L’infanzia nella discriminazione
Chi mi vede, mi ascolta o mi legge adesso è molto difficile indovinare il mio percorso. Sorrido spesso, ho un posto di responsabilità, sono piuttosto energica – i miei colleghi possono testimoniarlo – e posso dire che amo la vita e che la divoro avidamente. Eppure sono nata quando il Ruanda prendeva una piega molto brutta.
I soprassalti della fine degli anni cinquanta hanno segnato i miei primi anni. Ero troppo giovane per afferrare bene il senso degli avvenimenti, ma alcuni momenti hanno sicuramente lasciato il segno nella mia giovane memoria, e lo lasceranno per sempre. La memoria della bambina che ero ricorda il passaggio degli elicotteri per esempio. Gli elicotteri dei Belgi, si diceva, passavano e sparavano sulla gente che fuggiva e tentava di nascondersi nei cespugli. Alcuni parenti sono stati uccisi in questo modo. Non posso dire che allora capissi in pieno la gravità della situazione, ma ricordo perfettamente il rombo che irrigidiva gli adulti.
Nella nostra regione dell'Ovest, gli avvenimenti del 59 - così vengono chiamati - esplosero un po' più tardi ma durarono più a lungo. Questo causava spostamenti di popolazioni, la gente impaurita si radunava in una casa e radunava anche il bestiame. Per qualche ragione che ignoro, mi ritrovai dalla nonna con altri bambini di famiglia.
Ricordo un giorno particolare per me che ero bimba. La nonna aveva messo a cuocere il tradizionale taro ; ci mette molto a cuocere, sapete, il che è una vera tortura per i bambini. La preparazione è complessa e richiede tutta l’energia disponibile. Messa la pentola è sul fuoco, bisogna alimentarlo a lungo, per ore. L'odore accarezza le narici dal primo bollore e bisogna aspettare e aspettare. Noi dovevamo raccogliere legna per il fuoco, non dovevamo allontanarci molto dalla casa, c’era tensione; portavamo pezzetti di legno alla nonna e ogni volta le chiedevamo se potevamo mangiare, ma la risposta era sempre: “Non è ancora pronto, bisogna accudire il fuoco e aspettare che cuocia”. La cosa non finiva più e le ore passavano. Venuta sera, invece di metterci a tavola abbiamo dovuto nasconderci. Quella sera gli assassini avevano deciso di attaccare la casa della nonna. Dovemmo uscire in fretta e andare a nasconderci con nonna nella savana. Che cosa ha dovuto sentirsi dire nel nostro nascondiglio improvvisato ? Noi le dicevamo: “ E' colpa tua, hai aspettato troppo per servire il taro, e siamo scappati senza aver mangiato! Perchè non ce lo hai dato prima? Perchè farci aspettare così tanto?” Non capivamo la gravità della situazione.
Dopo un po’ siamo usciti dal nascondiglio e siamo tornati a casa. Là abbiamo constatato i danni: i “cattivi” non solo avevano distrutto tutto a casa della nonna ma, per colmo di sventura, avevano mangiato il taro e avevano rotto la marmitta di argilla, spandendo nella cenere e nella polvere i resti. Avevo fame e me la prendevo con la nonna. Durante la notte i vicini sono venuti a cercarci; abbiamo attraversato il fiume Kiraro, siamo andati a raggiungere il gruppo degli sfollati che si erano riuniti dai miei genitori (1).
Ero la più piccola di una famiglia numerosa e mi ritrovavo sovente nel gruppo dei miei nipoti, che erano della stessa età. Il gruppo dei bambini era circondato dagli adulti. Ho qualche immagine di questi momenti di angoscia per gli adulti, ma nulla di molto preciso: le mucche erano state riunite sulla collina e gli uomini le sorvegliavano, la mungitura era rapida e collettiva e ci si spartiva il latte alla meglio. Credo di ricordare che a volte non ce n'era abbastanza. Non ricordo quanto tempo siamo rimasti così in gruppo. Ma allora non tutti gli Hutu partecipavano alla caccia ai Tutsi. C'erano degli Hutu vicini che venivano ad aiutarci a fuggire, ci informavano degli attacchi che venivano preparati, prendevano le nostre cose, le custodivano e ce le restituivano al ritorno.
