero che ci sono i nemici interni, gli “infiltrati” del FPR.
Le Nazioni Unite controllano l'applicazione degli accordi del 4 agosto e prevedono l'invio di una forza di mantenimento della pace per un periodo di 37 giorni. Il generale canadese Romeo Dallaire, nominato comandante di questa unità, chiede 4.500 uomini, ma gli Stati Uniti, che devono sostenere un terzo dei costi, cercano di ridurre il contingente a 500 uomini. Finalmente il 5 ottobre la risoluzione n. 872 del Consiglio di Sicurezza approva la Missione delle Nazioni Unite per l'Assistenza al Ruanda (MINUAR), con il mandato ufficiale di assicurare la sicurezza dei civili. Il suo ruolo è ridotto a “indagare sugli incidenti legati all'attività della gendarmeria”. L'uso della forza a scopo dissuasivo o per rappresaglia è vietato. Tuttavia le regole di ingaggio stabilite dal generale Dallaire e accettate dalle Nazioni Unite precisano al paragrafo 17 che, in assenza di sostegno dalle autorità locali, la MINUAR “prenderà le misure necessarie per impedire crimini contro l'umanità”(49). Le truppe di Noroit ufficialmente partono il 15 dicembre, quando la MINUAR si insedia. Di fatto 24 “assistenti tecnici” francesi del DAMI restano in Ruanda. A fine dicembre la MINUAR conta 1.300 caschi blu, dei quali 400 sono soldati belgi di stanza a Kigali. In applicazione degli accordi di Arusha questi soldati belgi scortano i dirigenti civili del FPR e un contingente di 600 soldati del loro esercito, che si sono installati nei locali del Parlamento, su una collina vicino alla città. Ad agosto del 1993 comincia dunque una gara di velocità tra i partigiani del massacro e i partigiani della pace. Un avvenimento esterno rompe questo fragile equilibrio.
Il 21 ottobre 1993 a Bujumbura, capitale del Burundi, ufficiali tutsi sequestrano e assassinano il presidente Melchior Ndadaye, di origine Hutu. Sono assassinati anche numerosi membri del governo. La pressione della comunità internazionale fa fallire il colpo di stato, ma il Burundi esplode. Per più di una settimana la RTLM – che è sentita anche in Burundi – lancia la caccia ai Tutsi e agli Hutu dell'opposizione. Le province del nord, dell'est e del centro del Burundi vengono “ripulite”: circa 10% dei Tutsi del Burundi sono massacrati in pochi giorni. La Croce Rossa stima che le vittime siano 100.000.
L'assassinio del presidente Ndadaye è sfruttato dai radicali hutu del Ruanda per dimostrare alla popolazione che i Tutsi sono decisi a dominare la regione con la forza, come loro da tempo sostengono.
L'offensiva del FPR di gennaio 1993 aveva diviso il MDR. Dopo l'assassinio del presidente Ndadaye la maggioranza dei membri di questo partito, come pure una corrente hutu del PL, si ricongiunge alla CDR e al MRND per formare un movimento politico che esalta una guerra razziale, l'eliminazione dei Tutsi e dei loro “complici hutu”. Durante un incontro a Kigali i rappresentanti di questa coalizione denunciano gli accordi di Arusha e invocano la formazione di un solo potere, il potere hutu. “Hutu Power” scandisce la folla. Questo nome designerà la coalizione degli ultras. Da quel momento l'appello all'uccisione dei Tutsi è proclamato ancora più apertamente. Per la RTLM non ci sono più alternative: bisogna uccidere per evitare di essere uccisi - “loro o noi” - la formula magica del genocidio. Questo appello all'omicidio è accolto dalla popolazione che ormai da mesi dispone di radioline messe sul mercato a basso costo o distribuite gratuitamente alla popolazione hutu.
Non è Habyarimana a controllare il Potere Hutu. Il braccio armato della coalizione è costituito da militari e da forze di autodifesa civile, di cui l'AMASASU era stato l'abbozzo. La macchina di morte si costituisce rapidamente. In ciascuno dei 146 comuni del Ruanda da 200 a 300 uomini sono pronti ad eliminare “il nemico interno”. Le liste delle persone da sopprimere sono pronte, in particolare a Kigali dove l’elenco è stato fatto minuziosamente. Sulle colline è inutile: tutti si conoscono e i Tutsi sono da tempo nel mirino. Jean-Michel Marlaud, partigiano di un fronte comune hutu esaltato dagli ufficiali francesi, tra i quali Marcel Debarge, sostiene nell'ombra la formazione di Potere Hutu, i cui membri sono frequentatori abituali dell'ambasciata di Francia (50).
