Vi proponiamo la traduzione di un articolo di Phil Clark, apparso l’11 giugno sul New York Times, perché affronta un argomento su cui è importante riflettere. Phil Clark è autore del libro “The Gacaca Courts, Post-Genocide Justice and Reconciliation in Rwanda: Justice without Lawyers,” e docente alla Scuola di Studi Orientali e Africani dell’Università di Londra.
Un giorno di aprile del 2011, circa 70 persone provenienti dalla comunità maidicola nel distretto di Amuria, nel nordest dell’Uganda, si ritrovano in una radura polverosa circondata da capanne di paglia. Sono venute per ascoltare la confessione di un giovane uomo che nel 2004 ha commesso crimini in quel villaggio e in uno vicino. A quei tempi faceva parte dell’Esercito di Resistenza del Signore, un gruppo di ribelli che ha terrorizzato il nord dell’Uganda da fine anni ’80 a metà anni 2000. Indossa una maglia tutta bianca. Un anziano del villaggio sta al suo fianco mentre l’uomo descrive i crimini di cui si è macchiato: due omicidi, uno stupro e l’incendio di una capanna. Le vittime e le loro famiglie sono sedute nelle ultime file. Con le lacrime che gli rigano il volto, l’uomo si scusa e chiede loro di perdonarlo, promettendo che il suo clan li compenserà con capi di bestiame e ricostruendo la capanna incendiata. Dopo una lunga consultazione, le famiglie delle vittime accettano le sue scuse e la sua offerta. Gli anziani dei due clan si raccolgono sotto un albero di karité e spezzano quattro lunghe lance, a significare che non ci saranno altri spargimenti di sangue.
Tre mesi dopo, in un mercato del villaggio nel distretto di Bugesera, nel sud del Ruanda, un prigioniero di mezza età in uniforme rosa è in piedi davanti a novanta abitanti del villaggio e una giuria popolare e confessa di aver ucciso tre persone durante il genocidio del 1994. Diversi superstiti del periodo si alzano per difenderlo dall’accusa di aver ucciso una quarta persona. La settimana successiva il tribunale tradizionale gacaca lo assolve dall’accusa di aver commesso quel quarto omicidio. Per gli altri tre viene condannato a quindici anni di prigione, ridotti a tre mesi di servizi sociali per aver confessato e per aver già trascorso nove anni in prigione in attesa del processo.
Questi non sono che due esempi dei numerosi processi locali portati a termine in Uganda e Ruanda per determinare i colpevoli di crimini di massa imputabili a comuni cittadini. Tra il 2002 e il 2012, in Ruanda le corti gacaca hanno processato 400000 persone sospettate di aver preso parte al genocidio in 11000 comunità: un tentativo di giudicare crimini di massa che, in queste proporzioni, non ha precedenti. Questo sforzo − così come i riti di riconciliazione in Uganda – segna una rivoluzione silenziosa nella giustizia in contesti di post conflitto, e una presa di distanza dall’ortodossia stabilita dai tribunali di Norimberga e Tokyo dopo la Seconda Guerra Mondiale. I processi che hanno avuto luogo in questi tribunali, dando vita al diritto penale internazionale moderno, hanno trattato le violenza di massa come un fenomeno top-down: la responsabilità dei crimini veniva attribuita alle élite politiche e militari che li avevano ordinati, piuttosto che ai soldati e ai civili che li avevano commessi. Si è ritenuto che gli esecutori non avessero fatto altro che ubbidire a degli ordini perché costretti. Quest’approccio è prevalso anche nella pratica della Corte Internazionale di Giustizia e della maggior parte dei tribunali ad hoc o ibridi, come vengono definiti: quello per la ex Jugoslavia, per il Ruanda, la Sierra Leone, Timor Est e la Cambogia. Anche la maggior parte delle commissioni di verità e di riconciliazione si sono concentrate sui responsabili di alto rango politico e militare. In pochi casi – come in Sud Africa, Guatemala, Sierra Leone e Timor Est, per esempio – si è presa in considerazione la responsabilità di criminali di basso livello e di membri delle forze di sicurezza. Ma quando ciò è avvenuto, si è trattato comunque di un’opzione di ripiego, messa in atto perché non si poteva costringere gli alti ufficiali a testimoniare.
Le forme processuali scelte in Uganda e Ruanda sono profondamente diverse: si concentrano sui criminali comuni e cercano di farli confrontare direttamente con i sopravvissuti. Questo approccio locale e personale tenta di dare una risposta alla diversa natura dei conflitti del mondo post bipolare, in cui le violenze su ampia scala sono commesse spesso da civili o membri di gruppi ribelli, organizzazioni paramilitari, compagnie di sicurezza private, gang armate, unità di autodifesa e gruppi di vigilantes, che talvolta non hanno catene di comando ben definite. Gli scienziati politici come Timothy Longman, Scott Straus, Lee Ann Fujii e Omar McDoom, che hanno cercato di capire perché nel 1994 centinaia di migliaia di Ruandesi abbiano commesso crimini atroci nei confronti dei loro vicini di casa, hanno messo in discussione l’idea che un genocidio sia innanzitutto il risultato di ordini imposti da un governo. Hanno individuato le molte motivazioni personali che possono indurre comuni cittadini a commettere omicidi, compresi l’odio etnico, la solidarietà comunitaria, l’avidità, la paura o l’ambizione.
Le violenze di massa sono caratterizzate da una crescente prossimità tra vittime e carnefici. In circa 800 interviste realizzate in Ruanda e Uganda tra il 2003 e il 2013, ho chiesto ai sopravvissuti chi considerassero come i principali criminali. La maggior parte di essi ha citato individui specifici – quelli che conoscevano di persona – che avevano brandito il machete o lanciato granate, non gli ufficiali senza volto che avevano ordinato quelle violenze. La stessa logica prevale nel post conflitto. Specie in piccole comunità agricole, come in Ruanda o in Uganda, carnefici e sopravvissuti spesso devono vivere a stretto contatto. E quando la sopravvivenza quotidiana dipende dalla coesistenza pacifica, la riconciliazione diventa una necessità. Ecco perché una delle caratteristiche principali dei processi in Uganda e Ruanda è il dialogo frontale. I criminali sono invitati a confessare i loro crimini, chiedere scusa e domandare perdono. Le vittime sono indotte a esprimere la loro rabbia direttamente ai loro carnefici, a interrogarli sui dettagli dei loro crimini e delle loro intenzioni di chiedere perdono. La speranza è che l’incontro diretto tra le parti e un regolamento dei conti alla luce del sole contribuiscano ad allentare le tensioni ancora esistenti e a prevenire future violenze. Le corti internazionali spesso hanno sede in luoghi lontani dai teatri delle violenze, poiché si ritiene che essere distanti dalle comunità colpite aiuti i giudici a essere più imparziali. L’intenzione è buona, ma non coglie a pieno il fulcro della questione: se uno degli obiettivi dichiarati del giudicare i crimini di massa è quello di riconciliare comunità divise, allora vittime e carnefici devono potersi confrontare direttamente e proprio là dove i crimini hanno avuto luogo.
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