Gli anni della scuola elementare non ebbero nulla di eccezionale: certamente avevo dovuto adattarmi al discorso che ci ricordava senza tregua che eravamo Tutsi, dunque dovevamo stare a guardare e accettare lo stato di cittadini di second'ordine. Ero una brava scolara e verso la fine del primo ciclo di studi elementari dovetti pensare a come fare le superiori. Credo di essere cresciuta con la paura e non volevo sentir parlare di allontanarmi dalla regione di origine. Alla fine del ciclo c'era un concorso nazionale per selezionare chi poteva andare al liceo. Avevo fatto domanda nelle due scuole della mia regione d'origine, Kibuye (nell'ovest del Ruanda). Venni accettata al primo ciclo delle superiori. Questa ammissione coincise con le riforme politiche del 1972 che avevano creato dei posti di deputato, e la nostra regione aveva appena avuto qualche rappresentante al Parlamento nazionale.
Ero in questa scuola da un anno quando scoppiarono i moti e i massacri del 1973. Gli altri studenti si misero a scacciarci e a picchiarci, dicendo chiaramente che non c'era più posto in Ruanda per i Tutsi. Dovemmo rifugiarci nel convento delle suore che dirigevano la scuola. Alcuni fuggirono in Burundi, in Congo; io scappai verso casa nascondendo mia ogni tappa presso dei religiosi. Vissi il colpo di stato e la presa di potere di Habyarimana contro il regime presso i miei genitori. Non avevo mai pensato a fuggire dal Ruanda, anche se alcuni parenti si erano già lasciati uccidere e altri avevano preso la via dell'esilio. Alla mia giovane età io non avevo commesso alcun crimine: potevano scacciarmi da scuola, ma non da casa mia. Dunque rimasi. Alcuni mesi dopo la presa di potere di Habyarimana fu annunciata la riapertura delle scuole studi, bisognava tornare nelle scuole da cui eravamo fuggiti.
A scuola mi aspettavano due grandi sorprese: per prima cosa non c'erano più molti Tutsi, molti di noi avevano preso la via dell'esilio. Ma la sorpresa più scioccante, che ci riportò al nostro triste destino di Tutsi non amati, fu l’essere rifiutati dai nostri compagni Hutu. Lo dicevano chiaramente: non volevano più studiare con noi, non volevano più mangiare con noi, non volevano più dormire nello stesso dormitorio! Era un atteggiamento violento e determinato. Dovemmo di nuovo scappare nel convento delle suore, mangiare e dormire lì. Eravamo giovani e non davamo a queste esperienze un grande significato, eppure ne siamo stati segnati più a fondo di quanto allora pensassimo. Oggi quando ci penso mi chiedo come il mondo degli adulti possa lasciar usare questi metodi. Non ho mai trovato risposta. Col tempo i comportamenti si fecero meno ostili. Tornammo in classe e la vita di scuola riprese.
Avevo finito il primo ciclo della scuola secondaria, mi auguravo di restare nella regione. I miei voti mi permettevano di poter continuare la scuola, ma non volevo sentirne parlare. Fu un dramma per me scoprire che alla fin del secondo ciclo ero stata ammessa a una delle migliori scuole dell'epoca: era distante da casa, a Nyundo, nella prefettura di Gisenyi (Nord-Ovest). Dovetti andarci. Eravamo due Tutsi in una classe di una quarantina di ragazze, una certa Alexia Gahongayire ed io. Lo sapevamo perchè sovente veniva fatto l’appello dei Tutsi presenti in classe.
