Di Faustin Rutembesa, Università nazionale del Ruanda.
Il genocidio dei Tutsi è oggetto di ricerche e di pubblicazioni fin dagli ultimi mesi del 1994.
Oggi sono disponibili centinaia di saggi e di libri di diverso livello. In questa massa di pubblicazioni si riscontra una costante preoccupazione: capire e spiegare come un tale orrore abbia potuto verificarsi in un paese i cui abitanti condividono da secoli la stessa lingua, le stesse pratiche culturali e lo stesso modo di gestire l’ambiente.
Nell’affrontare la questione del genocidio dei Tutsi c’è anche un altro elemento peculiare. Le vittime erano personalmente conosciute dai loro carnefici. Vittime e carnefici appartenevano spesso allo stesso villaggio e avevano da anni rapporti di parentela o di buon vicinato.
Nonostante l’abbondante letteratura la spiegazione del genocidio dei Tutsi è ostacolata da numerose difficoltà. Difficoltà legateall’approccio con cui si costruiscono le tesi esplicative. Ecco brevemente accennati i diversi tipi d’approccio apparsi subito dopo il 1994, che influenzano in vario grado, ma in modo non trascurabile, la comprensione del genocidio dei Tutsi.
Tipi di approccio.
Approccio cultural-naturalista.
Non si può comprendere tale approccio a prescindere dagli scritti degli esploratori, degli impiegati coloniali e dei missionari cattolici e protestanti. Questi scritti costituiscono un insieme documentale importante. Contengono elementi che hanno alimentato credenze e sotteso la visione razziale della società ruandese.
Il primo elemento è lo stupore con cui si è guardato al Ruanda. Gli autori di quegli scritti si mostrano sorpresi che nel cuore dell’Africa si trovasse un regno ben organizzato, che aveva tecniche agricole e di allevamento rispettabili e, per giunta, popolazioni di bella presenza.
Il secondo elemento riguarda l’esistenza di tre razze diverse. Nell’analizzare il progredire delle conoscenze europee sul Ruanda, Sylvia Servaes (1) puntualizza che tutte le narrazioni parlano della composizione razziale o etnica della popolazione, e della posizione di ogni razza nel contesto politico o sociale, come dimostrano le sezioni dedicate alla descrizione della popolazione. Queste insistono sulla bellezza fisica, mettono in luce gli elementi che la caratterizzano e li applicano esclusivamente ai Tutsi. L’agilità, la finezza del viso, l’eleganza del tratto e la chiarezza della pelle sono considerati criteri per distinguere i Tutsi dagli altri gruppi (2).
In queste descrizioni si trovano non soltanto confronti con gli Europei, gli Abissini, i Camiti o i Semiti, ma anche l’idea di un’immigrazione tardiva dei Tutsi. Questa è la supposizione formulata da John Hamming Speke, primo europeo a visitare la regione dei Grandi Laghi. ‘Fin dal 1863, quando “la scienza delle razze” è di moda in Europa, egli sviluppa la teoria della dominazione delle razze superiori su quelle inferiori in Africa. Senza la minima prova, basandosi solamente sul ritrovamento di individui più alti e di pelle più chiara nella regione dei Grandi Laghi, lui decide che gli Africani che somigliano di più agli Europei vengono dal sud dell’Etiopia come razza conquistatrice, portatrice di una civiltà superiore, e lega l’arrivo di questa razza alle istituzioni monarchiche della regione.’ (3)
Verso la fine del periodo coloniale, l’immagine del Ruanda aveva contorni definiti. Erano apparse numerose pubblicazioni a completare gli aspetti che mancavano negli scritti del periodo tedesco. In generale i Tutsi erano considerati razza conquistatrice, straniera, distinta dalle razze “negre”.
L’approccio cultural-naturalista affonda nell’interpretazione che divide Hutu e Tutsi in “entità etniche antagoniste”(4). Ciò porta a ritenere che il genocidio del 1994 sia scaturito dall’irriducibile opposizione fra le due principali “etnie” del Ruanda. L’esempio più concreto è il libro di Pierre Erny “Ruanda: Chiave per capire il calvario di un popolo”.
