I dati pubblicati il mese scorso dall’EIA americana (Energy Information Agency) mostrano che le importazioni di petrolio della Cina hanno sorpassato per la prima volta quelle degli USA. Le importazioni cinesi, necessarie per alimentare la rapida crescita economica, sono passate da 2,3 milioni di barili di petrolio al giorno nel 1990 a circa 11 milioni al giorno nel 2012. Gli USA consumano circa 15 milioni di barili al giorno, inclusa la produzione domestica. La dimensione della popolazione cinese fa sì che anche una minuscola crescita percentuale del numero delle auto private generi un impatto notevole sulla dinamica dei consumi di energia.
Le tre principali aziende energetiche cinesi – China Petroleum & Chemical Corp. (meglio nota come Sinopec), China National Offshore Oil Corp. e PetroChina – stanno espandendo il raggio e la portata degli investimenti e cercano nuovi partner nelle zone dove la produzione può aumentare nei prossimi anni: in Iraq, Brasile e Venezuela. Ma continuano a partecipare anche a progetti di sviluppo delle risorse energetiche nei paesi avanzati (USA e Canada) per essere sempre aggiornati sul mercato e sulla tecnologia di ultima generazione. Ad esempio China National Offshore Oil Corp. e Sinopec hanno investito decine di miliardi di dollari nello sviluppo dei giacimenti di gas da scisti degli USA.
L’aumento delle importazioni di petrolio e di altre fonti di energia, unito al necessario sviluppo del mercato interno e al ristagno delle esportazioni, farà calare drasticamente l’attivo della bilancia dei pagamenti della Cina. Sarà un processo lungo, che renderà Pechino più vulnerabile agli shock esterni, sia economici che logistici. Pechino ha deciso di investire nello sviluppo di canali di rifornimento e di trasporto via terra, attraverso la Russia e l’ Asia centrale, ma deve comunque tenere sotto controllo le vie di rifornimento sui mari, attualmente pattugliate dagli USA.
Gli USA invece stanno riducendo la propria dipendenza dalle importazioni di petrolio. Le aziende americane sono state pioniere di una rivoluzione tecnologica che ha fatto crescere la produzione del 40% in soli tre anni. Anche il Canada ha aumentato la produzione e ora esporta petrolio negli USA via terra. Gli USA sono tuttora interessati al mercato petrolifero internazionale e non intendono rinunciare al controllo delle vie di comunicazione dove transitano anche tutte le altre merci. Non interromperanno dunque i rifornimenti di petrolio dal Medio Oriente, tanto più che la California e gli altri stati della costa occidentale non sono ancora collegati alla rete di oleodotti e gasdotti interni.
La rivoluzione tecnologica è stata innescata dal grande aumento dei prezzi del petrolio degli ultimi anni, che ha indotto i produttori a trovare nuove soluzioni. Non è la prima volta che l’alto livello dei prezzi genera rivoluzioni tecnologiche di questo tipo. Negli anni ’70, dopo gli shock economici e la stagflazione causata dal grande aumento dei costi dell’energia voluto dal cartello dei paesi esportatori (OPEC), le aziende petrolifere svilupparono tecnologie per sfruttare i giacimenti di profondità in Messico, in Alaska e nel Mare del Nord. Negli anni ’70 il problema fu politico: l’Arabia Saudita e i paesi dell’OPEC diminuirono la produzione per far salire i prezzi e tenere in scacco l’Occidente – in particolare gli USA, scesi in campo a fianco di Israele nella guerra del Kippur. I paesi che non facevano parte dell’OPEC aumentarono la produzione e migliorarono le tecnologie per produrre di più. La quantità di petrolio disponibile sul mercato globale tornò a livelli sufficienti, i prezzi si stabilizzarono. Per riacquistare quote di mercato i Sauditi ricominciarono a produrre a ritmi molto maggiori, accumulando riserve di greggio e facendo crollare i prezzi globali del petrolio, che rimasero bassi fino all’anno 2000. Da allora la crescente domanda dei paesi in via di sviluppo ha causato un’inversione di tendenza facendo lievitare i prezzi.
L’aumento della produzione di USA, Canada, Russia e Brasile ha eroso la capacità dell’OPEC di influenzare i prezzi a livello internazionale. Arabia Saudita, Oman e altri stati della regione hanno incrementato notevolmente la spesa pubblica, finanziata con i petrodollari, per evitare di essere contagiati dalla primavera araba. Dunque debbono mantenere alto il prezzo del greggio, per ottenere maggiori introiti, ma non tanto alto da perdere quote di mercato e finire con l’incassare meno.
La crescente dipendenza della Cina dalle importazioni di petrolio potrebbe spingere Pechino, che tradizionalmente opta per una linea non-interventista nelle relazioni internazionali, a svolgere un ruolo più attivo in Medio Oriente. Al contrario Washington, potenzialmente autosufficiente, negli anni a venire avrà le mani più libere in politica estera.
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