A Nyundo c'era un ramo scientifico e uno per segreterie. Il primo portava all'Università e per noi giovani Tutsi l'Università era inaccessibile. Le ragazze tutsi potevano superare l'esame alla fine degli studi secondari, ma non ottenere la borsa per l'università. Non volevo espormi al rifiuto, perciò dopo il primo anno invece di andare nella sezione di biochimica cui avevo diritto di accesso per i miei voti, decisi di orientarmi verso la sezione di segreteria. Marie-Jeanne, la nostra direttrice, non capiva. Mi diceva: “ Devi fare biochimica, Rose, sei dotata per questa materia, è un'opportunità per te”. Le rispondevo “ A che serve,accadrà come ai miei fratelli maggiori: quando avrò finito, non mi lasceranno entrare all'Università, esattamente come gli altri Tutsi che hanno finito i loro studi qui, e non troverei neppure lavoro con quel diploma. Farò il corso di segreteria e dopo la scuola mi metterò a cercare un lavoro, ho più opportunità di trovarne.” La direttrice insisteva e alla fine ha prevalso la sua idea. “ Tu farai biochimica, Rose, è tutto. Alla fine otterrai la borsa di studio per continuare gli studi all'Università, credimi. Se occorresse, te la otterrei io stessa.” Ho ceduto non perchè credessi alla sua promessa, ma perchè la discussione non era alla pari: Marie-Jeanne, la direttrice, era decisa a farmi cambiare opinione. Mi sono rimessa a studiare seriamente e ho finito il corso di biochimica con ottimi voti. Poi ho compilato la domanda per la borsa di studio per l'Università.
La delusione fu grande, ma non fui sorpresa: la mia domanda di ingresso all'università non ebbe risposta. Per una Tutsi che non aveva fatto documenti falsi per farsi passare per Hutu non c’era da sorprendersi. La direttrice della scuola non si rassegnò, mi trovò un posto da assistente dove facevo un po' di tutto, la segretaria, la sostituta dei professori assenti ecc. Questo mi permise di guadagnarmi da vivere, farmi un'esperienza professionale mentre aspettavo il momento opportuno senza scoraggiarmi. L'anno dopo rinnovai la domanda al Ministero dell'Insegnamento Universitario ma, nonostante la raccomandazione della direttrice Marie-Jeanne, non ebbi l'attenzione di chi decideva. Il terzo anno non andò meglio e Marie-Jeanne, la direttrice, si disperava.
Per studiare dovetti lasciare il Ruanda...
Io incominciavo a perdere ogni speranza, ma la mia protettrice non aveva ancora gettato la spugna. Cercò di aprire una via di aiuto per me senza più parlarmene, forse per paura della mia reazione se il suo tentativo non fosse riuscito. Anche per i documenti burocratici di cui aveva bisogno per me, si rivolse a un parente prete e a mio padre. Fecero tutto e un bel giorno mi annunciò che era tutto pronto per andare a studiare in Belgio. Aveva lì degli amici e insieme avrebbero finanziato i miei studi. Eccomi dunque partire per proseguire gli studi all'Università di Namur, Belgio, dal 1980 al 1984.
All'Università di Namur non erano tanti quelli che venivano dal Ruanda. C’era soltanto Charles Muligande, attuale membro del governo, ma neppure lui era stato mandato dal Ruanda: viveva in esilio in Burundi. Mi impegnavo a fondo perché avevo sempre desiderato studiare, ma anche perchè mi sentivo impegnata nei confronti di coloro che finanziavano i miei studi. Ero in un mondo completamente nuovo, dovevo trovare in fretta i miei punti di riferimento. Non voglio attardarmi più di tanto su questo punto, ma anche in Belgio ho avuto a che fare con la stupidità umana. Ho sperimentato lo sguardo del razzismo. Alcuni giovani Belgi mi consideravano inferiore; ricordo che una o due ragazze rifiutavano di lavorare con me in laboratorio o in ricerche di gruppo. Ma ho imparato a non prendermela. La mia unica arma: lavorare bene e avere buoni voti. E la cosa funzionava!
Dopo un po’ ho incominciato a conoscere altri studenti ruandesi: quelli che avevano diritto alle borse di studio dello stato ruandese e i rifugiati tutsi che erano fuggiti dalle diverse ondate di massacri a partire dal 1959. Dai nostri discorsi ho capito che avrei potuto trovare un altro mezzo di finanziamento. In effetti trovai la strada della cooperazione belga, per cui però occorreva la firma dell'Ambasciata del Ruanda in Belgio. Questa firma mi è fu rifiutata: mi spiegarono in kinyarwanda che ero sconosciuta per per loro, che non avevo diritto neppure ad una firma, per il fatto che non ero stata mandata dal governo ruandese. Mi sentii umiliata, ferita, ma non troppo scoraggiata. Quando raccontai la disavventura all’addetta della facoltà che mi aveva consigliata nella preparazione della pratica per la richiesta di borsa di studio, si ribellò. E promise di trovare un'altra via.
