Il nazionalismo incalza, sostiene Robert Kaplan in un articolo per Strategic Forecasting. Gli accademici fanno un gran parlare di valori universali, i media raccontano il mondo attraverso la lente dei diritti umani, l'élite globale si incontra a Davos e si proclama capace di plasmare un ordine liberale in grado di sanare divisioni primordiali. Eppure il nazionalismo e altre tendenze esclusiviste come il tribalismo e il confessionalismo resistono, anzi prosperano.
Il nazionalismo è vivo e vegeto in tutto l'Estremo Oriente, dove stati moderni etnicamente vicini, come Cina, Giappone, Vietnam e Filippine, si contendono isolotti disabitati dell'Oceano Pacifico. I progressi della tecnologia militare (caccia, missili balistici, sistemi di sorveglianza, navi da guerra) hanno ridisegnato la geografia della competizione strategica tra Cina e India. Più che un’ondata di rivoluzioni democratiche, il Medio Oriente vive la crisi delle autorità centrali, per cui le identità etniche, tribali, religiose e confessionali assumono nuovamente un ruolo di primo piano.
Il lento deterioramento dell'Unione Europea, innescato da cinque anni di crisi economica, ha portato al riemergere di movimenti xenofobi di destra. Nel cuore dell'Africa, si teme che gli scontri nella Repubblica Centrafricana e nel Sud Sudan possano degenerare in una pulizia etnica su base religiosa e tribale. Evidentemente accademici, giornalisti e imprenditori parlano una lingua diversa rispetto a quella delle masse.
L'idea di un mondo in cui un'identità universale avrebbe avuto la meglio sui particolarismi è nata alla fine della Guerra Fredda e agli albori della rivoluzione delle comunicazioni, quando si sperava che stesse iniziando l'era dell'universalismo democratico e che le lotte ideologiche fossero un ricordo del passato. Si pensava che la rivoluzione delle comunicazioni − ovvero il rapido sviluppo di internet, degli smartphone, dei social media e dei viaggi aerei a basso costo − avrebbe ulteriormente rafforzato quell'unità globale. Ma la tecnologia non è portatrice di valori. Può servire a integrare come a dividere. Più gli individui con origini e valori diversi si incontrano, più si rendono conto non solo di quanto sono simili, ma anche di quanto sono diversi. La vicinanza, reale o virtuale, può accendere una profonda ostilità.
Così come la libertà.
La libertà dà potere non solo all'individuo, ma anche al gruppo. Quando un popolo si libera dall'oppressione, si riappropria della propria identità, che è anche etnica o settaria. Gli Americani − e le élite occidentali − pensano che tutti i popoli vivano la libertà come la vivono loro, ma questa più che un'analisi è una presunzione.
Il periodo immediatamente successivo alla fine della Guerra Fredda è stato caratterizzato da una serie di aspettative ingenue. In primo luogo quelle relative al Medio Oriente. All'inizio degli anni Novanta si pensava che sarebbero bastati i mass media commerciali – relativamente liberi dal controllo governativo – per placare i sentimenti anti-occidentali e le divisioni politiche, etniche, religiose della regione, soprattutto le ostilità tra Arabi e Israeliani. ‘Se i regimi dittatoriali controllassero di meno il pensiero delle masse, il Medio Oriente vivrebbe in pace’ − si pensava. In altre parole, occorre più libertà. Ebbene, i mass media commerciali furono effettivamente introdotti. Alla luce degli standard della regione, AlJazeera e AlArabiya erano network indipendenti modellati sul modello americano. Ma la loro linea di pensiero – almeno nella versione in lingua araba – risultò essere particolarmente ostile nei confronti dell'Occidente e degli Israeliani, più ancora dei canali governativi che avevano sostituito. In sostanza, le nuove reti davano voce alle vedute più ristrette della cultura araba. (Fatto che non dovrebbe sorprenderci, perché altrettanto succede alle reti TV commerciali in Occidente).
C'è un altro elemento della rivoluzione delle comunicazioni che l'élite non considera. Per definizione, l'élite è composta da individui attraenti e brillanti che, data la loro sofisticatezza e la loro disinvoltura sociale, accolgono con favore il cosmopolitismo in tutti i suoi aspetti. Gli esponenti delle élites non sono a disagio nemmeno nelle circostanze più insolite. Ma la maggior parte degli abitanti del pianeta non sono né brillanti, né particolarmente attraenti, dunque non sono molto sicuri di sé. Devono affrontare difficoltà quotidiane dalle quali trovano rifugio nella famiglia, nella comunità, nella religione o in qualche altra forma di gruppo solidale. In un'epoca in cui le tecnologie della comunicazione di massa alimentano volgari attacchi ai valori tradizionali – in modo diretto o indiretto, consapevole o inconsapevole – il senso di alienazione delle masse aumenta e porta gli individui a rifugiarsi ulteriormente in pensieri esclusivisti.
Non è quindi un caso che ci sia una reviviscenza dell'ebraismo ortodosso e della cristianità evangelica negli USA. Allo stesso modo rivive l'Islam ideologico in Medio Oriente. Che si tratti di trovare rifugio dalla cultura-spazzatura di massa in America o dall'occidentalizzazione del mondo mussulmano, gli individui hanno bisogno di un'ancora etica e spirituale per resistere alle forze dell'alienazione tecnologica. In Asia, forse la regione più tecnologicamente avanzata del pianeta, il nazionalismo interviene per riempire questo vuoto. Il nazionalismo è modernismo al cubo. Chi non si rifugia nella religione perché ha perso la fede in Dio e di conseguenza nell'immortalità dell'individuo, si rifugia in quello che il premio Nobel Czeslaw Milosz ha definito l' "immortalità collettiva" della nazione.
In un certo senso l'Europa è un esempio ancora più eclatante. In Europa stanno emergendo tendenze antieuropeiste di destra che dimostrano un'ostilità non soltanto culturale, ma anche politica nei confronti delle élite che dirigono l'impero-UE. I leader e i burocrati europei erano convinti che il nazionalismo fosse morto e che le masse europee, dopo due guerre mondiali, non volessero altro che superare le divisioni. Ma le masse hanno bisogno di un'ancora di salvezza che le protegga dal blando universalismo e dalla lenta islamizzazione del continente che l'UE ha finora permesso, e la trovano nella storia, nel nazionalismo, nell'identità religiosa.
L'alienazione generata dalla globalizzazione ha determinato il ritorno del nazionalismo, ma non è detto che questo neo-nazionalismo sarà violento e tossico come quello che ha pervaso l'Europa nei secoli scorsi. Il neo-nazionalismo potrebbe essere molto più diluito, proprio per l’influsso della globalizzazione che l'ha risvegliato. Potrebbe portare a un ribilanciamento in termini di identità personali e comunitarie. Non siamo soltanto una serie di individui indistinguibili che si incontrano in una sala congressi di proporzione globale. Abbiamo attributi linguistici, culturali, etnici e religiosi che ci differenziano.
La tensione tra cosmopolitismo e nazionalismo, tra universalismo ed esclusivismo, continua. Poco dopo la caduta del muro di Berlino, anticipando una futura unità globale, Milosz affermò che il fatto di essere nati nello stesso tempo, quindi di essere contemporanei, era un legame più forte rispetto all'essere nati nello stesso paese. Il legame temporale si dimostrerà più forte del legame di sangue o di credo? Questa domanda incombe su ognuno di noi.
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