Nel tentativo di spiegare come il Ruanda sia arrivato ai massacri del 1994 Pierre Erny sviluppa un percorso per mostrare che quei massacri sono radicati in un “passato fatto di paura, rancore e odio’ fra Hutu e Tutsi (5). Per lui lo scivolamento nel genocidio è strettamente legato alla guerra scatenata dal Fronte Patriottico Ruandese nell’ Ottobre del 1990 e all’invasione del 1994. Insistendo sull’effetto di questa guerra sull’immaginario popolare, Pierre Erny torna costantemente al passato. In tutto il suo libro il passato rivela ora il dominio di un popolo da parte di una piccola minoranza, ora l’ideologia della superiorità etno-razziale e della vendetta, ora la cultura di negazione e di menzogna dell’aristocrazia Tutsi (6). Insomma, è come se il genocidio si potesse spiegare come la reazione di un popolo che, dopo aver ritrovato dignità e libertà, è costretto ad una regressione terribile, ad una caduta nelle tenebre e al ritorno all’oppressione (7).
Ci troviamo in presenza di una spiegazione che poggia su due lacune metodologiche. Innanzitutto non si fonda su fonti storiche e culturali che permettano di concludere che esisteva un’opposizione irriducibile e plurisecolare fra gli Hutu e i Tutsi. In secondo luogo sembra ignorare che, per aver efficacia e continuità, l’odio deve aver raffigurazione, ha bisogno di motivazioni e razionalizzazioni per trasformarsi in azione (8). Sono queste ultime che permettono di tracciare i confini dell’identità fra i membri di una società.
Infine questa spiegazione non individua il ruolo dei dirigenti e delle elite hutu nella costruzione dell’ideologia dell’odio. Insomma, questa spiegazione non mostra i meccanismi attraverso i quali si è passati dall’opposizione o dall’odio presunto fra le etnie alla politica di sterminio.
Approccio economico.
Si costruisce attorno alle condizioni sociali ed economiche degli anni dal 1987 al 1994. Si tratta in particolare di una demografia galoppante, del calo della produzione alimentare e della scarsità dei prodotti di prima necessità. I sostenitori di questa chiave di lettura attribuiscono al peggioramento delle condizioni socio-economiche due conseguenze importanti. Dapprima l’aumento dell’ansia nella popolazione, quindi lo sviluppo del banditismo e della violenza (9). Come si può notare, questa chiave di lettura stabilisce un legame di tipo causale fra le difficoltà economiche e il processo genocida. Ma il paragone con altri paesi mostra che le situazioni di alta densità e di frustrazione socio-economica non sfociano necessariamente nel progetto di sterminio di una parte della popolazione. La povertà e la sovrappopolazione possono favorire la violenza, ma non bastano a causare un genocidio.
Pur non essendo priva d’interesse, questa spiegazione non spiega la tragedia del massacro di migliaia di bambini, di anziani, di poveri e di disoccupati tutsi. Inoltre non permette di capire perché l’élite economica abbia svolto un ruolo di primo piano nell’organizzazione e nella messa in opera del genocidio dei Tutsi.
Pur rifiutando di vedere nel peggioramento delle condizioni sociali l’origine del genocidio, il libro di Filip Reyntjens (10) rientra in tale griglia di lettura. Dopo aver mostrato come il Ruanda abbia dovuto affrontare una doppia crisi tra 1987 e 1990, la crisi economica e le rivendicazioni democratiche, Reyntjens afferma che l’impasse non fu totale, cioè che il regime di Habyarimana sarebbe stato ancora in grado di risolvere in modo pacifico il problema. Ne consegue, secondo lui, che l’invasione del Ruanda da parte del Fronte Patriottico Ruandese (FPR) nell’Ottobre del 1990 fu il fattore scatenante del processo che ha condotto al genocidio. Quest’invasione avrebbe accelerato i mutamenti, fatto rivivere la vecchia diffidenza fra le due principali etnie e, infine, portato allo scoppio di tutte le crisi nella violenza (11).