Mi mandò da una delle sue colleghe raccomandandomi di raccontarle esattamente ciò che le avevo appena detto. Lo feci. Mi ascoltò con attenzione a promise di fare qualcosa. Dopo alcuni altri passi e qualche ipotesi alternativa, trovammo un finanziamento per i miei studi, e potei liberare i miei benefattori da un peso e sentirmi io stessa più libera. Riuscii a dedicarmi col cuore in pace alla mia missione principale: studiare e riuscire.
Nel 1984 finii il secondo ciclo di studi universitari e tornai in Ruanda. Alcuni compagni in Belgio non mi capivano, e mi chiedevano che cosa che cosa andassi a fare in un paese che non voleva più la presenza dei Tutsi! Non avevo dimenticato le discriminazioni e le violenze subite, ma non volevo rinunciare al mio paese, sentivo l'obbligo di vivere a casa mia, vicino ai miei. Le scuole di Nyundo mi accolsero di nuovo, incominciai ad insegnare. Amavo il mio lavoro e mi ci dedicavo instancabilmente. Ma sapevo che potevo proseguire ancora gli studi e ad un certo momento la voglia di continuare si fece sempre più forte. Il mio direttore di ricerca, che aveva contatti in Ruanda, mi incoraggiò a ritornare all'Università di Namur per un terzo ciclo di studi. Ma bisognava trovare l’ “apriti sesamo”: una borsa di studio.
Ovviamente il governo ruandese mi rifiutò la borsa di studio, ma l'Università di Namur era disposta ad accordarmela. Ma perché il Ruanda non bloccasse di nuovo tutto, occorreva rientrare nella casella prevista negli accordi come “ visiting professor” dell'Università Nazionale del Ruanda, a Butare. Mi sono adattata a questa necessità e nonostante alcune provocazioni l'esperienza si chiuse positivamente . Nel 1989 ebbi infine la borsa per il terzo ciclo di studi. E tornai a Namur.
Ottobre 1990: sono in stage in Ruanda durante la guerra del FPR.
Ripresi gli studi in Belgio ma ogni pensiero, ogni interesse mi riportava al Ruanda. Tornai in Ruanda per uno stage di ricerca e mi trovai a Gisenyi con il mio direttore di ricerca quel famoso 1° ottobre 1990, quando gli inkotanyi(2) del FPR (Fronte Patriottico Ruandese) attraversarono con le armi in pugno la frontiera tra l'Uganda e il Ruanda. La radio nazionale annunciò l’aggressione dal'Uganda e ordinò alla gente di non uscire di casa. Capivamo la gravità della situazione. Con il mio professore andammo direttamente a Nyundo a cercar rifugio. Poco prima di arrivare, in un luogo chiamato Rugerero trovammo un posto di blocco: dicevano che cercavano piccoli inyenzi (scarafaggi), cioè Tutsi. Fortuna volle che non mi controllassero, forse perchè l'attenzione era tutta rivolta al bianco nell’auto. Entrammo nel seminario di Nyundo e vi rimasi nascosta un mese. Il mio insegnante era stato evacuato in fretta con altri cittadini europei.
Il 30 ottobre gli Europei evacuati poterono riprendere i loro posti di lavoro. Approfittai di un convoglio che lasciava Nyundo per Kigali, ma dovetti fare attenzione e avere molta fortuna. Non potevo correre il rischio di essere vista. Dormii da amici belgi. L’indomani dovevo partire per il Belgio. Uno dei problemi che dovevo risolvere era come recuperare i dati della ricerca che erano rimasti nella regione del lago Muhazi, ad Est di Kigali. Non volevo rinunciare a quei dati, ma non potevo neppure andar là. Un amico ruandese che non aveva paura andò a recuperarli e me li portò. Ero sollevata, ma dovevo ancora entrare nell'aereo: non l'avevo ancora spuntata. Ebbi la fortuna di essere presa in carico dal primo segretario dell'Ambasciata del Belgio in Ruanda in persona. Mi accompagnò all' aeroporto con la sua auto personale. Mi fece passare barriere impossibili da attraversare per i comuni Ruandesi. Ogni volta rispondeva con fermezza che riaccompagnava uno dei suoi studenti che tornava in Belgio. Ricordo che ad un certo punto alcuni gendarmi volevano “occuparsi” di me e farlo tornare indietro, assicurandolo che mi avrebbero portata all’aereo. Lui capì che non doveva fidarsi: mi avrebbero certamente fermata, così volle vedermi salire sull’aereo personalmente. Il suo status di diplomatico aveva molto peso.