Nei primi mesi del 1994 la situazione politica del Ruanda non cessa di degradarsi. Habyarimana punta i piedi contro la formazione del governo di unità nazionale imposto dagli accordi di Arusha. Benchè tutti gli osservatori annuncino un bagno di sangue imminente e i diplomatici di stanza a Kigali abbiano prova della preparazione di un genocidio annunciato dai media ruandesi, la comunità internazionale finge di ignorare il pericolo. Gli ufficiali della MINUAR erano stati informati al loro arrivo della distribuzione di armi da fuoco e armi bianche per uccidere i Tutsi e gli Hutu che li sostengono. Gli attentati si moltiplicano – uno di questi colpisce un convoglio della Croce Rossa. Gli assassinii di Tutsi – fra cui quello del dirigente del PSD Félicien Gatabazi il 21 febbraio 1994 – sono denunciati dalle associazioni ruandesi dei diritti dell'uomo che chiedono tassativamente il disarmo delle milizie. I rapporti dei servizi d'informazione belgi indicano che gli interahamwe non aspettano che il “momento appropriato per passare all'azione.” (51) Eppure la comunità internazionale non si muove.
In un telegramma in codice dell'11 gennaio 1994, indirizzato al dipartimento delle operazioni per il mantenimento della pace delle Nazioni Unite, il generale Dallaire annuncia di aver ricevuto informazioni precise sull'imminenza di un massacro di Tutsi. Chiede protezione per il suo informatore, uno dei principali responsabili della preparazione delle milizie. Sollecita anche l'autorizzazione a sequestrare nascondigli di armi, dei quali il suo informatore può dargli la localizzazione. Questa autorizzazione gli è rifiutata dal Segretario Generale dell'ONU Boutros Boutros-Ghali, che gli ordina di informare il presidente Habyarimana, in altre parole di consegnare l'informatore. Il rappresentante del Segretario Generale in Ruanda, il camerunense Jacques-Roger Booh-Booh, avverte Habyarimana che il Consiglio di Sicurezza sarebbe stato informato delle violenze in corso. Davanti ai dinieghi di Habyarimana, conclude che il presidente è complice, ma continua a stimarlo. Scrive rapporti sono meno inquietanti di quelli di Dallaire. A gennaio, febbraio e marzo 1994 diplomatici, servizi di informazione e organizzazioni dei diritti dell'uomo confermano gli avvertimenti della MINUAR e inviano ai loro superiori e all'ONU avvertimenti quasi quotidiani sull'imminenza di un genocidio, preannunciato dagli osservatori e dai futuri autori dei massacri. Il 4 aprile, in occasione di un ricevimento ufficiale, Bagosora dichiara che ‘la sola soluzione possibile sarebbe lo sterminio dei Tutsi’ (52). Il Segretario Generale dell’ONU rifiuta di chiedere al Consiglio di Sicurezza di rinforzare il mandato della MINUAR.
La Francia sostiene il governo ruandese al Consiglio di Sicurezza, di cui, per un caso di rotazioni, il Ruanda nel 1994 è membro temporaneo. Gli Stati Uniti rifiutano di spendere danaro e uomini per porre rimedio alla situazione. Il governo belga è senza dubbio il più lucido. Percepisce l'imminenza di una carneficina. Il suo rappresentante all'ONU insiste con il direttore delle operazioni di peacekeeping per rinforzare il mandato alla MINUAR, ma gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si oppongono. I membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza non vengono mai informati del carattere esplosivo della situazione. L'unico atto positivo dell'ONU è la raccomandazione del 30 marzo del Segretario Generale di prorogare di 6 mesi il mandato della MINUAR che scade il 5 aprile. Il genocidio è stato dunque chiaramente annunciato ai membri permanenti del consiglio di Sicurezza, che hanno ricevuto prove della sua imminenza; non ne hanno voluto sapere e non hanno agito - come avrebbero dovuto - per prevenire la catastrofe.
