In 100 giorni, tra l'aprile e il giugno del 1994, circa un milione di uomini, donne, bambini ruandesi, per lo più di etnia Tutsi, furono uccisi per mano dei loro connazionali Hutu, armati di machete che erano stati importati apposta dai capi politici che preparavano la carneficina. L’eredità del genocidio aleggia ancora sul paese, sull'Africa centrale e orientale, sul mondo intero.
La catastrofe ha obbligato i Ruandesi a ricostruire ex novo le istituzioni sociali, politiche ed economiche. Il Ruanda è cambiato radicalmente. Non solo l’economia è stata ricostruita – ora il paese cresce di circa l'8% l’anno – ma sono state ripensate e rifondate tutte le istituzioni.
Uno dei principali successi si è verificato nell'ambito della leadership femminile. Le donne stanno lasciando un segno profondo nella politica e nella società civile del Ruanda. Non sono più relegate in casa, l'unico luogo dove un tempo potevano essere influenti, ma sono diventate una vera e propria forza nelle amministrazioni locali e nel governo nazionale. Capire come e perché si è verificata questa trasformazione può insegnare molto ad altri paesi che lottano per superare patriarcalismo e oppressione.
La catastrofe in Ruanda fu il culmine di decenni di violenza e pregiudizio. Tradizionalmente la popolazione si era sempre divisa in due gruppi, Hutu e Tutsi, in base allo status socioeconomico e al tipo di occupazione. Furono i coloni belgi a cristallizzare queste divisioni, considerandole immutabili caratteristiche etniche e rilasciando carte d'identità dove era indicata l'appartenenza all’uno o all’altro gruppo. Ciò generò squilibri nelle opportunità ed esclusione istituzionale, inizialmente a favore della minoranza Tutsi, il che creò rabbia e invidia nella maggioranza Hutu. La rabbia e l’invidia furono ‘giustificate’ moralmente dai missionari cristiani, che sostenevano la maggioranza povera degli Hutu. Quando gli Hutu conquistarono il potere, lo schema si rovesciò. Dagli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta pogrom e feroci discriminazioni causarono l'esodo dei Tutsi verso i paesi vicini, soprattutto in Uganda.
Nei paesi d'adozione i Ruandesi fuggiti dalle persecuzioni in Ruanda si organizzarono per lottare per i propri diritti e la propria sicurezza; negli anni Ottanta molti parteciparono alla ribellione che portò al potere il presidente ugandese Yoweri Museveni, spesso ricoprendo posizioni di rilievo nelle milizie che sarebbero diventate il nucleo dell'esercito ugandese. Parte della diaspora sognava però di tornare in patria, e nel 1979 fondò in Uganda l'Alleanza Ruandese per l'Unità Nazionale, che diventò il Fronte Patriottico Ruandese nel 1987. Paul Kagame, rifugiato ruandese che lavorava nei servizi segreti dell'esercito ugandese, divenne il capo del braccio armato del FPR nel 1990. Nel 1994 il FPR guidato da Kagame entrò in Ruanda e pose fine al genocidio conquistando Kigali, la capitale. Kagame diventò la figura dominante del nuovo regime, prima come vice presidente e Ministro della difesa e poi come presidente, carica che riveste tutt'ora.
Ci sono pareri contrastanti circa la sua amministrazione, ma tra i successi spicca sicuramente il miglioramento della condizione femminile. Sette giudici della Corte Suprema su 14 sono donne. Le classi delle scuole primarie e secondarie sono composte in eguale misura da ragazzi e ragazze. Nuove leggi permettono alle donne di possedere ed ereditare proprietà e di trasmettere la cittadinanza ai figli. Le donne possono inoltre usare le finanze del marito come garanzia per ottenere prestiti, mentre i fondi pubblici per l'incoraggiamento dell'imprenditoria hanno aiutato le donne senza risorse familiari. Kagame, convinto sostenitore dell'importanza di una massa critica di donne al governo, ha affidato alle imprenditrici di successo ruoli chiave nell'amministrazione. Se gli viene chiesto perché abbia dato tanta priorità alle donne, fa riferimento agli anni dell'esilio, quando lottava per i diritti della sua gente, e risponde che i diritti delle donne non potevano certo essere trascurati. Molti dei leader di oggi sono stati cresciuti da madri sole nei campi profughi, prima del genocidio. In quegli anni terribili le giovani vedove esiliate dalla loro nazione sostenevano i loro figli, i fondatori del FPR. John Mutamba, funzionario del Ministero della famiglia e della promozione della donna, nel 2003 ha detto alla ricercatrice Elizabeth Powley: “Gli uomini che sono cresciuti in esilio sanno che cosa sia la discriminazione. L'eguaglianza di genere fa parte del nostro pensiero politico. Rispettiamo tutti i componenti della nostra popolazione indipendentemente dalla loro appartenenza, perché la nostra nazione ha imparato che cosa significa escludere un gruppo”.
Prima del genocidio, le donne che avevano raggiunto posizioni importanti in politica erano demonizzate e tacciate di voler minare le tradizioni del paese. Agathe Uwilingiyimana, Primo Ministro di etnia Hutu, fu uccisa il primo giorno del genocidio da assassini della sua stessa etnia.