Eccomi partita per il Belgio. All'aeroporto internazionale di Zaventem (Belgio) venni arrestata perchè il mio visto era scaduto nel periodo in cui stavo nascosta nel piccolo seminario di Nyundo. Dovetti discutere, telefonare, far arrivare documenti per essere finalmente rilasciatala dalla polizia belga. Raggiunta l'università, venni a sapere che la borsa era stata sospesa. Era una conseguenza diretta degli eventi in Ruanda, poiché il governo ruandese considerava in modo arbitrario che essendo Tutsi non potevo che essere una icyitso (complice, che agisce dall'interno per conto del FPR).
Dopo l'attacco degli inkotanyi del FPR, l'esercito e la polizia, aiutati dalla popolazione, setacciaronoil paese, massacrando e arrestando i “complici” degli inkotanyi qua e là, perquisendo le case dei Tutsi. Mio padre non sfuggì a queste operazioni. Oltre a essere un Tutsi, aveva anche installato dei pannelli solari. L’aveva fatta mia figlia, che non è più qui, per regalarmi un po' di luce. Mio padre dovette spiegare chi gli aveva dato questi “utensili strani”, se erano stati gli inkotanyi. Bisognava dimostrare come funzionavano, perché dicevano che era un dispositivo di ascolto e di trasmissione degli inkotanyi. Mio padre non ne capiva niente e spiegò che l’aveva fatta sua figlia che studiava in Belgio. Non ne capiva davvero niente: chiese a un bambino che era in casa di spiegare a questi signori come funzionava. Questo non fece che aggravare la cosa. Fu arrestato e imprigionato come icyitso o “complice” degli inkotanyi.
Quando uscì era scosso, ma sollevato dal fatto di ritrovarsi libero e di sapermi viva fuori dal Ruanda. Forse sentiva di vivere i suoi ultimi anni? Non posso esserne certa, ma da allora ebbe due preoccupazioni costanti: voleva organizzare il matrimonio di un nipote che aveva allevato con mia madre. E voleva rivedermi. Riuscì soltanto nel primo intento. Per quanto mi riguarda, ricevetti una lettera dettata da papà, le cui parole ancora mi risuonano nella mente: “ Bambina mia, sento il bisogno di rivederti. Se partissi senza rivederti, me ne andrei con molto dolore ma - cosa più grave ancora - ne lascerei a te uno più grande.” Non potei venire, volevo finire i miei studi per ritornare poi definitivamente. La mia preoccupazione non era soltanto accademica, riguardava anche l’aspetto finanziario e quello della sicurezza. Partire senza aver finito i miei studi significava un biglietto supplementare, che non potevo permettermi. Inoltre correre il rischio di tornare in Ruanda senza la certezza di uscirne nei termini di tempo significava correre il rischio di non ottenere il dottorato. Non volevo proprio correre questo rischio.
Nel 1992, quando tornai in Ruanda, era troppo tardi e papà non era più di questo mondo ...difficile dirne di più.
Aprile 1994: mi trovo ancora una volta in Ruanda.
Dopo il dottorato tornai in Ruanda dove uno dei miei professori belgi, frequentatore abituale dell'Università di Butare, aveva sostenuto la mia candidatura per sostituire un professore che era appena mancato. L' Università stava cercando e aveva chiesto a questo professore se aveva una persona da raccomandare. Quando disse di conoscere una studentessa che aveva appena finito il dottorato le autorità universitarie si mostrarono interessate. Ma quando mi presentai il rifiuto fu categorico: non volevano una persona come me. Cioè non volevano una Tutsi come me. Un dottore che termina gli studi e ritorna in Ruanda a lavorare, ai loro occhi non poteva essere che “uno di loro”. La sorpresa di questo direttore , di cui non farò il nome, fu grande e sgradevole. Me ne andai dispiaciuta, ma né sorpresa né scoraggiata. Andata a trovare un conoscente che occupava un alto incarico all'Università e gli esposi la mia situazione: non si rassegnò e volle aiutarmi. Conosceva il canale universitario e finì per farmi accettare nel posto che mi era stato accordato per le mie competenze e poi rifiutato per la mia etnia.
