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Queste immagini del fotografo sudafricano Pieter Hugo − pubblicate dall’International New York Times nell’edizione del 5-6 aprile 2014 – ritraggono fianco a fianco uomini che hanno partecipato ai massacri avvenuti in Ruanda vent’anni fa e parenti delle loro vittime.
Nell’immagine a lato, Viviane Nyiramana posa la sua mano sulla spalla di Jean Pierre Karenzi, l’uomo che ha ucciso suo padre e tre suoi fratelli. “Ha ucciso con altre persone ma è il solo che è venuto da me a domandare il mio perdono. Insieme ad altri assassini ormai usciti di prigione mi ha aiutato a costruire la mia casa. Prima mi faceva paura, ma ora l’ho perdonato, le cose sono tornate alla normalità e nella mia mente è tutto più chiaro”. Come molti altri Ruandesi, Viviane Nyiramana e Jean Pierre Karenzi hanno preso parte a un progetto dell’AMI (Association Modeste et Innocent), organizzazione cattolica no profit che fornisce sostegno a persone coinvolte a vario titolo nel genocidio e le accompagna in un percorso che spesso culmina con la richiesta di perdono alle vittime. Se la vittima riesce a perdonare, può contare sull’assassino pentito per qualsiasi piccolo o grande aiuto.
Evasta Mukanyandwi − nella foto a lato vicino all’uomo che ha bruciato la sua casa e tentato di uccidere lei e i suoi figli – ha affermato: “Lo odiavo, ma quando è venuto a casa mia, si è messo in ginocchio e mi ha chiesto perdono, sono stata commossa dalla sua sincerità. Ora se ho bisogno, lui mi aiuta. Quando ho qualche problema, mi rivolgo a lui”.
L’azione dell’AMI si inserisce in un più ampio progetto di riconciliazione nazionale promosso dal governo ruandese, utilizzando strutture non strettamente giuridiche, quali i tribunali gacaca (dal ruandese “sedersi e discutere di qualcosa”), ispirati alle corti locali tradizionali che risolvevano le controversie all’interno di villaggi o famiglie. Si parla in questi casi di “transitional justice”, ovvero della giustizia in una società che cerca di uscire da un periodo di criminalità di massa, basata sul confronto diretto tra vittime e imputati, per favorire la riconciliazione attraverso la richiesta di perdono da parte dei colpevoli.
Il sistema pare dare buoni risultati nel processo di riconciliazione, ma non riesce ad accertare la verità, a fare davvero giustizia, e non salvaguardia la memoria. Non c’è difesa per gli imputati, i giudici sono spesso privi di esperienze legali e sono eletti dalle comunità. Nel processo e nel suo esito ha un peso predominante il giudizio delle vittime. Ma in una società stravolta da avvenimenti così brutali come quelli del genocidio ruandese la riconciliazione è una necessità vitale.
Le foto di Pieter Hugo mostrano la vicinanza tra vittime e carnefici, nata da una capacità di perdonare e convivere che ha grande valore umano. Ma i volti di queste persone mostrano un dolore irrisolto e una riconciliazione forzosa, dettata dalla necessità: quella materiale di chi, rimasto solo al mondo, non saprebbe come sopravvivere, e quella spirituale di chi avverte l’esigenza di voltare pagina per continuare a vivere. Afferma Christopher Karorero (a destra nella foto di testata): “A volte la giustizia non fornisce una risposta soddisfacente, perché le sentenze possono essere viziate dalla corruzione. Ma quando si perdona volontariamente qualcuno, allora si è in pace una volta per tutte […] Da quando ho perdonato la mia mente è finalmente in pace”.
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