Quando le forze del FPR entrarono a Kigali, i responsabili del genocidio fuggirono in Congo. Il Ruanda era straziato: c'erano cadaveri nelle chiese e nelle scuole, i cigli delle strade erano diventati tombe a cielo aperto. Ai sopravvissuti spettò il difficile compito di ricostruire un paese dove non c'era più traccia di normalità. I funzionari del governo andavano a lavorare tra pile di cadaveri, senza acqua corrente, con frequenti black out, e si contendevano le ultime risme di carta. Prima ci si occupò per quanto possibile di ripulire gli edifici, poi di rifondare le istituzioni. L'amministrazione doveva ripartire da zero, in quanto molti dei funzionari delle amministrazioni precedenti erano fuggiti o erano stati uccisi e i nuovi arrivati non avevano esperienza di gestione di uno stato. Un esempio: prima del genocidio in Ruanda c'erano 785 giudici, di cui solo 20 sopravvissero. Quando l'Assemblea Nazionale di transizione si riunì nel novembre 1994, nessuno dei 74 rappresentanti e soltanto 5 membri dello staff avevano fatto parte del Parlamento prima della guerra. In sostanza, il governo ebbe l'obbligo, ma anche l'opportunità, di ricostruire le istituzioni nazionali da zero.
Le prime a ottenere un incarico furono donne capaci e fidate, tra le quali Aloisea Inyumba, ministro della famiglia e della promozione della donna, Rose Kabuye, sindaco di Kigali, e Christine Umutoni, vice ministro della riabilitazione e della reintegrazione sociale. Le donne contribuirono anche alla ricostruzione dal basso: le madri si occuparono dei bambini orfani e senzatetto e altre donne diedero assistenza alle vedove. Le donne non si limitavano a pulire, ma ricostruivano. Mentre molti uomini sembravano incapaci di gestire la rovina, paralizzati dall’orrore della situazione, le donne presero ad agire per proteggere le loro famiglie e riavviare la vita.
Inyumba non aveva ancora 30 anni quando divenne ministro. Avviò un grande programma di adozioni per le centinaia di migliaia di orfani di tutte le etnie. Contribuì alla rinascita del paese non solo salvando i bambini, ma anche perché stabilì che a livello familiare non doveva più esistere la divisione Hutu-Tutsi. Poi, tra il 1999 e il 2001, fu incaricata di dirigere la Commissione di Riconciliazione e Unità nazionale. Non sapendo da che parte inziare, iniziò a viaggiare per il paese, parlando con la gente, ascoltando le loro opinioni.
Sette anni dopo il genocidio, il paese dovette affrontare la questione delle carceri sovraffollate, dove erano detenuti più di 600 000 uomini accusati di crimini di guerra. I processi non si riuscivano a celebrare in tempi ragionevoli. Riadattando modelli tradizionali, nacquero i tribunali Gacaca, in cui rappresentanti anziani ed autorevoli della popolazione giudicarono pubblicamente crimini minori, e anche le persone sospettate di aver partecipato al genocidio, inducendo gli assassini a chiedere perdono e a farsi carico delle vittime sopravvissute, in caso di necessità. Un'altra donna, Domitilla Mukantaganzwa, diresse il Servizio Nazionale delle Giurisdizioni Gacaca per dieci anni. Dal 2001 al 2012 più di due milioni di persone furono processate da questi tribunali, che spesso si riunivano in campagna, sotto un albero. I tribunali Gacaca hanno avuto un ruolo fondamentale nella ricostruzione della società ruandese.
Nei primi due anni dopo il genocidio le donne rappresentavano il 70% della popolazione adulta. Le vittime del massacro furono in maggioranza uomini, così come i responsabili del genocidio, fuggiti nei paesi vicini. Ma le donne mantennero la loro influenza anche quando ex combattenti ed esiliati ritornarono in Ruanda e la proporzione di genere si normalizzò.
La nuova costituzione stabilì che le donne dovessero essere come minimo il 30% in qualunque istituzione, incluso il Parlamento. Anche a livello locale successe lo stesso. Prima del genocidio, le donne non potevano partecipare ai consigli cittadini. Per aggirare questa situazione Inyumba decise di far affiancare i vecchi consigli cittadini da nuovi consigli di donne incaricate di questioni legate a istruzione, salute, sicurezza personale. Fattesi conoscere per la loro competenza, i membri di questi consigli concorsero poi per posizioni di prestigio a tutti i livelli, e molte di loro arrivarono a rivestire le più alte cariche politiche.
Alle prime elezioni nazionali dopo il genocidio, nel 2003, le donne ottennero il 49% dei seggi nella camera bassa del Parlamento. Alle elezioni successive le parlamentari che avevano occupato i seggi riservati alle donne usarono la loro influenza e competenza per farsi eleggere in quei seggi aperti a uomini e donne di tutti i partiti, così i seggi riservati esclusivamente alle donne furono assegnati a una nuova ondata di donne. Grazie a questa strategia, la rappresentanza femminile in parlamento raggiunse il 56% nel 2008 – e il 64% alle ultime elezioni del 2013!
Dopo essere state elette molte donne hanno mantenuto legami con le ONG in cui avevano lavorato. Gruppi come Pro-Femmes/Twese Hamwe, Réseau des Femmes e Rwanda Women Network fanno molto per l'educazione della popolazione, per lo più analfabeta.
Durante e dopo il genocidio centinaia di migliaia di donne furono vittime di stupri collettivi, o furono tenute segregate come schiave del sesso, e spesso dopo le violenze sessuali furono mutilate. Attivisti e studiosi di diritto, appoggiati da associazioni internazionali di tutela dei diritti umani, hanno chiesto che lo stupro collettivo fosse riconosciuto come atto di genocidio e che i responsabili di queste violenze fossero processati davanti al Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, istituito dall'ONU. Le loro richieste sono state accolte, facendo avanzare la civiltà giuridica internazionale.
Fonte: Foreign Affairs, aprile 2014.
I vostri commenti
Per questo articolo non sono presenti commenti.
Lascia un commento
Vuoi partecipare attivamente alla crescita del sito commentando gli articoli e interagendo con gli utenti e con gli autori?
Non devi fare altro che accedere e lasciare il tuo segno.
Ti aspettiamo!
Accedi
Non sei ancora registrato?
Registrati