Iniziarono i corsi e dovetti superare le provocazioni e girarle a mio favore. Ricordo ad esempio che un giorno durante il corso un gruppo di studenti si mise proprio sotto la finestra della mia aula mettendosi a discutere ad alta voce. Volevano provocare la giovane professoressa tutsi e di Nduga (3) (contro le genti del Nord, dette Bakiga, di moda in quel periodo); le voci salivano di tono e gli accenti regionali erano fortemente sottolineati. Dovetti decidermi ad affrontarli. Uscii, li salutai avvicinandomi, proposi loro di entrare e di venire a scoprire che cosa faceva restare con me i loro compagni, mentre loro discutevano di qualche cosa che gli sembrava così interessante. Proposi di vedere prima il corso insieme, poi di discuterne. Alcuni accettarono la proposta, altri preferirono andarsene, ma la partita era vinta. Fare il mio lavoro, vivere con discrezione mi permisero di passare quel periodo senza troppi problemi.
Durante le vacanze di Pasqua potei finalmente andare a trovare un cugino che aveva avuto un incidente d'auto e si trovava a Gisenyi, precisamente a Kiguki. Dopo avrei tentato di raggiungere la famiglia a Kibuye, prima di tornare in facoltà a proseguire il lavoro. Mi trovavo a Gisenyi quando incominciò il genocidio dei Tutsi. Bisognava fuggire subito nel vicino Zaire. Dalle nostre camere sentivamo le grida dei cacciatori di Tutsi e i Tutsi che fuggivano, venivano raggiunti e massacrati. Sentivamo anche le esplosioni delle granate e i colpi d'arma da fuoco. Noi non vedevamo ciò che stava accadendo, ma sentivamo tutto e potevamo immaginare quello che stava succedendo fuori. Non ero nella mia regione di origine, nessuno mi conosceva e la mia piccola statura non rientrava nel prototipo tutsi. Questo mi facilitò nella fuga verso Goma, in Zaire. Da Goma raggiunsi il Burundi e poi il Belgio.
La mia Università mi accolse accordandomi una borsa di studio per la pubblicazione della mia tesi. Ottenni il permesso di soggiorno in Belgio e potei lavorare nel laboratorio universitario. Frattanto ero molto attiva nella mobilitazione contro il potere genocida e per l'assistenza al Ruanda in lotta. Ero entrata nella sezione FPR di Namur, dove allora cercavamo di allertare il mondo e di immaginare il seguito.
Nel luglio 1994 l'Esercito Patriottico Ruandese sconfisse il regime genocida, i cui rappresentanti fuggirono in Zaire, in Tanzania e nella Zona Turchese, istituita su richiesta della Francia. Feci il primo tentativo di rientro in Ruanda, dove tutto era rovine e desolazione. La mia famiglia, i miei amici, i miei conoscenti, le case - persino il paesaggio era stato devastato, non riconoscevo niente e nessuno e mi pareva di essere in un mondo completamente sconosciuto. Tornai in Belgio e chiesi lo status di rifugiata; mi sistemai, decisa a passar lì il resto della vita. Ma nel contempo continuavo a tentar di allertare l'opinione pubblica in seno alla sezione FPR di Namur. Incontravo molti nostri politici che tentavano di risollevare il Ruanda. Così un giorno seppi di esser stata scelta per il nuovo Parlamento ruandese, quello del dopo genocidio. Mi sembrava impossibile: la politica non era nelle mie aspirazioni. Risposi che al ritorno in Ruanda avrei insegnato, non avrei fatto politica.
Tornare a vivere in Ruanda dopo il genocidio.
