Charles Taylor, ex presidente della Liberia, è stato trasferito in un carcere di massima sicurezza del Regno Unito, dove sconterà la pena a cinquant’anni di carcere inflittagli dal Tribunale Penale Internazionale per crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi durante la guerra civile in Sierra Leone – propaggine della guerra civile in Liberia – quando era presidente, dal 1997 al 2003. Si chiude così un decennio di tentativi di portare Taylor davanti alla giustizia, ma il processo rischia involontariamente di complicare la risoluzione dei conflitti armati futuri.
I conflitti in Sierra Leone e Liberia si possono definire tipicamente hobbesiani, guerre civili di tutti contro tutti. Signori della guerra come Taylor e i suoi alleati (tra cui l’ex leader libico Gheddafi) gestivano i ricavi provenienti dalla vendita dei diamanti e li usavano per acquistare armi e alimentare le loro avide ambizioni imperialistiche. Sono stati conflitti terribili e brutali, come testimoniano le molte immagini di sopravvissuti mutilati e di bambini soldato.
Dopo Taylor, la Liberia è stata governata in modo virtuoso dall’attuale presidente Ellen Johnson Sirleaf; le forze internazionali di peacekeeping e modesti investimenti stranieri hanno contribuito alla stabilità del paese, che è potuto tornare alla normalità. Di fatto, il Tribunale Penale Internazionale non ha avuto alcun ruolo nella risoluzione dei conflitti in Liberia e in Sierra Leone: il regime di Taylor è stato rovesciato dalle milizie provenienti dalla Guinea e dalla Sierra Leone e infine da una missione di peacekeeping gestita dai paesi dell’Africa occidentale.
Ai piani alti del potere, in Africa e altrove, il Tribunale è sempre più considerato un intralcio politico, un ostacolo alla risoluzione dei conflitti. Il processo a Taylor spinge altri dittatori a rifiutare l’intervento di mediatori internazionali. Nel 2003 Taylor accettò di dimettersi da presidente in cambio di un sicuro esilio in Nigeria. Il Tribunale fece però marcia indietro, e Taylor fu arrestato nel 2006. Temendo di fare la stessa fine di Taylor, altri dittatori braccati hanno preferito tenersi stretto il potere senza venire a compromessi, fin quando non sono stati rovesciati con la forza.
Il Tribunale Penale Internazionale è criticato per i criteri di selezione dei casi da processare. Invece di tentare di processare dittatori ancora in carica, il Tribunale si concentra piuttosto su leader che sono stati sconfitti, e lo fa molto tempo dopo che i crimini loro imputati sono stati commessi. Perciò i leader di Kenya – che ha proposto che i paesi africani revochino in blocco la loro adesione al Tribunale – Sudan e Zimbabwe si sono dimostrati molto più determinati a tenersi stretto il potere (e l’immunità che offre). Il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, che potrebbe essere processato dal Tribunale per le numerose violazioni dei diritti umani di cui si è macchiato, non vuole cedere potere al Movimento per il Cambiamento Democratico, il principale partito politico d’opposizione, ad esempio. In Libia Gheddafi ha continuato a combattere fino a quando è stato ucciso. Laurent Gbagbo, presidente della Costa d’Avorio, spodestato dopo la guerra civile degli anni Duemila e le elezioni del 2010 che l’hanno visto sconfitto, si era rifiutato di lasciare la presidenza. Ora è sotto processo all’Aia per crimini contro l’umanità, e affermato che ha soltanto cercato di difendere il suo governo legittimo dalla ribellione armata. Gbagbo è finito all’Aia perché catturato dai ribelli ivoriani sostenuti dai francesi, non per l’intervento del Tribunale.
Ora preoccupa soprattutto il conflitto in Siria, dove il presidente Bashar al Assad ha rifiutato tutte le offerte di esilio, consapevole di non avere una via di uscita che gli garantisca di evitare il processo.
Il Tribunale Penale Internazionale, come molte altre organizzazioni della comunità internazionale, ha perso rilevanza perché non riesce a contribuire alla risoluzione dei conflitti.
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