Il 28 marzo i diplomatici di stanza a Kigali rivolgono un appello solenne alle parti in conflitto affinchè applichino gli accordi di Arusha. Con l'appoggio della Francia, che sostiene la richiesta al Consiglio di Sicurezza, Habyarimana ottiene una concessione: una rappresentanza della CDR nel futuro governo di unità nazionale. Forte di questa promessa, va in Tanzania, a Dar-es-Salaam, ad una riunione di capi di stato dei paesi confinanti, che doveva concludersi con l'impegno ad attuare rapidamente gli accordi. Il presidente ruandese è in effetti costretto a cedere: i finanziatori rifiutano di versare denaro al Ruanda prima dell'insediamento del governo di transizione. Il 6 aprile alle 20.50 l'aereo presidenziale viene abbattuto mentre si prepara ad atterrare a Kigali. Questo attentato è la scintilla che provoca l'esplosione. Già alle 21.15 i soldati della guardia presidenziale e gli interahamwe montano barricate e perquisiscono le case alla ricerca delle persone presenti nell’elenco. Incomincia il genocidio dei Tutsi.
* * * * *
Il nostro scopo è mostrare l’intreccio di fattori che hanno avviato il processo genocida e come si sia inesorabilmente sviluppato. Non trattiamo dunque le circostanze del genocidio dei Tutsi in Ruanda, che è stato perpetrato in uno lasso di tempo ben preciso: dal 6 aprile fino alla sera del 17 luglio 1994. Dobbiamo tuttavia precisare alcuni punti:
- Gli autori dell'attentato contro l'aereo del presidente Habyarimana sono ancora oggi sconosciuti. E' evidente tuttavia che Potere Hutu ha sfruttato questo attentato per dar l’avvio a un massacro pianificato da mesi, nella convinzione che avrebbe indotto il FPR a riprendere la guerra, con possibilità - se non di vittoria - almeno di rinegoziare gli accordi di Arusha. I massacri hanno inizio in effetti la sera del 6 aprile, meno di un'ora dopo l'attentato. Le prime vittime sono, con i Tutsi, gli Hutu membri del governo e dei partiti politici oppositori di Potere Hutu.
- Dal 6 all'11 aprile 20.000 vengono assassinate 20.000 persone; spesso degli Hutu si alleano con i Tutsi per respingere i gruppi di assassini.
- Soltanto l'11 aprile, dopo che il governo ad interim formato l'8 aprile ebbe convocato i prefetti nei locali dell'ambasciata di Francia a Kigali, i massacri si estesero. Uccisi i leaders degli oppositori hutu, il governo ad interim spiega che i Tutsi sono il solo gruppo da abbattere. La collaborazione delle diverse fazioni del Potere Hutu – e in particolar modo del MDR – permette dunque di raggiungere i Tutsi nelle prefetture di Gitarama, Butare, Kibuye e Gikongoro, che costituiscono più del 60% della popolazione Tutsi del Ruanda.
- Gli assassini, che vedono nel genocidio il mezzo per vincere la guerra, s’impegnano in una gara di velocità con il FPR, il solo capace di arrestare il genocidio. Ecco perchè essenzialmente i massacri avvengono prima della fine di aprile. A maggio il crollo dell'esercito governativo – il 21 c’è l’abbandono del campo Kanombe e dell'aeroporto di Kigali; il 28 la fuga da Gitarama a Gisenyi del governo ad interim – sorprende il Potere Hutu e crea un senso di panico nella popolazione hutu.
