Per secoli l’abbondanza di materie prime ha risparmiato alla Cina la necessità di cercarle altrove e quindi di proiettare il proprio potere al di là dei confini. Ma negli ultimi vent’anni le cose sono cambiate, dato che la domanda cinese di energia e di materie prime ha di gran lunga superato la capacità di produzione. Di conseguenza l’industria, l’edilizia e altri settori debbono acquistare energia e materie prime dall’estero, esponendo così l’economia cinese a forze economiche e politiche al di fuori del controllo statale. La Cina rischia di subire interruzioni nella fornitura di energia per iniziativa di potenze estere, e ciò ne mina la sicurezza dal punto di vista economico, sociale e politico.
Lo squilibrio tra domanda e offerta ha costretto l’industria cinese a cambiare radicalmente la geografia e la logistica dell’estrazione delle materie prime anche in patria. La produzione di energia e di materie prime è stata rapidamente spostata dalle province centrali più popolose alle “zone cuscinetto” dell’interno, sottosviluppate e scarsamente popolate. Lo Xinjiang è l’ultima frontiera di questo processo.
Regione di frontiera, lo Xinjiang avrà un ruolo fondamentale negli scambi lungo le nuove rotte terrestri che collegheranno la Cina all’Europa, come ai tempi della Via della Seta. Lo Xinjiang (mappa a lato) è in gran parte desertico ed è diviso in due dai Monti Celesti (Tian Shan). La maggior parte dei suoi 22 milioni di abitanti vive nei tre agglomerati principali: il Bacino del Tarim, a stragrande maggioranza uigura, a sud; la Zungaria e la città di Urumqi, a maggioranza han, a nord; la piccola valle formata dal fiume Ili, al centro. Oggi lo Xinjiang costituisce il 17% della superficie totale della Cina – è grande circa la metà dell’India – ma ospita meno del 2% della popolazione. La regione è troppo inospitale per accogliere un numero maggiore di abitanti, e neanche le moderne tecnologie agricole e industriali hanno migliorato la situazione.
Nello Xinjiang si trovano giacimenti di carbone non sfruttati fra i più grandi al mondo, che potrebbero portare la produzione della provincia a 750 milioni di tonnellate entro il 2020. Ma le difficoltà logistiche e i costi per il trasporto dallo Xinjiang alle zone di consumo sono enormi. Il governo cinese prevede di investire nei prossimi cinque anni circa 196 miliardi di dollari per ampliare le centrali e le linee elettriche ad alta tensione che collegano i giacimenti di carbone dello Xinjiang alle zone più popolate della Cina. Sempre nello Xinjiang sarà investita buona parte dei 392 miliardi di dollari stanziati da Pechino per l’espansione della rete ferroviaria.
In generale gli investimenti nel settore minerario ed energetico dello Xinjiang sono cresciuti di più del 33% nel 2011 e nel 2012, e ogni giorno imprese locali e statali annunciano il lancio di nuovi progetti. Tra gli ultimi spicca la proposta del Gruppo Sinopec, che intende investire 32 miliardi di dollari per la produzione di metano sintetico. Il governo regionale dello Xinjiang sta attualmente valutando questo e altri 35 progetti.
La costruzione delle infrastrutture nello Xinjiang per trasportare energia alle zone più popolate della Cina andrà di pari passo con l’ampliamento delle vie di comunicazione terrestri tra Cina e Asia Centrale. I nodi principali faciliteranno anche il trasporto dell’energia, che verrà principalmente intubata in gasdotti, di cui il più importante è il gasdotto Ovest-Est, che parte dal confine con il Kazakistan e raggiunge i delta del Fiume Azzurro e del Fiume delle Perle.
La China National Petroleum Corporation è in prima linea per la costruzione degli oleodotti e dei gasdotti nello Xinjiang e in Asia Centrale. La società gestisce già quattro progetti, tra cui l’oleodotto Kazakistan-Cina, lungo 2558 kilometri, e il gasdotto Kazakistan-Cina. Queste infrastrutture si allacceranno ai gasdotti nel nord e nel centro dello Xinjiang (mappa a lato).