Pur avendo il merito di studiare il contesto economico, sociale e politico, questa lettura presenta due omissioni fondamentali. Innanzi tutto nasconde il fatto che la politica genocida attuata allo scoppio della guerra si appoggiava su di un’ideologia e su pratiche che erano vive fin dal 1963. L’ideologia faceva dei Tutsi un’etnia straniera che minacciava in permanenza l’esistenza degli Hutu. Le pratiche consistevano nell’esclusione dei Tutsi e nella preparazione dell’organizzazione per l’eccidio. Inoltre questa spiegazione dell’origine del processo genocida non mostra come lo scoppio della guerra abbia obbligato il governo a scatenare lo sterminio di individui appartenenti al gruppo tutsi. Fa invece sospettare che la politica del governo sia sfuggita di mano, e che il genocidio sia il risultato dell’ accelerazione di una dinamica che lo stesso regime non poteva né prevedere né volere. Nessuno ignora però che il regime politico ruandese aveva messo in piedi una struttura amministrativa faziosa che copriva efficacemente tutto il paese e che esercitava un controllo effettivo sull’esercito, la gendarmeria e le milizie che aveva costituito.
Approccio politico o ideologico
I fautori di questa lettura sostengono che durante il processo di accesso del Ruanda all’indipendenza le tensioni esistenti fra le autorità e le masse si sono trasformate in conflitto di razza. Insistono sul fatto che l’etnismo scaturisce da questa ri-appropriazione di schemi razziali del periodo coloniale. La caratteristica principale di quest’etnismo è che il Ruanda si è costruito come una società chiusa e ha fondato il suo potere sull’odio per i Tutsi visti come gli oppressori nel passato, e l’eterno nemico interno (12).
Questa interpretazione porta alla conclusione che l’etnismo della rivoluzione del 1959 è la causa originaria del genocidio e il centro della sua spiegazione. Pur essendo necessario sottolineare lo svilupparsi dell’etnismo dopo il 1959, questa lettura non mostra a sufficienza come si sia passati da un etnismo per cosi dire ordinario a un etnismo omicida.
Alcuni autori hanno studiato gli elementi che hanno permesso la costruzione di una realtà immaginaria che legittimasse anticipatamente la distruzione dei Tutsi. Hanno evidenziato in particolare la propaganda contro gli accordi di Arusha, firmati il 4 agosto 1993 dal governo e dal Fronte Patriottico Ruandese, e la mobilitazione per l’assassinio del presidente del Burundi, Ndandaye, il 21 Ottobre 1993, e la manipolazione della paura e del risentimento (13).
Si può obiettare però che questi studi si sono limitati alla montata del progetto genocida. Il momento della realizzazione non è stato oggetto di esame approfondito. La realizzazione momento mostra delle brutalità e atrocità inflitte a persone che talora avevano legami di parentela o di vicinato con i loro carnefici. Queste atrocità presuppongono la presenza di alcune logiche specifiche nel genocidio dei Tutsi. È merito di Jean Hazfeld di aver dato il via a un’indagine non soltanto sulle vittime, ma anche sugli esecutori del genocidio del 1994 (14). La lettura del libro di Aurelia Kalisky permette di capire come sia avvenuta la trasformazione criminale di massa nella popolazione (15). Invita anche a spingere oltre la ricerca, per tentar di capire perché tanti uomini abbiano umiliato e torturato le loro vittime prima di ucciderle.
Tutto questo mostra che la spiegazione del genocidio dei Tutsi non è che all’inizio e che è ancora segnata da dispute accademiche o di interpretazione E’ positivo che alcuni studi recenti cerchino di superare queste dispute. Tuttavia anche in questi si vede che l’ambizione di formulare l’una o l’altra teoria non favorisce la comprensione del genocidio nella sua totalità.
Prospettive di ricerca.
Come scrivere la storia del genocidio dei Tutsi? In generale possiamo dire che la storia si scrive secondo regole prestabilite, al fine di capire gli eventi, ricostruire ed esaminare gli avvenimenti e i legami fra gli eventi.
In modo specifico la storia del genocidio si scrive a partire dalle testimonianze scritte e orali.
In particolare le testimonianze di persone che hanno potuto seguire lo svolgimento del processo genocida, le testimonianze di vittime e carnefici, in cui si è possibile trovare segni rivelatori sia nelle parole che nel modo in cui le parole sono associate.