Un altro dubbio non ha ancora avuto risposta chiara dagli storici del genocidio. Questo crimine è stato certamente pianificato da uno Stato criminale centralizzato, ma non avrebbe potuto essere realizzato “ in un paese con insediamenti così radi senza l’adesione massiccia della popolazione, convinta da una propaganda sviluppata da élites (tecnici, insegnanti, medici, ecc.) a loro volta aderenti alla causa razzista” (53). Nessuna spiegazione parziale basta a spiegare l'adesione popolare di massa al genocidio. Decine di migliaia di giovani si sono trasformati in assassini. La popolazione hutu ha partecipato con le milizie a organizzare blocchi nei punti di passaggio e a battere il terreno per snidare i fuggitivi. Gli assassini si sono divisi i compiti: le milizie inviate in loco con i camions sterminavano i gruppi di Tutsi circondati dalla popolazione locale, che organizzava anche le battute per “fare a pezzi” i fuggiaschi. Gli abitanti di una collina o di una comunità controllavano fisicamente i Tutsi che conoscevano. Tutti furono presi in trappola. A Sud la fuga verso il Burundi era rischiosa perchè assassini hutu agivano su entrambi i lati della frontiera. Questa partecipazione popolare di massa non è soltanto il risultato del martellare della propaganda. Ha a che fare anche con i fattori sociali ed economici che hanno causato l’aumento progressivo della violenza e “minato in modo insidioso i legami familiari e di vicinato”(54).
Non è dunque soltanto la tradizione all'obbedienza del contadino ruandese all'autorità dello stato a spingerlo a partecipare al genocidio, ma anche e soprattutto un sentimento di anomia, di cedimento delle norme sociali, che è origine di violenza predatrice. Dal 1959 i rapporti sociali tra Hutu e Tutsi si erano fatti duri. Parallelamente le istituzioni tradizionali che assicuravano la mediazione tra i lignaggi e i clans erano state svuotate del loro significato – soprattutto per opera della Chiesa Cattolica – e un clima di odio e di cupidigia si era sviluppato tra le due comunità. Prima della guerra civile tuttavia le comunità hutu e tutsi avevano avviato un processo d'integrazione che si era materializzato in matrimoni misti e pratiche tradizionali di buon vicinato sulle colline. Nelle regioni dove la resistenza all'etnicità è stata più forte – l'antica residenza reale, Nyanga, il Mayaga e il nord est della prefettura di Butare – Hutu e Tutsi si sono uniti per respingere gli assassini. Anche il degrado continuo dell'ambiente e la grande povertà della fine degli anni '90 giustificano in parte questa mobilitazione popolare, che è anche frutto di una continuità ideologica tra le due repubbliche.
Note:
(1)Dottore in Storia (Paris IV- Sorbonne) HDR (Montpellier III), Autore di numerose opere sui genocidi del XX secolo, in particolare di “Guerres et génocides au XX siècle”. “Architectures de la violence de masse”, Paris, Odile Jacob, 2007.
(2)Jean Pierre Chrétien, Le Défi de l'ethnisme, Rwanda et Burundi: 1990-1996, Paris, Karthala, 1997, p.17
(3)Jan Vansina, Le Rwanda ancien. Le royaume nyiginya, Paris, Karthala, 2001, p. 251
(4) Alexis Kagame, Un Abrégé de l'Histoire du Rwanda de 1853 à 1972, Butare, Editions Universitaires du Rwanda, 1975
(5)Vansina, Le Rwanda ancien, op.cit.
(6) Ibid. p. 18 “ In kinyarwanda, i termini che designano le categorie sociali ( Hutu, Tutsi e Twa) sono dei sostantivi invariabili ai quali si aggiungono dei prefissi per indicare il singolare e il plurale. La pratica universitaria è quella di mantenerli invariabili, come pure gli aggettivi, tanto per il femminile che per il plurale.