La Cina ha contratti di acquisto del gas naturale dall’Uzbekistan e ha investito in progetti per l’estrazione di rame e petrolio in Afghanistan. Il confine tra Kazakistan e Xinjiang è un corridoio di fondamentale importanza per Pechino, attraverso il quale transita il petrolio proveniente da altri stati ex-sovietici, traffico che nel 2012 ammontava a 1 milione di barili al giorno. Gli investimenti cinesi in Asia Centrale saranno probabilmente quelli che avranno un impatto determinante sul settore energetico, sull’economia e sulla stabilità della Cina nei decenni a venire.
Tuttavia non basta costruire strade e gasdotti per assicurare la fornitura energetica sul lungo termine. La Cina dovrà scegliere un approccio multidimensionale per esercitare l’influenza politica, economica, culturale necessaria per difendere i propri interessi in Asia Centrale. Più la Cina investe in Asia Centrale, più ha interesse a mantenere la stabilità e la sicurezza nella regione, ma nei prossimi anni numerosi fattori – dalle tensioni etniche nello Xinjiang dovute alla massiccia immigrazione di Cinesi Han, al ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan previsto per il 2014 – minacceranno la relativa stabilità che l’area aveva raggiunto negli anni Duemila. Pechino dovrà stringere rapporti saldi di cooperazione per la sicurezza con gli altri stati della regione, e rafforzare il controllo politico e poliziesco nello Xinjiang.
Lo Xinjiang è sempre stata una terra ribelle e bellicosa. Da circa vent’anni numerosi episodi di violenza a sfondo etnico hanno contrapposto la maggioranza uigura e gli immigrati han e hanno dato filo da torcere al Partito Comunista. A mano a mano che si completeranno le infrastrutture e si inizierà a estrarre massicciamente gas, carbone e petrolio, crescerà l’impegno del governo per mantenere la sicurezza della provincia.
La zona più critica è il sud dello Xinjiang, soprattutto le prefetture di Kashgar e Hotan, dove risiede la stragrande maggioranza dei 9,5 milioni di Uiguri musulmani della provincia. Kashgar, che conta in totale 3,9 milioni di persone (quasi il 90% dei quali sono Uiguri) da anni è la base dei militanti islamici della regione e recentemente è stata teatro di attacchi, tra cui quelli del luglio 2011, durante i quali persero la vita almeno 19 persone. Probabilmente la situazione peggiorerà nei prossimi anni, in quanto l’immigrazione Han, l’industrializzazione e il conseguente aumento del valore degli immobili inaspriranno le tensioni etniche e sociali.
Pechino spera che sul lungo termine lo sviluppo economico pacificherà lo Xinjiang. Nel breve periodo, però, la crescita economica potrebbe provocare rivolte sempre più intense e frequenti. Il rinnovato interesse della Cina verso lo Xinjiang si tradurrà in un aumento delle forze dell’ordine schierate nella provincia, per garantire la sicurezza a ogni costo, soprattutto se la situazione nella regione peggiorerà dopo il ritiro degli americani dall’Afghanistan. Il possibile ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan e l’instabilità strutturale dell’Asia Centrale avranno probabilmente conseguenze negative in tutta la regione, fino al confine con la Cina (vai all’articolo).
Ciascun paese dell’Asia Centrale ha problemi propri e propri motivi di instabilità, che si tratti di conflitti interni a sfondo etnico, di conflitti religiosi di lunga data, o di imminenti crisi di successione. Gli interessi e l’influenza dei Russi potrebbero mettere il bastone tra le ruote a Pechino. E se il Pakistan non riuscirà a controllare la sicurezza delle strade in Waziristan, difficilmente il corridoio Kashgar-Gwadar sarà utilizzabile.
A mano a mano che aumenteranno la presenza cinese in Asia Centrale e la dipendenza di Pechino dalle risorse provenienti dallo Xinjiang e dall’Asia Centrale, la Cina si esporrà ai fattori di rischio che minacciano la regione e avrà sempre più interesse, ma anche più difficoltà, a mantenere la regione aperta e sicura.
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