Nella mia famiglia, tra i miei parenti, c'erano orfani, vedove, sopravvissuti che vedevano in me la speranza di ricominciare, di ritrovare una vita che sembrasse ancora possibile. Avevo sempre immaginato di tornare in Ruanda, recuperare i nipoti e le nipotine che erano riusciti a sfuggire al genocidio, portarli con me e Belgio e farli vivere lontano da questo paese che li aveva calpestati. Ma come prender loro e lasciare i loro piccoli amici di cui conoscevo i genitori e che sembravano aspettarsi da me che gli dessi la mano? Che fare di queste vedove che mi dicevano: “Che fortuna che tu sia qui, con te potremo combattere e rivivere”.
Prima di morire mio padre aveva deciso di affidare a me, la più piccola, la responsabilità della famiglia. Cosa che gli avevo contestato, ricordandogli che ero la più giovane, che avevo dei fratelli maggiori e che non vedevo che cosa avrei potuto farmene delle redini del potere famigliare. Mi aveva risposto, con calma ma con fermezza, che il capo famiglia si occupava degli orfani e delle vedove della famiglia, che un capo famiglia doveva trovare il cibo per quelli che non ne avevano, e aveva concluso: “Bambina mia, tutto questo tu lo fai già, ti chiedo di continuare quando non sarò più in questo mondo”. Inutile dire che le sue parole mi ronzavano nelle orecchie mentre mi accingevo a ripartire per il Belgio e a decidere quali bambini portare con me. Finalmente decisi di assumermi il ruolo che mio padre mi aveva assegnato. Andai a sistemarmi in Ruanda, cercando di trovare un tetto per me e per tutti i parenti che non lo avevano più. Dovevo trovare in fretta un posto all'Università per guadagnarmi da vivere.
Ma il Ruanda aveva bisogno di una struttura amministrativa e politica, anche se semplice, per riavviare una parvenza di vita, curare i malati, badare alla riapertura delle scuole, pensare come render giustizia, ecc. Occorreva pensare nuove leggi, e il lavoro in Parlamento finì per sembrarmi necessario; mi ci dedicai completamente. Il mio periodo al Parlamento ruandese non fu di tutto riposo: partecipai a molti dibattiti, contestai più di un progetto di legge, non esitando a crearmi nemici, ma mi sentivo pienamente nel mio ruolo.
Nel Ruanda post-genocidio la scelta era semplice: occorreva scegliere di vivere o di impazzire. Volevo vivere, ma la vita era una lotta senza fine. Bisognava affrontare lottando il ritorno dell’ etnismo in voga, prospettare qualche tipo di vita a tutte queste vedove che avrebbero dovuto vivere senza i loro mariti, certamente, ma anche senza l’abituale sostegno della famiglia. La legge doveva proteggerle: c'erano già vedove scacciate di casa perchè non avevano più né marito, né bambini da nutrire, e i cognati o i suoceri volevano recuperare le terre, le case ecc. A volte si trattava di famiglie che avevano preso parte al genocidio e che non volevano più farsi carico di una presenza ingombrante e minacciosa. Avevamo discusso una nuova legge sulla successione che era stata approvata per proteggere le donne. Le difficoltà erano tante, non era sempre facile seguire i dibattiti senza sentirsi rinchiudere nella situazione di sopravvissuta. Ma devo dire che sono felice di aver vissuto quell’esperienza. Presi parte alla costituzione dell'associazione dei sopravvissuti al genocidio, l’IBUKA: feci parte del direttivo sin dal primo mandato. Solo più tardi mi trovai in seno alla Commissione Nazionale Unità e Riconciliazione. Esperienza singolare per una persona nella mia condizione. Ci credevo davvero, perché non vedevo altre soluzioni: per vivere il nostro paese era condannato a far coabitare tutti i suoi figli, anche se una parte di loro aveva appena compiuto un fratricidio innominabile.
Il problema? La mia visione di un programma nazionale di ricostruzione presupponeva che tutti avessero coraggio. Il coraggio più rigoroso lo esigevo da me e dai miei simili, che dovevamo accettare di avvicinarci a coloro che avevano massacrato i nostri, ascoltar la loro narrazione delle circostanze e accettare di impegnarci a provare a convivere. Un diverso coraggio dovevano avere i carnefici che dovevano accettare di affrontarci senza machete, di raccontare ciò che avevano fatto ai nostri e alle loro spoglie. Racconto non facile neppure da ascoltare, eppure io ero una persona fortunata, non avevo ricevuto colpi di machete, non ero stata violenta né inseguita per settimane, né avevo assistito agli omicidi! Accettai la scommessa. Il nostro gruppo di commissari includeva rappresentanti di tutti i componenti la società ruandese. Iniziammo i viaggi all’interno, ma anche presso la diaspora ruandese all'estero.