(7) Ibid. p.100
(8) Ibid, p.174
(9) Jean Paul Kimonyo, Rwanda, Un génocide populaire, Paris, Karthala, 2008, p. 2
(10) Vansina “ Le Rwanda ancien” op.cit.p.209
(11) Emmanuel Ntezimana “Le Rwanda social, administratif et politique à la fin du XIX siècle” in G. Honke (dir.) Au plus profond de l'Afrique, Wuppertal, Peter Hammer Verlag, 1990, p. 77
(12) Chrétien , Le Défi de l'ethnisme, op.cit. p.33
(13) Gérard Prunier, Rwanda, le génocide, Dagorno, 1997, p. 21
(14) Ibid. pp 31-33
(15) John Hanning Speke Journal de la découverte de la source du Nil, Londres 1863, chapitre IX
(16) Filip Reyjtens, Pouvoir et droit au Rwanda, droit public et évolution politique 1916/1973, Tervuren, MRAC, 1994, p. 141
(17)Kimonyo, Rwanda, Un génocide populaire, op.cit.p.30
(18)Jean Hiernaux, Les Caractères physiques des populations du Rwanda et de l'Urundi Bruxelles, ARSOM, seconde série, n. 52, 1954
(19) Prunier. op.cit.p. 56
(20)Il prefisso ba indica il plurale, mu il singolare
(21)Jean -Pierre Chrétien (dir.) Rwanda, Les médias du génocide, Paris, Karthala, 1995, p.122
(22) Frank Chalk e Kurt Jonassohn, The Hystory and Sociology of Genocide, New Haven et Londres, Yale University Press, 1990, p. 386
(23) René Lemarchand e David Martin, Génocide sélectif au Burundi, Londres, Minority Rights Group, 1974
(24)Human Rights Watch e Fédération Internationale des droits de l'homme: Aucun témoin ne doit survivre. Le Génocide au Rwanda. Textes rassemblés par Alison Des Forges, Paris, Karthala, 1999, p. 56
(25)Colette Braeckman, Rwanda, Histoire d'un génocide, Paris, Fayard, 1994, pp 110-111
(26)Kimonyo, Rwanda, Un génocide populaire. op.cit. p.93
(27)Kimonyo, Rwanda, Un génocide populaire. op.cit. p. 93
(28)Vénuste Kayimane, France-Rwanda: les coulisses du génocide. Témoignage d'un rescapé. Paris, Dagorno, 2001, p. 67
(29)O. Otonnu, “An Historical Analysis of the Invasion by the Rwanda Patriotic Army (RPA)” in Howard Adelman & Astri Suhrke (dir.) The Path of Genocide. The Rwanda Crisis from Uganda to Zaire, New Brunswick (N.J.), Transaction Publiers, 1999 pp. 31-49.
La sigla APR è poco usata dagli storici i quali, per evitare confusioni, raggruppano nella sigla FPR frazioni politiche e militari di questo partito.
(30) Aucun témoin ne doit survivre, op.cit. p. 64
(31) Kayimane, France-Rwanda, op.cit. p. 49
(32) Ibid, p. 127
(33) Géraud de la Pradelle, Imprescriptible. L'Implication française dans le génocide tutsi portée devant les tribunaux. Paris, Les Arènes, 2005, p. 309
(34) Chrétien, Rwanda, Les Médias du génocide, op.cit. p. 228
(35) Ibid. p. 45
(36) Il testo è riprodotto da Chrétien, Rwanda, les médias du génocide, op.cit. Pp 141-142
(37) Ibid.pp. 321-325
(38) Aucun Témoin ne doit survivre, op.cit. p. 106
(39) Gli istruttori francesi avrebbero allenato gli interahamwe all'uso delle armi bianche e da fuoco, come pure alle pratiche da commando (Kayimane, France-Rwanda: les coulisses du génocide. op.cit. pp. 127-127
(40) Chrétien, Le Défi de l'ethnisme, op.cit. p. 93.
(41) Prunier, Rwanda, le génocide. op. cit. p.173
(42) Aucun témoin ne doit survivre, op.cit. p. 100
(43) Patrick de Saint-Exupéry, L'Inavouable. La France au Rwanda, Paris, Les Arènes, 2004, pp. 178-179
(44) Ibid. pp. 250-251
(45) Aucun témoin ne doit survivre, op.cit. p. 125
(46) Ibid. p. 115
(47) J-P Chrétien, Rwanda, Les médias du génocide, op.cit.pp.267-289
(48) Laure Coret e François-Xavier Verschaeve (dir.) L'horreur qui nous prend au visage. L'Etat Français et le génocide au Rwanda, paris, Karthala, 2005, p. 482
(49) Aucun témoin ne doit survivre, op. cit. p. 160
(50) Kayimane, France-Rwanda: les coulisses du génocide, op.cit. pp. 129 e 133
(51) Aun témoins ne doit survivre, op.cit.p. 175
(52) Annuncio fatto al momento di un ricevimento organizzato per celebrare la festa nazionale del Génégal. (Ibid. p. 200)
(53) Chrétien, Le Défit de l'ethnisme, op.cit.p.91
(54) Kimonyo, Rwanda. Un genocide populaire. Op. Cit. pag. 474
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