Ecco perché le testimonianze costituiscono una delle fonti che meglio ci informano sul genocidio dei Tutsi. Ci forniscono informazioni sul momento del deteriorarsi dei legami di parentela e di vicinato, sulle atrocità e le brutalità subite e inflitte, sui luoghi del massacro, sul comportamento dei carnefici e sul tipo di armi usate. Come ha ben notato Yehuda Bauer, “ le testimonianze dei sopravvissuti sono cruciali nell’aiutarci a comprendere gli eventi. Sono estremamente utili e degne di fede se le si confronta con un gran numero di altre testimonianze che le avvalorano” (16)
In Ruanda il movimento di raccolta delle testimonianze è cominciato presto. Tuttavia le preoccupazioni di tipo giudiziario hanno spesso preso il sopravvento sulla conoscenza. Intendiamo dire che la raccolta e l’esame delle testimonianze dovrebbe proseguire in modo sistematico e che la loro conservazione dovrebbe essere meglio garantita. Le testimonianze consentono non solo di capire ciò che è successo agli individui, alle famiglie e alle diverse regioni del Ruanda, ma favoriscono anche il rinnovo dei dubbi e l’integrazione di certi aspetti nella spiegazione del genocidio (17).
A questo proposito dovrebbe essere sviluppata l’elaborazione di monografie locali. Tali studi mettono in luce alcune specificità come l’inizio dei massacri, l’identità dei principali animatori, la motivazione o il significato che i carnefici davano ai loro atti, le forme di crudeltà e di resistenza, e anche il bilancio delle vittime. Ciò mi porta a dire che la scrittura della storia del genocidio dovrebbe essere fatta con spirito di collaborazione fra più discipline. Come ricorda Yves Ternon, ogni specialista delle scienze umane ha metodi propri, un proprio campo di riflessione e un proprio linguaggio. Ma le domande che pone il genocidio sono cosi ampie che lo specialista non può pretendere di capirle tutte usando soltanto i propri strumenti. E’necessario uno studio interdisciplinare per snodare il groviglio delle cause e dei meccanismi del genocidio (18).
Scrivere la storia del genocidio è difficile perché si tratta di restituire l’evento in tutte le sue dimensioni. Come dice Yehuda Bauer a proposito della storiografia della Shoah, la difficoltà principale consiste nello “scrivere simultaneamente dall’alto (ideologia) verso il basso (esecuzione del crimine) e (…) nel presentare non soltanto una descrizione, ma una spiegazione”(19). Finora molti autori hanno privilegiato temi specifici come la violenza, la povertà o il ruolo della comunità internazionale. Credo che la scrittura della storia del genocidio dei Tutsi dovrebbe essere guidata dalla preoccupazione di giungere a una spiegazione più completa possibile.
Ci si può ispirare alle esperienze di analisi e spiegazione dei genocidi del secolo scorso in una prospettiva generale. La distruzione degli Ebrei d’Europa di Raul Hilberg o il più recente Gli Armeni: storia di un genocidio di Yves Ternon e Storia della Shoah di Georges Bensoussan illustrano la pertinenza di una prospettiva generale.
In Ruanda lo sviluppo di una tale prospettiva risponde a una doppia necessità. Prima fra tutte, assicurare la comprensione delle radici del genocidio, del suo svolgimento e delle ragioni del coinvolgimento massiccio della popolazione. In secondo luogo, disporre di uno strumento valido per l’educazione dei giovani e l’informazione del pubblico. Una spiegazione generale potrebbe servire come base per l’elaborazione di alcuni capitoli di testi scolastici o di trasmissioni radiofoniche e televisive.
Aldilà di tali obbiettivi, l’elaborazione di una storia del genocidio dei Tutsi è una forma di impegno. Se capiamo l’origine e la natura specifica del crimine commesso nel 1994, tramite questa storia potremmo anche scoprire e render noti gli aspetti che richiedono costante vigilanza collettiva.
Quattordici anni dopo il genocidio qualcuno teme che possa ripetersi. L’eliminazione dei sopravvissuti e dei testimoni, la persistenza dell’ideologia del genocidio, lo sviluppo di un discorso mirato a cancellare la parola e la realtà del genocidio e l’opposizione al processo di ricostruzione della memoria sono elementi che destano inquietudine.