Io che avevo paura di udire le atrocità di cui i miei erano stati vittime mi sono ritrovata a gestire le menzogne degli assassini e dei loro parenti, il rifiuto di parlare, il diniego con la D maiuscola! Nessuno sembrava sapere l’accaduto, nessuno sembrava aver ucciso, saccheggiato... Era spaventoso. Ma il peggio doveva ancora venire, quando andammo all'estero. Ricordo il viaggio in Canada, dove i cosiddetti “ambienti estremisti hutu” ci impedirono la discussione. Contestavano e trattavano da criminali noi, che venivamo dal Ruanda! Il mondo era al contrario, noi eravamo messi sotto accusa da parte di coloro che tutti gli indizi indicavano come presunti colpevoli di genocidio! Avevo appena provato l'amara realtà del negazionismo che è parte del progetto genocida.
Tuttavia non rinunciai, ma più il tempo passava, più ero cosciente del compito quasi impossibile di sopravvivere e di addivenire, dopo il genocidio, ad una vita dignitosa. Incominciai ad elaborare una filosofia spicciola personale: fare tutto ciò che ero in grado di fare, farlo al meglio che potevo, essere utile a coloro che contano su di me e proteggermi contro la follia che incombe ad ogni istante.
Ero riuscita a trovare un tetto dove dar rifugio a quante più persone possibile, a rimandare i bambini a scuola, assistere quelli che avevano bisogno di aiuto; ci sostenevamo a vicenda. Il solo fatto di sentirmi utile ad una piccola parte di questa umanità straziata mi dava tutta la forza di lottare per vivere:. Ho anche preso l'abitudine di leggere: trovo risorse nella lettura di certe vite, molto più maltrattate della mia e più utili: Nelson Mandela, Simon Wiesenthal, Martin Luther King o i sopravvissuti della Shoah in generale. Tutto ciò è entrato nelle mie abitudini e ne traggo la forza per andare avanti.
In alcune circostanze felici o infelici c’è sempre il rischio di lasciarsi andare e sprofondare nella depressione. Ma ogni volta qualche cosa viene a ricordarmi l’obbligo di non sprecare l’opportunità di vivere, che molti dei miei non hanno avuto. Cerco di dare un senso a ogni giorno, ain ogni istante della vita. Conosco le circostanze della morte della mamma, uccisa da un vicino, quasi un bambino di famiglia.... I miei fratelli e sorelle erano tutti sposati e con molti bambini. E' rimasto un bambino o due, a volte nessuno. Gli zii, le zie, i cugini e cugine, gli amici, le compagne di scuola, i vicini.... Io ho avuto la fortuna di rimaner viva; è una vita difficile, ma la devo portare avanti con tutta la dignità possibile nelle nostre circostanze.
Non chiedo vendetta, non chiedo che di poter vivere senza che qualcuno venga a dirmi come pensare, come agire. Faccio il meglio che posso con la mia storia, ed è già molto. Mi piace il mio attuale lavoro come capo dell'Ufficio ruandese per l'Ambiente. Preservare o riparare l'ambiente mi proietta verso il futuro, mi fa pensare che i nostri figli non vivranno ciò che abbiamo vissuto noi, ormai 15 anni fa.
Note:
(1) I bambini stavano con la nonna per proteggerli dalla promiscuità che regnava nelle famiglie degli sfollati, ma soprattutto dai rischi di aggressione. Non si immaginava che persone normali avrebbero attaccato dei bambini e una vecchia. Col tempo ci siamo dovuti arrendere all'evidenza: la nostra condizione inoffensiva non ci proteggeva.
(2) Inkotanyi: nome di battaglia di chi combatte con determinazione e furiosamente.
(3) Il Sud e l'Ovest del Ruanda sono regioni del Nduga, il nord contiene le regioni di Bugoyi, Burera e Rukiga. La discriminazione regionale si delineava tra Nduga e il nord o Kiga. Il presidente Habyarimana era del nord.
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