Inoltre è proprio in questo periodo post-genocidio che il negazionismo si è sviluppato, su elementi che possono creare un’atmosfera perversa, favorevole alla legittimazione dell’odio e della violenza. La scrittura della storia del genocidio dei Tutsi deve mettere in luce tali elementi, cosi come gli interessi che li sorreggono e li alimentano.
L’ampiezza del disastro del 1994 significa che scriverne la storia costituisce una sfida enorme. Per parafrasare Georges Bensoussan(20), questa scrittura deve cogliere contemporaneamente il problema di una politica che ha posto i mezzi dello Stato ruandese a disposizione della distruzione di un gruppo intero, e quello del coinvolgimento di persone normali o comuni in un crimine eccezionale.
(1) Sylvia Servaes, ‘Etude ethnographique du Rwanda’, in Gudrun Honke, ‘Au plus profond de l’Afrique, le Rwanda et la colonisation allemande 1885-1919’, Wuppertal. Peter Hammer Verlag, 1990, pag. 97.
(2) V.A. von Gotzen, ‘Durch Africa von Ost nach West’, Berlin, D. Reimer, 1895, pag 158 e segg. Catherine Coquio ha brillantemente ricostruito il processo di elaborazione del mito dei Tutsi conquistatori e portatori di civiltà in Catherine Coquio, ‘Rwanda. Le reel et le recits’. Paris, Berlin, 2004
(3) Yves Ternon, ‘Guerres et genocides au XX siecle’, Paris, Odile Jacob 2007, pag 294. Si veda anche Edith Sanders, ‘The hamitic hypothesis, its origin and functions in time and perspective’, in Journal of African History, vol X n°.4, 1969, pagg. 521-532.
(4) Claudine Vidal,’Sociologie des Passions: Rwanda, Cote d’Ivoire,’ Paris, Karthala 1991, pag 21.
(5) Pierre Erny, Rwanda. Clès pour comprendre le calvaire d’un peuple’, Paris, L’Harmattan 1994, pag. 35.
(6) Ibid. pag. 17.
(7) Ibid. pag. 60.
(8) Philippe Burrin, ‘Ressentiment et Apocalypse. Essai sur l’antisemitisme nazi’, Paris, Seuil 2004, pag 13.
(9) Stefaan Marysse e altri, ‘Rwanda. Appauvrissement et ajustement structurel’ in ‘Cahiers africains’ n° 12 dicembre 1994 (Bruxelles et Parigi, L’Harmattan).
10) Filip Reyntjens, ‘L’Afrique des Grands Lacs en crise. Rwanda, Burundi: 1988-1994’, Paris, Karthala 1994.
11) Ibid. pagg. 89-103.
12) Colette Braeckman, ‘Rwanda. Histoire d’un genocide’, Paris Fayard 1994; Jean-Pierre Chretien, ‘Le defi de l’ethnisme: Rwanda et Burundi (1990-1996), Paris Karthala 1997.
13) Jean-Pierre Chretien (dir), ‘Rwanda. Les medias du genocide’, Paris Karthala 1995, (2° edizione rivista e corretta 1999); Human Rights Watch e Federation international des droits de l’homme, ‘Aucun temoin ne doit survivre. Le genocide au Rwanda’, raccolta a cura di Alison Des Forges, Paris Karthala 1999.
14) Jean Hatzfeld, Une saison de machette, Paris Seuil 2003.
15) Aurelia Kalisky, ‘D’un genocide a l’autre. Des references a la Shoah dans les approches scientifiques du genocide des Tutsi’, in Revue d’Histoire de la Shoah n. 181, 2004, pag. 431.
16) Yehuda Bauer, Repenser l’Holocauste, Paris Autrement 2002, pag 37.
17) Sul problema delle testimoninaze si veda Regine Waintater, Sortir du genocide pour reapprendre a vivre’, Paris Payot 2003.
18) Yves Ternon, L’etat criminel. Les genocides au XX siecle, Paris Seuil 1995, pag 11.
19) Bauer, op.cit. pag 126.
20) Georges Benoussan, Histoire de la Shoah, Paris PUF coll. Que sais-je? n° 3081, 1996, pag. 118.
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